Qualunque pedagogia deve partire dalla domanda se la natura umana sia buona o cattiva
di Francesco Lamendola - 20/09/2013
Anche se la parola “pedagogia” è passata di moda, sostituita da espressioni molto più ampollose e pretenziose, quali “scienza”, o magari “scienze” (al plurale) dell’educazione, resta il fatto che una società non può fare a meno di sviluppare un proprio progetto pedagogico, pena il più o meno rapido scivolamento nel disordine e nell’autodistruzione; e che nessun progetto pedagogico può prescindere dalla questione preliminare, se la natura umana sia buona o cattiva.
Sì, lo sappiamo: posta così, la questione ha un che di brutale o, quanto meno, di sgradevole, per cui si preferirebbe ricorrere ad altre parole e ad altre formule; il “pensiero debole”, che, secondo alcuni, sarebbe la caratteristica essenziale della post-modernità, rifugge dalle alternative secche, dai rigidi aut-aut, nei quali vede, chissà perché, altrettante forme di ragionamento autoritario e, quindi, altrettante possibili sorgenti di pratiche repressive.
Sia come sia: lasciamo agli animi un po’ troppo sensibili di turbarsi per il suono delle parole e andiamo dritti al nocciolo della questione: se pensiamo che la natura, e quindi anche la natura umana, sia buona in se stessa, così com’è, allora è evidente che il compito dell’educazione non sarà altro che quello di favorire, assecondare e incoraggiare le tendenze naturali presenti nell’anima del bambino; se, viceversa, pensiamo che la natura non sia buona in se stessa, anzi che sia cattiva, allora ne consegue che l’educazione deve correggere le tendenze naturali del bambino, deve disciplinarle, deve orientarle secondo certe linee che non sono, esse stesse, “naturali”, ma frutto di un pensiero critico nei confronti della natura stessa.
Esistono, in realtà, sfumature intermedie fra queste due posizioni estreme, però resta il problema di fondo: incoraggiare o correggere la natura umana. Da qui non si scappa, e chiunque si interessi all’azione educativa non può non sentirsi chiamato a prendere posizione: non si tratta, infatti, di un problema puramente speculativo e meno ancora ideologico, ma di una questione che ha delle evidenti e immediate ricadute sul piano pratico.
Ora, tradizionalmente le due scuole di pensiero suddette vengono identificate con quella illuminista e con quella cristiana: secondo la prima, che risale a Rousseau (ma, prima ancora, agli umanisti e a Socrate), la natura fa bene ogni cosa e il compito del maestro si riduce a favorire, nel bambino, il massimo apprendimento possibile da parte di essa; secondo la seconda, che risale a San Paolo e, più ancora, a Sant’Agostino, la natura è imperfetta, è ferita dal peccato e spinge l’uomo verso il male, in maniera più o meno irreversibile e inevitabile.
Qui entrano in gioco le profonde differenze fra la teologia protestante e la cattolica. Quella protestante risale al Sant’Agostino antipelagiano, quello più cupo e pessimista, accentuandone ulteriormente la tetraggine: afferma che l’uomo nasce peccatore e destinato alla dannazione e che mai, in nessun modo, potrebbe salvarsi, se non intervenisse gratuitamente la grazia di Dio: come afferma Lutero, il servo arbitrio incatena l’uomo al peccato, alla sua condizione miserabile di anima perduta; anzi, a rigore, egli è dannato ancor prima di nascere. La teologia cattolica vede le cose in tutt’altro modo: pur negando che l’uomo possa salvarsi con le sue sole forze, come sosteneva Pelagio, non nega, tuttavia, la libertà, e quindi che egli possa, e anzi debba, collaborare alla propria redenzione; certo non si salva con le sole opere, ma anche per mezzo di esse. Il libero arbitrio, come sosteneva Erasmo da Rotterdam, è dunque salvo, anche se pagato a caro prezzo.
L’uomo non nasce dannato e il peccato originale è, sì, il peccato di ribellione a Dio dei nostri progenitori, che misteriosamente si tramanda fino a noi, ma è anche una inclinazione al male, e precisamente al peccato della concupiscenza, senza però che tale inclinazione si traduca automaticamente in un peccato “attuale”, ma solo potenziale.
La natura umana é fragile, questo dice il cattolicesimo: così fragile che, pur disponendo dei mezzi per scegliere il bene e rifuggire il male, l’uomo, di fatto, è inesorabilmente trascinato verso il male, perché incapace di resistere alla tentazione di desiderare le cose con passionalità e con mancanza di misura. Le cose, in se stesse, non sono cattive (Sant’Agostino, proprio lui, arriva a negare che il male sia una sostanza e ad affermare che esso è, semmai, un difetto di bene presente nelle cose, nei pensieri e nelle azioni); e la natura, in se stessa, non è totalmente cattiva. A sostenere quest’ultima posizione fu il manicheismo, non il cristianesimo, che, anzi, il cristianesimo combatté duramente, con tutte le sue forze.
Pertanto, quegli storici della pedagogia i quali sostengono che la concezione cristiana della natura è intrinsecamente pessimista, dovrebbero evitare le generalizzazioni e operare gli opportuni distinguo. Se il cristianesimo avesse della natura una idea radicalmente negativa, non si capisce come Dio, per esso, avrebbe attuato il suo piano di redenzione non al di fuori o al di sopra della natura, non contro la natura, ma all’interno della natura, con una radicalità assoluta - che era scandalo per i Giudei e follia per i Greci -, cioè facendosi uomo egli stesso, nel senso più pieno del termine e caricandosi di una umanità esposta a tutte le tentazioni, a tutte le fragilità, a tutte le debolezze che contraddistinguono la condizione umana, fino a subire la morte sulla croce. Né si capisce come avrebbe potuto designare una creatura umana, Maria, per accogliere nel suo grembo Dio fattosi uomo, sia pure stabilendo per lei sola il privilegio della redenzione anticipata, ossia il mistero della immacolata concezione.
E non solo l’uomo, ma la creazione tutta, geme e soffre come la donna fra le doglie del parto - per usare le parole di San Paolo -, in attesa della redenzione: la natura nel suo insieme, dunque, mira a una trasfigurazione, a un superamento, a trasformarsi in cieli nuovi e terre nuove; concezione cui Teilhard de Chardin ha dato il suo personale contributo, sostenendo che la creazione corre verso l’attuazione del Cristo cosmico, ossia verso la pienezza ontologica che, nella condizione presente, è ancora lontana e imperfetta.
Riassumendo: per il cristianesimo, la natura non è propriamente cattiva, e dunque non lo è neanche la natura umana; questa, però, è debole e incapace di risollevarsi da se stessa al di sopra delle sabbie mobili della tentazione e del peccato. Lo si vede bene nella filosofia che presiede alla costruzione dei «Promessi Sposi»: per Manzoni, l’uomo è più meritevole di compassione che malvagio in senso proprio – qualunque uomo, anche colui che compie il male del tutto scientemente, come l’Innominato prima della conversione: sbaglia e pecca, ma conservando sempre la nostalgia delle altezze e il rimpianto della perduta amicizia con Dio: e sono questa nostalgia e questo rimpianto a mostrare, paradossalmente, la sua grandezza, o meglio l’eccellenza originaria della sua natura, prima che il peccato la ferisse.
Quanto alla visione cosiddetta ottimistica della natura umana, essa si fonda su una antropologia “umanistica”: da Socrate a Montaigne, da Pestalozzi a Claparède, i suoi araldi sottolineano che la natura ha fatto bene ogni cosa e che l’educatore, pertanto, non ha altro compito che quello di agevolare l’opera della natura stessa, incoraggiando tutto ciò che, nel bambino, è spontaneo e, appunto, naturale. Da questa antropologia ottimistica discende una pedagogia “gioiosa”, rivolta a educare il bambino per mezzo del gioco, più che del lavoro; della libertà, più che dell’autorità; della spensieratezza, più che del sacrificio.
Piuttosto che una tendenza positiva, quella della pedagogia “gioiosa” si direbbe una tendenza reattiva: essa vuol reagire alla supposta repressione della educazione cristiana, al pessimismo agostiniano e paolino, alla mortificazione della carne e dell’intelletto, vera o presunta; vuole rivendicare la dignità, l’autonomia, la grandezza dell’essere umano, la sua capacità di puntare alle mete più alte e la sua intrinseca capacità di superare ogni ostacolo, affermando orgogliosamente le sue doti e la sua volontà sovrana.
D’altra parte, si faccia attenzione che non tutto il pensiero umanistico è pervaso da questo ottimismo antropologico: non lo è di certo il pensiero di Machiavelli, per esempio, secondo il quale l’uomo è una creatura meschina, invidiosa, vendicativa, sleale, pronta a rivoltarsi contro il benefattore, se solo questi mostra una eccessiva arrendevolezza, e altrettanto pronta a sottomettersi servilmente davanti al pugno di ferro di un padrone deciso e intransigente.
E non lo è di certo quello di Hobbes, che appartiene ancora, in gran parte, all’ambito culturale del Rinascimento (Rinascimento che, in Inghilterra, coincide con l’età di Shakespeare e dunque arriva fino agli inizi del XVII secolo), per il quale ogni uomo è lupo per gli altri esseri umani e la società, se non intervenisse lo Stato con il peso delle sue leggi e del terrore che è capace di ispirare, altro non sarebbe che il teatro di una eterna lotta di tutti contro tutti.
Machiavelli e Hobbes rappresentano l’altra faccia della medaglia del cosiddetto ottimismo umanistico; ma, a ben guardare, non c’è autentica contraddizione fra l’antropologia di un Marsilio Ficino e quella del Segretario fiorentino, perché ogni umanismo finisce per ricadere a terra, dopo ogni volo spiccato verso l’assoluto, dal momento che, come dice Dante (nel XXXIII canto del «Paradiso»), «non eran da ciò le proprie penne»: ossia l’uomo non può farsi centro e misura di se stesso, ma deve adeguarsi a una legge più grande di lui, senza la quale egli cade nel delirio della superbia e poi, inevitabilmente, nella depressione e nell’angoscia del fallimento.
Non abbiamo forse visto, nel corso della storia, che il pendolo della fiducia in se stesso spinge ogni volta l’uomo al di sopra delle proprie possibilità, e poi lo fa ripiegare molto al di sotto di esse, frustrato e mortificato? Non abbiamo visto continuamente che le svenevoli, dolciastre celebrazioni della natura “buona e perfetta in se stessa”, care a tutti i Rousseau che si impancano a grandi pedagogisti e poi mettono i loro propri figlioli all’orfanotrofio, per non avere il fastidio di crescerli da sé, sfociano nel dispotismo di un pensiero totalitario e disumano, che procede a colpi di ghigliottina e sopprime per decreto le libertà, in nome della libertà medesima?
E adesso torniamo al nostro assunto iniziale: alla questione pedagogica. Chi pretende di fondare l’educazione del bambino sulla gioia perenne, sulla leggerezza senza sacrificio, sulla libertà senza autorità, inganna il bambino e inganna se stesso; e tali sono, nella fattispecie, tutti gli indirizzi pedagogici di impronta più o meno scopertamente New Age, a cominciare dalle scuole steineriane, fondate sul delirante ottimismo antroposofico del loro fondatore, che altro non era se non l’estrema versione della pretesa umanistica di autosufficienza dell’uomo e di celebrazione della “santità” della natura, non a caso in chiave neo-pagana e implicitamente anticristiana.
La natura, in se stessa, non è malvagia, ma nemmeno santa: come si fa a sostenere una cosa del genere? Chi lo pensa, vuol dire che non ha mai osservato per più di qualche minuto la vita di un bosco, di un prato, di un fiume; non ha prestato alcuna attenzione alla crudeltà su cui si reggono le leggi della vita, che continuamente esigono il tributo di altre vite e che incessantemente producono sofferenza, angoscia, paura. L’erbivoro che viene divorato dal carnivoro non perde solo la vita, ma la perde con angoscia e con terrore: e questo è un argomento decisivo contro tutti i dolciastri cantori della natura buona e amorevole in se stessa. Oppure si vede che chi proclama simili teorie, non ha mai dovuto confrontarsi, nemmeno indirettamente, con il dramma di un figlio che nasce con delle gravi malformazioni, o con una malattia genetica che lo porterà alla tomba, fra terribili sofferenze, nel fiore degli anni.
No: la natura non è buona in se stessa: è ferita, così come lo è l’uomo, da un male che l’accompagna sempre, anche quando essa si mostra nel suo aspetto più lieto, nel suo volto più sereno. Diceva Leopardi che basta osservare un giardino nella stagione più propizia alla vita, la primavera, per scorgere ovunque, purché si sappia osservare, i segni della sofferenza: piante infestate dai vermi, piante che soffrono per eccesso o per difetto di luce, e così via. Nessuna creatura è perfettamente felice, mai; e la supposta bontà originaria della natura, così come la pretesa di addossare tutta la responsabilità del male alla cosiddetta “civiltà”, è una impostura o una sciocchezza, o entrambe le cose insieme, degne dei cattivi filosofi dell’illuminismo.
Un progetto educativi serio e responsabile, dunque, sa che la natura umana non va accettata così com’è: se lasciati a se stessi, i bambini ci metterebbero poco a tiranneggiarsi, a sopraffarsi l’un l’altro, a incrudelire a vicenda per soddisfare ogni loro capriccio. Il bambino non è un angelo, perché l’uomo non lo è: occorrere guidarlo, indirizzarlo, educarlo, alla responsabilità e alla libertà…