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Dalla civiltà dell’oro al folle sogno di un’età aurea: breve storia del denaro. E del tempo

di Gian Maria Bavestrello - 20/11/2013

Fonte: heimat

Diciamocelo, direbbe qualcuno: lo chiamiamo sterco del demonio ma lo adoriamo come un dio. Ci piace, ci lusinga, ci invita a sognare una vita migliore, e per questo passiamo gran parte della giornata a procacciarcelo. Invidiamo e spesso idolatriamo persone che lo posseggono in grande quantità.  Il denaro è all’origine di gran parte delle nostre gioie e dei nostri dolori. Dire che ne siamo schiavi non è tanto un’esagerazione quanto una locuzione particolarmente indicativa. Schiavi. Ma schiavi di cosa? O di chi?

Singolare è che se chiediamo a qualcuno “che cos’è il denaro?”, difficilmente otterremo una risposta soddisfacente. Amiamo il denaro ma non lo conosciamo, non ne penetriamo i segreti, non abbiamo confidenza con il suo “quid”.

 

La ragione di questo fatto è da attribuire alla natura di simulacro del denaro: esso simboleggia il tempo che dedichiamo al lavoro, il tempo che dedichiamo a soddisfare bisogni e desideri altrui. Tempo. Ecco la chiave. Il denaro è simbolo del tempo, è la trasmutazione in simulacro di un problema filosofico a sua volta arcano.

 

Del tempo sappiamo che è una delle condizioni necessarie al darsi della vita e della vita umana, che scorre via lungo il suo asse. Essere padroni del proprio tempo significa essere liberi, a differenza di coloro il cui tempo appartiene ad altri. Se il denaro è tempo, e il tempo è il discrimine della libertà personale, la domanda sulla proprietà del denaro assume allora contorni decisivi.

Il denaro, a chi appartiene? Chi lo crea? Su quale base? Con quale diritto? Rispondendo a questa domanda, rispondiamo anche alla domanda sul nostro destino di uomini liberi: se il denaro viene creato e imprestato da una banca centrale ad altre banche, e da queste ai cittadini, almeno gran parte del nostro tempo  – quello monetizzato e monetizzabile, decisivo per la nostra sopravvivenza -  è posto sotto l’egida degli istituti di credito. Che nell’imprestarci denaro ci imprestano anche un tempo, cioè una libertà, che ci sono stati sottratti per decreto. Applicando per di più un congruo interesse.

Non è sempre stato così, naturalmente: fino al 15 agosto 1971, giorno in cui gli USA introdusseso il sistema fluttuante, il denaro era convertibile in oro. Vigeva cioè un sistema di parità aurea in virtù del quale il valore in oro della moneta emessa era pari alla quantità di oro conservata dalla Banca Centrale. In questo scenario, prima di essere convertito in denaro, il tempo era trasferito, trasmutato, nell’ oro. Ne era avvolto, protetto, difeso, garantito. Nessuno, Stato o Banca, poteva creare moneta da sé, svalutando o inflazionando il valore del denaro e quindi del nostro tempo, sia di quello speso sia di quello “risparmiato” e accantonato.

Tempo, oro, denaro. Un trittico ancora indissolubile, nel nostro immaginario, dissolto nella realtà da iniezioni di cartamoneta basate su previsioni ottimistiche di crescita economica e speculazioni finanziarie. Un castello, è proprio il caso di dire, di carta, che si regge sulla sola fiducia sempre più traballante che i mercati ripongono nel valore della moneta e nell’autorità di chi la certifica.

Ernst Junger, nel suo “Eumeswil”, è molto chiaro: “L’anarca prende partito per l’oro, esso lo affascina come tutto ciò che si sottrae al controllo sociale”. “L’anarca ama l’oro non già come Cortez, ma come Montezuma, non come Pizarro ma come Atahualpa; si tratta di differenze tra fuoco plutonico e splendore solare, come veniva adorato nei templi del Sole. La qualità suprema dell’oro è quella della luce: elargisce i suoi doni con la sua sola esistenza”.

Privato del suo oro e di quella luce divina che si ergeva al di sopra degli Stati, l’uomo si ritrova in balia di un Potere la cui essenza risiede nella possibilità, sempre ritrattabile, di dare valore al tempo di ognuno agendo sul denaro: di crearne e di imprestarne in quantità smodata ad alcuni, di lesinarne le briciole ad altri. Potere di vita e di morte, su scala planetaria.

Nell’oro agiva invece un principio non di carità, di amore, di uguaglianza, ma di giustizia e di equità. L’oro era un giudice imparziale delle fortune – ancorché, spesso, militari – dei popoli. Premiava il rischio e l’audacia di chi ambiva a procacciarselo. Donava, con la sua luce, la libertà, e non l’affrancamento condizionato quando non illusorio dalla servitù.

Rompere le “nozze” fra tempo e oro è equivalso a liberare energie che non siamo in grado di controllare: a liberare Crono, il titano che divorava i suoi figli, padre di Zeus, da costui evirato e incatenato, colui che come il tempo che impersonifica divora generando, distrugge le sue stesse creature, rappresentando la fame divorante della vita e il desiderio insaziabile che in ultimo si ritorcerà – sotto forma di distruzione di una base monetaria fittizia, creata appunto su un’onda mefistofelica di”fame divorante e desiderio insaziabile” – contro coloro che hanno osato liberarlo dalle sue catene.

Questa è l’essenza e il destino del mito odierno della crescita, perorata da quella pseudo-scienza chiamata economia moderna  -  molto simile all’alchimia padroneggiata dai lestofanti che tra il XVI e il XII secolo si recavano a Praga, alla corte di Rodolfo II, promettendogli di moltiplicare l’oro nei forzieri – a cui  in pochi obiettano che le risorse di cui dispone il Pianeta sono limitate a differenza dei numeri che si possono imprimere su un foglio di carta.

Coloro che hanno tratto Crono fuori dall’ “oro” hanno promesso alle masse, sulla falsariga della tradizione orfica, un’epoca in cui gli uomini vivranno come dei, il cuore libero dalle preoccupazioni, lontano e al riparo dalle pene e dalle miserie. Un’età aurea. La fine della storia. L’assoluto dominio sul tempo. Hanno creduto di poter rubare all’oro il suo potere, la sua luce, di disporne impunemente, di banchettare sui suoi misteri e di poter agire in sua vece. E ora? Parafrasando Slavoi Zizek: benvenuti in tempi interessanti.