Se le città si ribellano ai sindaci radical-chic
di Stenio Solinas - 23/11/2013
Doria a Genova, Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, Marino a Roma, hanno in comune più cose. Sono borghesi e/o aristocratici progressisti, vengono dal mondo delle professioni, sono espressione della «società civile», guidano da sinistra-sinistra, sinistra-centro, centro-sinistra e simili, quattro delle più importanti città italiane, dopo essere stati eletti in modo pressoché trionfale.
È un minimo comun denominatore forte, a cui si aggiunge però paradossalmente un altro elemento unificante che vanifica tutto il resto: sono impopolari, governano male, provocano il rimpianto per il «peggio» che c'era prima...
L'impopolarità è il contrappasso da pagare per aver cavalcato la popolarità, che del populismo è la variante colta, l'anticamera della demagogia, insomma. L'Italia è uno strano Paese, soffocato dalle burocrazie, incatenato alle corporazioni, avvolto nella nebbia dei codici, dei codicilli e dei ricorsi, e che però s'illude con l'elezione diretta del primo cittadino di essere come gli Stati Uniti. È una sorta di decisionismo all'amatriciana più che all'americana, tanto più esplosivo nei suoi effetti negativi, quanto più la crisi economica non permette sconti e brucia le aspettative ancor prima che dalle parole dette si passi agli eventuali fatti. Avendo promesso troppo, è il minimo che ci si possa aspettare.
Il populismo in mano alla cosiddetta società civile borghese è un'arma di distruzione di massa. Per storia, cultura, abitudini, frequentazioni, Doria, Pisapia, De Magistris, Marino non hanno la minima idea di che cosa sia il popolo e la sua complessa stratificazione sociale. Scambiano i bisogni per capricci, confondono le proprie abitudini per virtù civiche. Il ciclista Marino è, sotto questo aspetto, ancora più ridicolo del ciclista Pisapia, se non altro per i sette colli di una città tanto eterna quanto ormai sterminata, ma l'idea che per risolvere il problema del traffico si debba andare in bici è talmente surreale da concludere saggiamente che si potrebbe andare tutti a piedi e piantarla lì... È il frutto di quel progressismo arcaico di cui una certa sinistra ha finito con il farsi portatrice, facendole rimpiangere tutte quelle piccole cose di pessimo gusto che prima aveva allegramente calpestato. C'è dietro il ron ron soddisfatto di chi nel chiuso di abitazioni confortevoli, nel centro cittadino, ha casa e ufficio a poca distanza, non vuole frustrazioni né fastidi, vorrebbe essere lasciato in pace. Così il popolo è felice, pensa.
Il popolo, invece, sta incazzato. Diminuiscono i servizi, aumentano le imposte, chiudono gli esercizi commerciali, e sempre più una massa di nuovi poveri fa la sua casa di cartone negli androni di quei centri cittadini storici svuotati della gente e delle merci, e intanto i singoli quartieri e le periferie degradano per una micro e macro-criminalità tanto più offensiva quanto il singolo cittadino si accorge che il compito principale della polizia urbana sembra essere diventato quello di affibbiare multe per sosta vietata, l'altra arma fiscale con cui il primo cittadino pensa di fare cassa. E certo, da Genova a Milano, da Napoli a Roma, c'è intanto, nelle bellissime sale consiliari ospitate, va da sé, nei più bei palazzi metropolitiani, il sindaco che orgoglioso ed entusiasta promette la cittadinanza onoraria al Dalai Lama, annuncia che arriverà ospite Bill Clinton, plaude al gemellaggio con la capitale della Papuasia, esprime la sua indignazione per la Siria, proclama il proprio, nel senso di città, rifiuto della guerra...
Parole, parole, parole... La verbosità accompagna gli eletti della cosiddetta società civile, e va sottobraccio a una curiosa cultura del controllo e del divieto, tanto più proterva quanto inane, la tolleranza zero per la pizza al taglio o il panino di kebab... Se però si occupa un teatro pubblico, si troverà subito un comitato di garanti che, benedetto dal sindaco, ne certificherà la liceità, la democrazia, naturalmente, il patrimonio culturale che quell'occupazione rappresenta... È una sorta di opera dei pupi, su cui ci sarebbe da ridere, se non fosse che ormai ci sono restati solo gli occhi per piangere.
Si dirà, ma Doria, Pisapia, De Magistris, Marino, arrivarono al successo sull'onda dei disastri precedenti. E certo, e chi lo nega... Come dimenticare l'entusiastico «abbiamo scassato» del primo cittadino napoletano, la «liberazione» di quello romano, «l'onda arancione» del milanese, «il marchese rosso» incarnato dal genovese. Promettevano tutti una rivoluzione, pur sapendo benissimo di non poterla fare. Hanno pensato che dando vita a una pura e semplice conservazione infiocchettata di moralismo e di politicamente corretto sarebbe stato sufficiente. Si sbagliavano, semplicemente.
Gli scandali, le crisi, i rimpasti, hanno fatto il resto. Con l'aggravante della presunzione per chi, proprio perché proveniva dall'Italia «pulita, avanzata, laica, democratica, antifascista» eccetera eccetera, si riteneva immune dalle critiche, derubricate a campagne di stampa interessate, macchine del fango e così via. È l'ennesimo paradosso di una sinistra minoritaria e borghese, murata nei propri privilegi, che continua a travestirsi da ancella degli umili e dei diseredati, nemica dei privilegi e delle ricchezze. Degli altri, è il caso di dire.
La rabbia e il disgusto di chi in quelle città ci vive, nasce anche da questo, dal tartufismo di cui fanno mostra i suoi massimi rappresentanti, sempre così assertivi e sempre così convinti di sé, con l'aria di superiorità soddisfatta di chi non dubita mai e si adombra se qualcuno gli dice che magari sta sbagliando. Rimandano a quella considerazione del vecchio Bertolt Brecht: «Se il popolo non ci vota, si cambi il popolo».
Chi ha ormai un'età e si ricorda com'erano questa città trenta, quarant'anni fa, è preso dallo sconforto. Della «primavera dei sindaci» che più di vent'anni fa sancì il nuovo corso dell'elezione diretta, si fa fatica nelle grandi città a ricordarne uno degno di interesse. Più che gestioni virtuose si tramandano buchi di bilancio, feroci scambi d'accuse, un lento quanto inarrestabile disagio sociale. L'efficienza meneghina non esiste più, il nuovo rinascimento napoletano non è mai sbocciato, l'universalità capitolina si popola di baraccopoli, la superbia di Genova è naufragata miseramente. Navigano tutte a vista, con nocchieri improvvisati che cercano di privatizzare i fallimenti, scaricando sui più deboli il peso della crisi e dell'inefficienza. È certo che nessuno di essi si dimetterà, nel cinismo consapevole di chi ritiene il popolo, comunque, bue. Può succedere però che se lo ritrovi da un giorno all'altro trasformato in toro. E il rosso delle bandiere che li accomuna, renderà quel toro ancora più cattivo
L'impopolarità è il contrappasso da pagare per aver cavalcato la popolarità, che del populismo è la variante colta, l'anticamera della demagogia, insomma. L'Italia è uno strano Paese, soffocato dalle burocrazie, incatenato alle corporazioni, avvolto nella nebbia dei codici, dei codicilli e dei ricorsi, e che però s'illude con l'elezione diretta del primo cittadino di essere come gli Stati Uniti. È una sorta di decisionismo all'amatriciana più che all'americana, tanto più esplosivo nei suoi effetti negativi, quanto più la crisi economica non permette sconti e brucia le aspettative ancor prima che dalle parole dette si passi agli eventuali fatti. Avendo promesso troppo, è il minimo che ci si possa aspettare.
Il populismo in mano alla cosiddetta società civile borghese è un'arma di distruzione di massa. Per storia, cultura, abitudini, frequentazioni, Doria, Pisapia, De Magistris, Marino non hanno la minima idea di che cosa sia il popolo e la sua complessa stratificazione sociale. Scambiano i bisogni per capricci, confondono le proprie abitudini per virtù civiche. Il ciclista Marino è, sotto questo aspetto, ancora più ridicolo del ciclista Pisapia, se non altro per i sette colli di una città tanto eterna quanto ormai sterminata, ma l'idea che per risolvere il problema del traffico si debba andare in bici è talmente surreale da concludere saggiamente che si potrebbe andare tutti a piedi e piantarla lì... È il frutto di quel progressismo arcaico di cui una certa sinistra ha finito con il farsi portatrice, facendole rimpiangere tutte quelle piccole cose di pessimo gusto che prima aveva allegramente calpestato. C'è dietro il ron ron soddisfatto di chi nel chiuso di abitazioni confortevoli, nel centro cittadino, ha casa e ufficio a poca distanza, non vuole frustrazioni né fastidi, vorrebbe essere lasciato in pace. Così il popolo è felice, pensa.
Il popolo, invece, sta incazzato. Diminuiscono i servizi, aumentano le imposte, chiudono gli esercizi commerciali, e sempre più una massa di nuovi poveri fa la sua casa di cartone negli androni di quei centri cittadini storici svuotati della gente e delle merci, e intanto i singoli quartieri e le periferie degradano per una micro e macro-criminalità tanto più offensiva quanto il singolo cittadino si accorge che il compito principale della polizia urbana sembra essere diventato quello di affibbiare multe per sosta vietata, l'altra arma fiscale con cui il primo cittadino pensa di fare cassa. E certo, da Genova a Milano, da Napoli a Roma, c'è intanto, nelle bellissime sale consiliari ospitate, va da sé, nei più bei palazzi metropolitiani, il sindaco che orgoglioso ed entusiasta promette la cittadinanza onoraria al Dalai Lama, annuncia che arriverà ospite Bill Clinton, plaude al gemellaggio con la capitale della Papuasia, esprime la sua indignazione per la Siria, proclama il proprio, nel senso di città, rifiuto della guerra...
Parole, parole, parole... La verbosità accompagna gli eletti della cosiddetta società civile, e va sottobraccio a una curiosa cultura del controllo e del divieto, tanto più proterva quanto inane, la tolleranza zero per la pizza al taglio o il panino di kebab... Se però si occupa un teatro pubblico, si troverà subito un comitato di garanti che, benedetto dal sindaco, ne certificherà la liceità, la democrazia, naturalmente, il patrimonio culturale che quell'occupazione rappresenta... È una sorta di opera dei pupi, su cui ci sarebbe da ridere, se non fosse che ormai ci sono restati solo gli occhi per piangere.
Si dirà, ma Doria, Pisapia, De Magistris, Marino, arrivarono al successo sull'onda dei disastri precedenti. E certo, e chi lo nega... Come dimenticare l'entusiastico «abbiamo scassato» del primo cittadino napoletano, la «liberazione» di quello romano, «l'onda arancione» del milanese, «il marchese rosso» incarnato dal genovese. Promettevano tutti una rivoluzione, pur sapendo benissimo di non poterla fare. Hanno pensato che dando vita a una pura e semplice conservazione infiocchettata di moralismo e di politicamente corretto sarebbe stato sufficiente. Si sbagliavano, semplicemente.
Gli scandali, le crisi, i rimpasti, hanno fatto il resto. Con l'aggravante della presunzione per chi, proprio perché proveniva dall'Italia «pulita, avanzata, laica, democratica, antifascista» eccetera eccetera, si riteneva immune dalle critiche, derubricate a campagne di stampa interessate, macchine del fango e così via. È l'ennesimo paradosso di una sinistra minoritaria e borghese, murata nei propri privilegi, che continua a travestirsi da ancella degli umili e dei diseredati, nemica dei privilegi e delle ricchezze. Degli altri, è il caso di dire.
La rabbia e il disgusto di chi in quelle città ci vive, nasce anche da questo, dal tartufismo di cui fanno mostra i suoi massimi rappresentanti, sempre così assertivi e sempre così convinti di sé, con l'aria di superiorità soddisfatta di chi non dubita mai e si adombra se qualcuno gli dice che magari sta sbagliando. Rimandano a quella considerazione del vecchio Bertolt Brecht: «Se il popolo non ci vota, si cambi il popolo».
Chi ha ormai un'età e si ricorda com'erano questa città trenta, quarant'anni fa, è preso dallo sconforto. Della «primavera dei sindaci» che più di vent'anni fa sancì il nuovo corso dell'elezione diretta, si fa fatica nelle grandi città a ricordarne uno degno di interesse. Più che gestioni virtuose si tramandano buchi di bilancio, feroci scambi d'accuse, un lento quanto inarrestabile disagio sociale. L'efficienza meneghina non esiste più, il nuovo rinascimento napoletano non è mai sbocciato, l'universalità capitolina si popola di baraccopoli, la superbia di Genova è naufragata miseramente. Navigano tutte a vista, con nocchieri improvvisati che cercano di privatizzare i fallimenti, scaricando sui più deboli il peso della crisi e dell'inefficienza. È certo che nessuno di essi si dimetterà, nel cinismo consapevole di chi ritiene il popolo, comunque, bue. Può succedere però che se lo ritrovi da un giorno all'altro trasformato in toro. E il rosso delle bandiere che li accomuna, renderà quel toro ancora più cattivo