Urlare è giusto, urlare non basta
di Federico Zamboni - 20/12/2013
Sui media il termine ricorrente (e compiaciuto, senza dubbio) è “flop”. Constatato che il numero dei partecipanti alla manifestazione di ieri a Roma è stato largamente inferiore alle attese – si parlava di 15mila persone e ne sono arrivate circa un quinto – ci si è precipitati a trarre le conclusioni, ben lieti di poter stilare un immediato certificato di morte della protesta capitanata da Danilo Calvani. Manco si trattasse di uno show televisivo a corto di audience, per il quale la scarsità del seguito basta e avanza a determinare la rimozione dal palinsesto. Fin dal primo momento, del resto, nei confronti di queste iniziative che partono dalla gente comune e che osano rifiutare in blocco l’intero sistema dei partiti, la parola d’ordine dell’establishment è stata quella di gettare il discredito sui dimostranti. Da un lato, agitando il consueto spauracchio della violenza e dell’illegalità, che quando si rivolgono contro la classe dirigente vengono capziosamente assimilate, ormai da decenni, al vero e proprio terrorismo; dall’altro, sottolineando a getto continuo le carenze, in parte oggettive e in parte no, delle posizioni espresse, improntate più alla rabbia viscerale che alle analisi approfondite. Risultando perciò assai vaghe nel proporre soluzioni che vadano al di là dello spazzare via i politici odierni all’insegna di un tonante, ma rozzo, «Tutti a casa!». Questo tipo di strategia non è affatto nuovo, e il fatto stesso che i più continuino a non rendersene conto costituisce di per sé una prova inconfutabile dello stato di omologazione, assimilata fino divenire inconscia, in cui i cittadini-spettatori sono sprofondati negli ultimi decenni. L’offensiva propagandistica, senza dilungarsi nelle ricostruzioni storiche, ha avuto inizio nello scorcio finale dei Settanta, con la totale criminalizzazione dell’estremismo: il messaggio, vedi l’etichetta onnicomprensiva e a dir poco generica degli “Anni di piombo”, era che per quanto lo Stato facesse schifo l’alternativa rivoluzionaria (vera o presunta) era ancora peggio. Con la corruzione si poteva convivere; con la furia ideologica, no. Con le sopraffazioni del potere economico e partitico si poteva sperare di venire a patti, non foss’altro che grazie alla radicata, e collaudata, “arte di arrangiarsi”. Con le imposizioni dei rossi, o dei neri, assolutamente no: sui primi gravavano innanzitutto i precedenti storici, certo non rassicuranti, delle dittature comuniste, dagli eccidi di Stalin e di Pol Pot ai deliri della Rivoluzione culturale nella Cina di Mao; i secondi erano condannati a priori a causa dei loro richiami al fascismo o, peggio, al nazismo. Così, facendo leva sul timore di cadere dalla padella nella brace, Brigate Rosse e affini vennero additati come il nemico pubblico numero uno. Una minaccia sanguinaria, e intollerabile, non soltanto ai danni dei loro effettivi bersagli, scelti nel mondo delle pubbliche istituzioni o delle imprese private, ma dell’intera popolazione. Non che non ci fosse del vero, ma la parte autentica era comunque strumentale a un obiettivo perverso. Che mirava a innalzare al rango di verità definitiva e incontrovertibile una colossale menzogna: quella, che ci accompagna da allora e che dal 2008 in poi è stata enfatizzata come unica risposta possibile alla crisi, di una sostanziale e imprescindibile unità nazionale che salderebbe gli interessi, e persino i destini, di tutti gli italiani. Dall’ultimo dei disoccupati al primo dei super ricchi. Da chi è condannato a sopravvivere nella precarietà a chi è certo, o quasi, di vivere nel lusso. Da chi può solo subire, e sperare di cavarsela, a chi comanda, anzi spadroneggia, e confida che la stragrande maggioranza del popolo sia abbastanza rammollita/spaventata/succube da non ribellarsi né ora né mai. Capiamoci bene, su questo punto. Non si tratta di avallare la solita contrapposizione, tanto cara alle oligarchie che detengono il potere, fra chi è preparato e chi non lo è, da cui consegue che le masse più o meno incolte devono giocoforza delegare le scelte collettive ai professionisti della politica, o addirittura ai tecnocrati dell’economia. Si tratta però di fare i conti con il problema, reale, della credibilità di chi si scaglia contro l’ordine costituito. Data per acquisita la buonafede, sia dei partecipanti che dei leader, se un nucleo iniziale di rivoltosi ambisce a diventare un movimento di portata nazionale ha l’obbligo inderogabile, e pressante, di attrezzarsi alla bisogna. Ciò significa, evidentemente, avere delle chiavi di lettura precise, e coerenti, rispetto alla realtà nella quale si opera e sulla quale si vuole incidere. Pensare di esaurire questo compito a suon di slogan perentori, del genere di quelli che sono risuonati anche ieri a Piazza del Popolo, è sciocco, prima ancora che sbagliato. Naturalmente gli slogan vanno benissimo, ma a condizione che siano la sintesi – sloganistica, appunto – di una visione di gran lunga più meditata e compiuta. E lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per le dichiarazioni pubbliche, sia sotto forma di interviste, con la trappola delle domande insinuanti e la tentazione delle risposte ad effetto, sia in quella dimensione a metà tra il ragionamento e l’emotività che sono i comizi. Danilo Calvani, o chi per lui, è tenuto a essere conscio del fatto che trovarsi sotto i riflettori dei media implica, per riprendere la classica formuletta dei polizieschi made in USA, che «tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te». Con un problema supplementare, nell’ambito della lotta politica: il linguaggio utilizzato, compreso quello paraverbale dei toni e quello non verbale del corpo, è parte integrante di ciò che si comunica. Anche volendo rimanere solo sul piano dei contenuti, però, la confusione è palese, e inquietante. Calvani passa da squarci di requisitorie dal respiro internazionale, che giustissimamente chiamano in causa «una Commissione europea formata da banditi finanzieri [che] ci vuole distruggere», a istanze completamente irrealistiche che si condensano nel succitato «Tutti a casa!» e che non trovano di meglio, nel replicare all’ovvia domanda su chi dovrebbe prendere il posto degli odierni governanti, che rifugiarsi in un fideistico «Noi abbiamo una costituzione: la Costituzione dice che si va al voto». E stendiamo un velo pietoso sulla celebrazione di Papa Francesco, scandita dal palco e subito rilanciata dalla platea con un entusiastico, ma credulone, «Uno di noi». La domanda da porsi, quindi, è se e in quale misura il neonato Movimento 9 dicembre, peraltro già diviso in diverse fazioni, avverta l’esigenza di andare al di là del desiderio di manifestare il proprio malcontento. Se questa esigenza non c’è, e ci si illude che per eliminare i Letta & C. sia sufficiente gridargli contro il proprio (sacrosanto) disprezzo, il fallimento è sicuro. |