Il lavoro è fonte di valori morali e spirituali, ma solo se a misura d’uomo
di Francesco Lamendola - 15/07/2013
Il fatto che la riflessione sul senso, sul fine e sulla dignità del lavoro umano sia così scarsa e lacunosa nel pensiero dei filosofi moderni è la miglior testimonianza dell’obnubilamento che si è impossessato della nostra civiltà e di quanto gli effimeri e pericolosi successi della tecnica e l’aumento dei beni materiali (ma a vantaggio, ricordiamolo, solo di una piccola parte dell’umanità) le abbiano fatto perdere di vista i valori che contano e senza i quali non può esservi autentico progresso, ma solo crescita quantitativa, disordinata e potenzialmente distruttiva.
Eppure, esistevano tutti gli elementi per rendersi conto di quanto ci si stesse allontanando dalla giusta prospettiva; c’era di che riflettere su come si stesse smarrendo il senso della dimensione umana, laddove ci si limitava ad inseguire i miti ingannevoli di un progresso materiale fine a se stesso, che rendeva – è vero – la vita più comoda sul piano materiale – anche se, lo ripetiamo, per una parte soltanto del genere umano, e a detrimento di tutte le altre specie viventi -, ma che allontanava sempre di più l’uomo dal significato spirituale della sua esistenza, lo alienava dal lavoro delle sue mani, lo imprigionava entro un rigido meccanismo produttivo – e, da ultimo, speculativo – nel quale era destino che finisse stritolato e fagocitato, ridotto a servitore cieco e obbediente di leggi impersonali che lo avrebbero degradato a semplice strumento.
Questo pericolo avrebbe dovuto apparire chiaro allorché, sulla scia dello sviluppo industriale del XX secolo, anche il mondo dell’agricoltura è stato investito dalla ventata della modernizzazione e il rapporto rispettoso, amorevole, quasi sacrale dell’uomo con la terra è stato sostituito da un rapporto di predazione, di saccheggio, di sfruttamento cieco e indiscriminato.
Giovanni Brotto, un parroco che è stato anche, per oltre mezzo secolo (dal 1955 alla morte, avvenuta nel 2010), consigliere ecclesiastico nella Coldiretti di Treviso, organismo che fin dal suo statuto si ispira alla dottrina sociale della Chiesa, ha parlato del valore morale e spirituale del lavoro agricolo in termini che si potrebbero estendere al lavoro in quanto tale, purché si tratti di un lavoro a misura d’uomo e non di sfruttamento o alienazione; e che potrebbero essere accettati e condivisi, in gran parte, anche da chi non muove da una prospettiva specificamente cristiana, ma crede nella dimensione spirituale della vita (da: G. Brotto, «Pensieri sociali sulla vita e professione agricola», a cura della Federazione Provinciale Coldiretti di Treviso, 1969, p. 21-24):
«L’attività agricola esige: pazienza nelle difficoltà; costanza nella fatica; solerzia nel trovare vie nuove; coraggio nell’affrontarle. Favorisce la semplicità di vita: gesto, parola, tratto, spontaneità, limpidezza; sviluppa i talenti della persona e la arricchisce moralmente. Ha un contenuto di carità, di servizio sociale a favore della giustizia e della pace nel mondo. La natura è occasione di ricreazione, di divertimento, di sviluppo, di contemplazione. Pio XII: “La terra ha prodotto nei secoli una categoria di persone sane di mente e di corpo”.
Le campagne, i “pagus”, si convertirono per ultime; ma sono sempre le ultime a scristianizzarsi. La tradizione religiosa fu sempre viva nel mondo rurale. Giovanni XXIII disse: L’attività agricola conserva l’integrità della vita religiosa, costantemente e schiettamente vissuta.
La Bibbia si muove, quasi interamente, sullo sfondo di una economia e artigiana. Sessanta “passi” del V. T. e 25 del N. T. illustrano aspetti tecnici, sociali, liturgici, religioso-morali dell’attività agricola. Il lavoro della è esecuzione di un comando di Dio. Realizza il piano divino di estendere la redenzione anche alle cose che, con il lavoro, vengono messe a disposizione e fatte servire alla utilità dell’uomo. È una collaborazione alla crescita del mondo. La terra è richiamo alla bontà delle cose. Esse sono un raggio della Bontà, Potenza, Sapienza divine. La fatica del lavoro agricolo assolve a un compito purificatore. Ha valore di merito. Si nobilita e libera mediante il progresso messo a servizio dell’uomo. È un atto nobile, degno di rispetto, perché è attività di una persona divinizzata, di un figlio di Dio. La terra p richiamo mistico alla contemplazione, alla preghiera.
Ha un valore sacramentale. Le cose vengono da Dio, sono per noi; recano l’impronta di Cristo che nella umanità le ha consacrate. Sono segni visibili di realtà invisibili, spirituali. Hanno un messaggio per noi: l’aratro è immagine della croce; i solchi sono i cuori scavati dal dolore, il granaio è il regno di Dio, l’acqua simboleggia la grazia, il fuoco l’amore, la luce la verità, le tenebre il peccato, il sale la bontà, l’olivo la pace. Sotto le mani di Cristo tutto si trasforma: l’acqua in vino a Cana, il vino in sangue nel Cenacolo, il pane nel Corpo di Cristo. La terra solidarizza con l’uomo nel premio o nel castigo, nella gioia o nel dolore. Con lui si esalta nella lode o trema per siccità e disgrazia. È, il teatro della nostra vita e santificazione. L’uomo lavora, ma è sempre “Dio il protagonista che dà l’incremento”. Pio XII: “Alla luce della fede, penetrando il senso religioso della creazione, si dà alla pietra una basse solida e si restituisce alla vita rurale l’equilibrio cristiano che fece a lungo la sua forza e stabilità”. Ecco perché nel mondo rurale la dimensione religiosa è sempre molto viva. In sintesi, l’attività del coltivatore è una professione completa perché sviluppa i valori materiali, tecnici, umani (intellettuali, sociali, morali, spirituali). È quindi in grado di rispondere alle esigenze della persona umana e di svilupparla. […] Non basta più un giudizio di quantità sulle cose possedute o prodotte. L’agricoltura è attività sulle cose vive e no, per trasformarle, moltiplicarle, distribuirle. Perfeziona l’uomo che quelle cose usa per vivere e crescere, perfeziona il lavoratore che su quelle cose, complesse e delicate, esercita la sua intelligenza; perfeziona il cittadino che, se riceve dagli altri, deve anche dare agli altri; perfeziona il cristiano chiamato a fare la volontà divina dominando le cose, consacrandole, purificandole, ridestinandole al bene di tutti, a contemplazione, a scala per salire alle realtà invisibili…»
Ci sembrano concetti, ripetiamo, largamente condivisibili anche da chi non muova da una specifica prospettiva di fede, ma abbia sufficiente obiettività per riconoscere il valore formativo, spirituale e morale del lavoro, di quello agricolo in modo particolare; solo l’accento posto sul “dominio” da esercitare sopra le cose ci sembra una nota stonata (anche da un punto di vista cristiano), perché non di dominio si dovrebbe parlare, ma di uso legittimo e rispettoso di quanto la terra, madre amorevole, mette a disposizione dei suoi figli.
Quando quelle parole venivano scritte, la sensibilità ecologica, purtroppo, non si era ancora adeguatamente sviluppata ed era diffusa l’idea, non solo nella cultura religiosa, ma anche – e soprattutto - in quella laica, che l’uomo abbia il pieno diritto di disporre da padrone delle cose, manipolandole a suo piacere; furono in pochissimi ad intuire che, da una tale filosofia, non poteva derivare che un progressivo snaturamento del giusto rapporto fra l’uomo e la terra, fra l’uomo e gli altri esseri viventi e, in ultima analisi, anche dell’uomo nei confronti dei suoi simili e di se stesso, in quanto anch’egli partecipe – almeno in parte – della realtà naturale.
In particolare, furono in pochi a rendersi conto che lo sviluppo industriale, concepito come una forma “naturale” di dominio sulle cose, avrebbe portato non solo ai disordini, alle contraddizioni e alle laceranti devastazioni, materiali e morali, di un “progresso” basato unicamente sull’aumento della produzione di fabbrica, ma anche allo stravolgimento della stessa agricoltura e della filosofia di vita del contadino. Furono in pochissimi a rendersi conto che, in un mondo ridotto a luogo di esclusiva concorrenza economica e di competizione sociale esasperata, e quindi anche a campo di battaglia dell’uomo contro la natura, il lavoro non sarebbe più stato fonte di valori morali e spirituali, ma avrebbe condotto a un progressivo inaridimento, a una progressiva alienazione, a una progressiva disumanizzazione del lavoratore.
Eppure, i segni premonitori c’erano tutti. Non era poi così difficile intuire che, una volta posta la massimizzazione del profitto al centro dell’orizzonte del lavoratore, il contadino non si sarebbe fatto scrupolo di trasformarsi in un nemico dichiarato della natura; che avrebbe fatto ricorso a quantità sempre più massicce di prodotti chimici, avvelenando la terra e i suoi prodotti, fino al punto da dover indossare un autentico scafandro per poter vendemmiare senza intossicare gravemente il proprio organismo; che avrebbe eliminato le siepi, dismesso le colture diversificate, abbandonato i vigneti più malagevoli di collina, per concentrare tutte le sue cure nella monocoltura intensiva, desacralizzando il rapporto con la terra e riducendolo ad uno sfruttamento sistematico e brutale; che avrebbe trasformato gli animali da fedeli collaboratori della sua fatica in schiavi da ingrassare, da mungere e da far rendere sempre di più, imprigionandoli in stalle “razionali” simili a luoghi di tortura, affidandoli alle macchine e riducendoli essi stessi a delle macchine muggenti, belanti e chioccianti.
E quel che stava per accadere nell’agricoltura, non era che lo specchio di quanto già si era verificato e continuava a verificarsi nel mondo dell’industria, dell’artigianato, dei servizi, delle libere professioni. Il lavoro si andava trasformando in un meccanismo puramente materiale, atto a produrre dei profitti e a immettere sul mercato non cose utili e necessarie, non cose belle e sane, fatte con amore e con virtù, ma cose sempre più inutili e perfino dannose, sempre più ingombranti e disumane, le quali, un poco alla volta, avrebbero trasformato il lavoratore in un automa senz’anima e degradato il lavoro stesso a una fatica ingrata e molesta, a una faccenda sgradevole e persino detestabile, a una prigione da maledire o a un non-senso da sopportare senza ombra di gioia, di speranza, di bellezza, di spiritualità.
Fu errore colpevole il non averlo visto; ma fu errore di tutti, a cominciare dagli uomini di cultura che, pure, avevano gli strumenti per lanciare un grido d’allarme; per proseguire con i sindacalisti, che si preoccuparono unicamente della giustizia sociale e disconobbero il valore spirituale e la dignità fondamentale del lavoro in se stesso; per arrivare agli economisti, agli amministratori pubblici e agli uomini politici, a null’altro interessati che ai falsi miti del “progresso”, della “crescita”, dello “sviluppo”, incapaci di avvedersi che, così facendo, contribuivano alla corsa verso il precipizio.
E che non vi sia stato alcun serio ripensamento nemmeno in seguito, quando i danni e le storture del modello adottato sono apparsi evidenti e ci hanno portati in prossimità di una crisi ecologica planetaria e, forse, irreversibile, lo dimostra il fatto che gli intellettuali (non osiamo parlare di veri “uomini di cultura”, categoria forse estinta), i sindacalisti, gli economisti, gli amministratori e i politici di oggi non hanno saputo fare altro che proporre correzioni pressoché impercettibili alla direzione catastrofica d’un tale sistema, parlando timidamente, e contraddittoriamente, di “sviluppo sostenibile” e altre sciocchezze del genere: come se si potesse conciliare il concetto di uno sviluppo materiale illimitato (e sottolineiamo i due aggettivi, sempre sottesi, di “materiale” e “illimitato”) con l’idea della sostenibilità, ossia di un modello economico, sociale e culturale che non sia in guerra perpetua contro la natura, ma in armonia con essa, in atteggiamento di rispetto verso di essa, capace di gratitudine e amore nei suoi confronti.
Sì, la natura tutta aspira alla redenzione, come afferma San Paolo in un celebre passo delle sue epistole; ma tale redenzione non si attua per mezzo di uno sfruttamento illimitato da parte dell’uomo, bensì mediante una pacifica, saggia e filiale collaborazione tra l’uomo e la terra, tra l’uomo e l’aria, tra l’uomo e l’acqua, tra l’uomo e le altre creature viventi. Non si tratta di convertirsi ad un naturalismo, perché non si vuol fare della natura una realtà assoluta, auto-sussistente ed autonoma; ma di una forma di spiritualismo che sappia vedere come l’uomo, che è parte della natura, anche se parte evoluta e cosciente di essa, non possa né debba esercitare uno sfruttamento selvaggio ed ingrato nei suoi confronti, ma debba porsi verso di essa in un atteggiamento di meraviglia, di gratitudine, di ammirazione, riconoscendo che essa gli è madre, anche se non è l’Essere dal quale ogni ente deriva e nel quale ogni ente trova il proprio scopo e la propria ansia di redenzione.
Perché l’uomo, a sua volta, non è una creatura auto-sussistente ed orgogliosamente autonoma: è creatura e non signore, né delle cose, né di se stesso; il suo atteggiamento verso il mondo non deve ridursi alla mera e presuntuosa “curiositas” (singolare il fatto che «Curiosity» sia il nome della sonda spaziale inviata recentemente sul pianeta Marte), ma deve ispirarsi alla “virtus”, fatta di senso del limite, di senso del mistero, di compassione e di amore verso tutte le cose, quelle che possono essergli utili e anche quelle che, in apparenza, non gli servono o gli sono addirittura ostili. Perché tutto ciò che esiste ha un significato; e, se è vero che l’uomo ha il diritto di difendersi dalle minacce che gli vengono dalla natura (virus, batteri, tumori), non per questo deve assumere le vesti del vendicatore o dello sterminatore: la sua azione deve essere proporzionata, lungimirante, consapevole. Non è ammissibile che egli, per combattere le zanzare, sconvolga l’intero ecosistema di vaste regioni terrestri; né che egli, per sperimentare nuovi farmaci, vivisezioni e torturi migliaia e milioni di altre creature viventi – quando, poi, le malattie che intende debellare sono proprio il risultato del suo modo arrogante e radicalmente sbagliato di porsi nei confronti della natura.
Ma quel che sta accadendo oggi, era già inscritto nei presupposti filosofici della modernità, fin dal suo sorgere: fin da quando la terra è stata vista solo come fonte di guadagno e come occasione di sfruttamento implacabile delle sue risorse, e fin da quando il lavoratore della terra è stato deriso dal cittadino, dal mercante, dal “borghese”: ridotto a zimbello di scrittori e intellettuali, a figura comica del teatro e della letteratura; inoltre, fin da quando l’uomo ha voltato le spalle alla sua condizione creaturale e ha preteso di ergersi a signore assoluto di un mondo desacralizzato, divenuto soltanto un deposito da saccheggiare e una discarica ove gettare i prodotti di rifiuto del suo “progresso”.
Non sappiamo se vi siano ancora i margini per rimediare a tale sbaglio colossale, per invertire la direzione di marcia, per ricostruire una giusta prospettiva spirituale, che restituisca valore, bellezza e dignità alla natura ed al lavoro umano. Sappiamo però che è uno sforzo che va fatto: ne va non soltanto della nostra sopravvivenza, ma anche della nostra anima.