Il Cavaliere ed i Poteri Forti
di Aldo Giannuli - 27/08/2013
Quando ho scritto che i nemici più temibili del Cavaliere non sono le mitiche “Toghe Rosse”, quanto i suoi colleghi finanzieri, ci sono stati commenti increduli: “perché mai i “poteri forti” dovrebbero avercela con il Cavaliere, che è uno dei loro e che gli ha garantito ottimi affari quando è stato Capo del Governo?” Intendiamoci: nessuno dice che Berlusconi abbia fatto scelte politiche ostili al capitale finanziario (figurarsi!) ed è, al pari degli altri, un “pescecane” (come i socialisti chiamavano lorsignori un secolo fa: il tempo passa ma i pescecani restano). Tutto vero. Però si dà il caso che per gli uomini d’affari (di buon affare e di malaffare) un collega, prima ancora che essere un “fratello di classe”, è un concorrente.
E questo può anche conciliarsi con una certa solidarietà di classe (“litighiamo fra noi, ma fronte compatto contro quei pezzenti dei lavoratori”: una musica già sentita), però ci sono cose intollerabili per cui non c’è solidarietà che tenga.
Ai suoi inizi, Berlusconi era perfettamente funzionale al grande capitale finanziario, perché si chinava a raccogliere quei capitali ingenti ma poco raccomandabili che giacevano inutilizzati, che il capitale più blasonato non poteva toccare direttamente. Diciamo che svolgeva un’utile servizio di lavanderia.
Dopo, però, ha cominciato ad allargarsi troppo. E passi per aver imposto la sua grossolana presenza nel salotto buono della finanza e per aver creato un impero mediatico senza precedenti (in fondo, lo aveva creato perché gli altri, a cominciare dalla Fiat, gli avevano ceduto le loro Tv). Quello che proprio non doveva fare, era la “discesa in campo”: per la finanza di tradizione, nessuno della categoria deve fare politica direttamente, perché diventerebbe un concorrente troppo forte e questo non sta bene. Lo impone un patto fra gentiluomini (oddio, gentiluomini… quasi..). E, infatti, il gruppo Mediaset è cresciuto sino a diventare uno dei primi due o tre del paese. Troppo.
Per di più, agli occhi degli aristocratici membri di diritto del club, Silvio è solo un miserabile parvenu, che si fregia del modestissimo titolo di Cavaliere come un Demetrio Pianelli qualsiasi. Vi pare che per uno così si possa sentire solidarietà di classe? L’uomo avvertiva il disprezzo di quelli che avrebbe voluto lo considerassero un loro Pari e ne soffriva. Ad esempio, non sopportava di non essere mai stato invitato a colazione dal mitico avvocato Agnelli. E così, quando nel 1994 divenne Presidente del Consiglio, disse ai giornalisti “Voglio vedere se, questa volta, l’Avvocato Agnelli non mi invita a cena”. E l’Avvocato, che era uomo di livida perfidia, lo invitò. Ma a cena offrì pollo freddo. E, magari, non invitò a tavola anche il giardiniere e l’autista, solo perché erano in ferie…
La storia è fatta anche di piccoli gesti simbolici che dicono più di molte dichiarazioni stampa. Dal 2000 al 2006, il grande capitale, Fiat in testa, si acconciarono a convivere con il cafone rifatto, subendo persino l’onta della elezione, a capo della Confindustria, di Antonio D’Amato che batteva il candidato della Fiat Carlo Callieri. Già nel 2006, la grande finanza non nascose le sue simpatie per Prodi (ricordiamo il violento scontro fra il Cavaliere e Diego Della Valle). Poi, di fronte al fallimento del governo Prodi, i “poteri forti” si rassegnarono al ritorno del Cavaliere, che, però, si dimostrò subito un pericolo pubblico anche per loro. L’immagine del paese crollava a livelli mai visti in 150 anni di storia nazionale e questo incide negativamente su chi lavora sulle piazze d’affari di tutto il Mondo. Nessun paese può permettersi il lusso di un capo di governo che diventa una macchietta. Dalla Cina, all’Inghilterra, all’Egitto i giornali riportavano vignette che avevano come protagonista un Berlusconi, diventato, ormai una maschera della Commedia dell’arte.
Quanto alla Ue, Sarkozy e la Merkel si incaricarono di rendere pubblico che del Cavaliere se ne parlava solo per ridere. Per di più, l’Uomo di Arcore, ossessionato dai suoi processi, imponeva nell’agenda politica solo deliranti progetti che lo rendessero improcessabile per qualsiasi cosa facesse, mentre ignorava del tutto la crisi finanziaria che stava per investire il paese. “La crisi? I ristoranti sono pieni, in aereo si fa fatica a trovare un posto…” ricordate?
Dal 2010 iniziò un pressing per liberarsene, nel quale era riconoscibile la mano non solo della Fiat o di De Benedetti, ma anche del gruppo Intesa-San Paolo, di Unicredit, del gruppo Pirelli, della Confindustria e degli organi stampa più o meno influenzati da ciascuno di essi. All’accerchiamento davano man forte anche importanti esponenti istituzionali: il Capo dello Stato, che sino al 2009 era rimasto abbastanza assopito (non rifiutando neppure la firma ad alle leggi berlusconiane più incostituzionali) iniziava a diventare iper cinetico, mostrando via via crescente insofferenza verso l’inquilino di Palazzo Chigi. Ed anche l’allora Presidente della Camera, Gianfranco Fini, entrò in aperta e diretta polemica con l’uomo con il quale aveva co-fondato un partito solo 11 mesi prima.
Ma ci furono anche altri importanti oppositori coperti (chiamiamoli così) del Cavaliere. Tanto per divagare, ci chiediamo come abbia fatto l’ormai celebre fotoreporter Antonello Zappadu ad eludere la sorveglianza di villa Certosa (istituzionalmente affidata alla Polizia di Stato) e scattare ben 5.000 fotografie.
Poi, nell’ottobre del 2011 arrivò il ciclone dello spread che rischiava di mandare l’Italia in default e, con essa, di far sfasciare l’Euro ipso facto. “The Economist” (che mi pare una cosa abbastanza rappresentativa degli umori del capitale finanziario europeo) dedicò al Cavaliere copertine al vetriolo, con l’invito piuttosto esplicito a togliere il disturbo. Nel Pdl iniziò una nutrita fronda, nella quale spiccava anche qualche autorevole nome in odore di Loggia.
A novembre lo spread esplodeva sino a superare i 600 punti. Beninteso: la situazione italiana era ed è difficile ed i mercati internazionali sono propensi a trattare il nostro paese con minore indulgenza riservata ad altri, quale che sia il governo in carica. Ma in quel picco c’era qualcosa in più che non era difficile interpretare: “se Berlusconi non se ne va, affondiamo l’Italia”.
Ma, nonostante tutto, il Cavaliere non intendeva ragioni, ed era pronto ad un voto di fiducia in Parlamento (magari confidando sulla consueta “moral suation” del suo blocchetto di assegni). Allora, giunse prontamente un argomento molto più convincente: il titolo Mediaset perse il 26% del suo valore in due giorni. Il terzo giorno il Cavaliere si dimetteva ed accettava di dare il suo voto a Monti.
La cura calmante ebbe un effetto piuttosto durevole sul Cavaliere, che si ritirò a leccarsi le ferite per diversi mesi. E questa volta le “Toghe rosse” non c’entravano proprio niente. Poi sono arrivate le elezioni di febbraio scorso, nelle quali, pur non vincendo, il Cavaliere ha ottenuto uno splendido successo (bisogna riconoscerlo). E questo, forse, gli ha montato un po’ la testa, facendogli pensare che stesse per tornare il suo momento. Ma aveva dimenticato le bombe ad orologeria che stavano per esplodere.
L’uomo non è tipo da arrendersi senza combattere e, nonostante una sentenza definitiva passata in giudicato, intende infischiarsene e restare sul palcoscenico. Una cosa che non ha nessun precedente mondiale, come ha ricordato un grande vecchio della finanza mondiale come George Soros (a proposito di simpatia del mondo finanziario per il Cavaliere). Anche “The Economist” non ha mancato di far sentire nuovamente la sua voce decretando che questa è “la fine del buffone di Roma”.
Ma il Cavaliere minaccia di fare il matto, di far cadere il governo e mandare all’aria troppi lucrosi affari (come le svendite di Eni, Finmeccanica ecc.) e bloccare quella riforma della Costituzione che sta cuore anche a tanti non italiani. Ed, allora, ci vuole un’altra dose di calmante, che è arrivata puntualmente lunedì con il titolo Mediaset che ha perso quasi il 7% ed è stato sospeso per eccesso di ribasso (“capito Silvio?”).
Può darsi che il Napoleone di Arcore decida in insistere contro tutto e tutti (anche se, probabilmente, i figli cercheranno di farlo ragionare). Ma, in questo caso, io al suo posto inizierei a temere per l’incolumità fisica… non sarebbe il primo.
Cavaliere, si convinca, la cosa migliore che può fare è piantare baracca e burattini, andare ad Antigua (non si preoccupi per il passaporto…) e dedicarsi a più sane occupazioni ed evitare di farsi rivedere in Italia. Vedrà che in quel caso nessuno verrà a cercarla cosi lontano… Poi, chissà, un giorno magari potrà anche tornare… per grazia ricevuta. Ma fra un po’ di anni. Quanti? Alcuni.