La necessità del collasso
di Michele Vignodelli - 23/11/2013
“Se fate notare che gli alveari funzionano bene per le api, o che i branchi funzionano bene per i babbuini e per i lupi, nessuno ci trova nulla da ridire. Ma se fate notare che la vita tribale funziona bene per gli umani, non sorprendetevi di venire attaccati con ferocia quasi isterica. Gli attaccanti non criticheranno mai ciò che avete detto, ma piuttosto cose che hanno immaginato che abbiate detto, per esempio che la vita tribale è “perfetta”, o “idilliaca”, o “nobile”, o semplicemente “meravigliosa”. Non importa che voi non abbiate detto nessuna di queste cose, si indigneranno come se lo aveste fatto.
La vita tribale in realtà non è perfetta, idilliaca, nobile o meravigliosa, ma ovunque sia trovata intatta funziona bene – bene quanto i modi di vivere di lucertole, procioni, oche o scarabei – con il risultato che i membri
della tribù non sono generalmente furiosi, ribelli, disperati, stressati e quasi psicopatici, dilaniati da crimine, odio e violenza. (…) La vita tribale non trasforma le persone in santi; permette a individui ordinari di vivere insieme con uno stress minimo anno dopo anno, generazione dopo generazione.” (
Daniel Quinn, Beyond Civilization).
“I Pirahà ridono quasi di tutto. Ridono delle loro stesse disgrazie: quando la capanna di qualcuno crolla durante una tempesta, gli occupanti ridono più forte di tutti. Ridono quando prendono un sacco di pesci. Ridono quando non ne prendono nessuno. Ridono quando sono sazi e ridono quando hanno fame. (…) Non sono mai esigenti o bruschi. Fin dalla mia prima sera tra loro sono stato impressionato dalla loro pazienza, dalla loro allegria e dalla loro gentilezza. Questa loro allegria pervasiva è difficile da spiegare, anche se io credo che i Pirahà siano così fiduciosi e sicuri della loro abilità a gestire tutto quello che il loro ambiente gli pone di fronte che riescono a godersi tutto quello che gli capita. E non certo perché la loro vita sia facile, ma perché si sentono sempre all’altezza di ogni situazione. (…) Così possono permettersi di vivere alla giornata, eliminando enormi fonti di ansia, preoccupazione e disperazione che assillano noi occidentali. Non hanno alcun desiderio di Verità o trascendenza. Questo concetto non esiste tra i loro valori. La verità per loro è prendere un pesce, ridere con i loro figli, amare un fratello, morire di malaria. Questo li rende più primitivi? (…) C’è un’interessante modo alternativo di vedere queste cose. Forse è la presenza di queste preoccupazioni a rendere una cultura più primitiva, e la loro assenza che rende una cultura più sofisticata. (...) E’ più sofisticato guardare all’universo con preoccupazione, come un rompicapo da risolvere prima che ci uccida, o godersi la vita come viene, in totale sintonia?”
(Daniel Everett, Don’t Sleep, There are Snakes)
“Le loro vite erano piene di asprezze fisiche, eppure la mia impressione complessiva era di una grande auto-indulgenza. Erano capaci di grandi imprese di resistenza e fatica fisica – ma solo se strettamente necessarie. Altrimenti i loro passatempi favoriti erano dormire, chiacchierare e fare musica. E amavano ridere. Tutti quelli che hanno incontrato i Pigmei hanno notato il loro senso dell’umorismo. C’era un evidente carattere anarchico nella loro società; quando cooperavano lo facevano per scelta. Chiunque non aveva voglia di andare a caccia, ad esempio, se ne stava a casa. La loro tolleranza per il comportamento individuale andava contro tutto quello che credevo fossero le basi di una comunità organizzata. Non c’era bisogno dell’ambizione; in realtà l’ambizione era usata solo come mezzo per provocare il riso. La loro unica forma di pressione sociale, se si può chiamare così, era la derisione, che era estremamente efficace. Uomini e donne avevano ruoli distinti, ma la società era essenzialmente egualitaria. Semmai, il potere volgeva leggermente a favore delle donne. (…) E quanto alla raccolta, era puro piacere. Le donne andavano a zonzo per la foresta come in un enorme supermercato – solo che tutto era gratis. E ogni giornata di caccia era piena di piccole avventure, eccitazione, momenti di idillica contemplazione o di risate. Non ce n’erano mai due uguali. (…) Mi resi conto che quello che mi sarebbe mancato di più era la compagnia dei Bayaka. Nei mesi passati ad Amopolo ero arrivato a considerarli il popolo più equilibrato del mondo. La loro imperterrita concentrazione a godersi ogni momento così come viene, senza preoccuparsi delle conseguenze, li rendeva liberi da ogni nevrosi. Per me erano un esempio di come il pieno potenziale dell’individuo possa realizzarsi senza i complessi vincoli imposti dalla civiltà moderna. All’inizio avevo trovato molte delle loro preoccupazioni meschine e banali. Ora, al contrario, erano le astruse macchinazioni del mondo a cui stavo per tornare a sembrarmi superficiali e insensate.” (Louis Sarno, Song from the Forest)
Non ho idea di come vivrà l’umanità tra cento anni, ma ne ho una molto precisa di come vivrà tra 5.000 anni: in bande di cacciatori-raccoglitori-orticoltori, con una popolazione di non più di cinquanta milioni. Ne sono certo perché questo stile di vita è quello più funzionale socialmente e conveniente sul piano ecologico. Il clima terrestre sta per ritornare bruscamente alla sua normale instabilità, dopo una eccezionale parentesi di quasi diecimila anni (l’ultimo periodo interglaciale, appena più caldo dell’attuale, fu caratterizzato da alcuni drastici raffreddamenti che cominciarono in modo estremamente rapido e durarono da alcuni decenni a vari secoli). Questo evento arriva accompagnandosi all’esaurimento di risorse chiave, esponendo le società industriali a una serie di collassi catastrofici.
La fiducia nella tecnologia, nel denaro e nella stessa agricoltura su grande scala verrà meno. Le metropoli non attireranno più nessuno e si tornerà a forme di sostentamento e di organizzazione sociale più consone alla natura umana.
Tutto questo processo sarà molto doloroso, e lo sarà ancora di più se ci ostineremo a illuderci che una tecnologia ancora più sofisticata e l’ulteriore allontanamento dalla Natura possano migliorare la vita umana. In realtà questo è intrinsecamente impossibile, perché il corpo e la mente dell’uomo sono un complesso ecosistema interconnesso intimamente, per vie innumerevoli e in buona parte ancora sconosciute, al mondo naturale. L’espressione più piena e armoniosa del potenziale umano non può realizzarsi in altri contesti. Il fatto che questa dimensione comporti dei “limiti” inaccettabili ci appare stranamente ovvio, ma è profondamente ingenuo, ed è diventato il nostro luogo comune culturale solo in seguito al trauma inferto a ognuno di noi dalla civiltà stessa, che riproduce il trauma climatico da cui essa stessa ebbe origine (il “Dryas recente” di 12.800 anni fa) e che ha generato un senso di impotenza e di incompletezza. L’uomo civilizzato si sente essenzialmente un inetto senza la macchina tecnologica che lo avvolge, lo eccita e lo umilia continuamente, coltivando la sua inadeguatezza e frustrazione, di cui si nutre. Confondiamo la nostra forma specifica, la nostra anatomia adattativa con una sorta di menomazione, con l’amputazione subita nel distacco forzato dalla duplice familiarità che ci completava: sociale e ambientale. L’essere autentico dell’uomo incorpora quello di migliaia di altri esseri, nelle cui vite era quotidianamente immerso. Per alcune popolazioni questo distacco fu subito compensato con la dipendenza psichica dagli zuccheri e dall’alcol dei cereali, che le asservì alla schiavitù lavorativa, e soprattutto al lavoro infantile che riproduceva il trauma all’infinito, chiudendo un cerchio perverso. Bambini traumatizzati dalla violenza della separazione dalla Natura diventano adulti impauriti e avidi, servi dell’ingorda arroganza del dio denaro e del dio progresso.
Conviene quindi prepararsi con mente e corpo ben orientati a un brusco ritorno verso questa dimensione autenticamente umana. Se vi sembra che abbia una eccessiva sicurezza su quanto ci riserva il futuro, chiedetevi come mai ci troviamo all’inizio del XXI secolo invece che in un qualsiasi altro momento della lunghissima storia umana. Per caso? No di certo: il tempo non è un meccanico “orologio” astratto, come pensava Newton. Il divenire non è una realtà oggettiva ma è incorporato nelle vite delle persone, perché è essenzialmente presenza. Guardando il grafico qui sotto si vede molto chiaramente che questo è il momento in cui un essere umano ha di gran lunga la massima probabilità di trovarsi a vivere: su un picco isolato di 7 miliardi di persone che si innalza da una lunghissima base di poche decine di milioni. Ma chi ci dice che sia davvero un picco isolato e appuntito? Il fatto che se la popolazione mondiale si stabilizzasse su questo livello o ancora più alto, o anche un poco più basso, le probabilità di trovarsi precisamente all’inizio di questa “nuova era” megalopolitana sarebbero praticamente nulle.
Il futuro esiste già anche se non lo vediamo: “Per quanto ci sembri che il tempo scorra da un passato scomparso a un futuro che non ancora non esiste, le attuali teorie dello spazio e del tempo ci dicono che passato, presente e futuro sono tutti ugualmente reali – e fondamentalmente indistinguibili.” (New Scientist, novembre 2013). Del resto sarebbe ridicolmente antropocentrico pensare che l’universo si dia la pena di essere oggettivamente presente proprio in corrispondenza delle nostre microscopiche esistenze! E’ presente anche prima e dopo, l’apparenza del contrario è uno dei tanti effetti speciali della nostra mente sofisticata, che crea l’illusione cinematica del movimento cronologico. La nostra esperienza immediata è puro cinema.
Quindi la nostra collocazione cronologica non è per principio diversa da quella geografica: anche nello spazio temporale c’è un baricentro demografico. Non vi trovate nel Sahara, in Siberia o in Amazzonia, ma in uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Una città affollatissima e puntiforme: la Rete. Questo ci consente di conoscere indirettamente, ma con ragionevole certezza, il futuro che ci aspetta. E di prepararci come si conviene.