Dove va a finire l’anima dei luoghi?
di Francesco Lamendola - 29/12/2013
I luoghi hanno un’anima: non alla stessa maniera degli esseri umani, probabilmente; forse nemmeno alla stessa maniera delle altre creature viventi; ma è certo che la possiedono, anche se noi non vi pensiamo, anche se ci comportiamo come se non l’avessero.
Hanno un’anima i luoghi naturali, come le montagne, le foreste, i fiumi; e ce l’hanno i luoghi abitati dall’uomo: una casa, una piazza, una strada; in questo secondo caso, l’anima del luogo è formata anche dai sentimenti, dai pensieri, dalle emozioni di coloro che li abitano attualmente e di coloro che li hanno abitati in passato, generazione dopo generazione.
Vi sono luoghi che hanno un’anima coesa, compatta, uniforme: sono quelli che hanno conosciuto sempre lo stesso genere di abitanti, come l’antica dimora di una certa famiglia, che non ha mai ospitato persone estranee, se non sotto forma di ospiti e visitatori temporanei; e ve ne sono altri che hanno un’anima difforme, complessa, perfino contraddittoria, per esempio una stazione ferroviaria, in cui si avvicenda continuamente una umanità frettolosa, di passaggio.
Vi è, inoltre, una differenza fra i luoghi consacrati e i luoghi profani, fra quelli in cui vissero uomini e donne dediti al culto divino e quelli che furono, o che sono, destinati al lavoro, oppure al piacere, al divertimento, al gioco e al sesso mercenario.
Un antico convento, una antica abbazia, un antico monastero, possiedono un’anima ben diversa da quella di una banca, di una fabbrica, di un palazzo che è sede di un’agenzia di assicurazioni o di uffici, oppure all’edificio di un centro di ricerche scientifiche, di un ospedale, di una struttura per la cura delle malattie mentali; e ancor più diversa, se possibile, da quella di un comando militare, di una centrale operativa dell’aviazione o della marina, per non parlare di una prigione. E che dire dell’anima di un casinò, di un centro termale, di un palazzetto dello sport, di una piscina olimpionica, di una stazione per gli sport invernali, di un cinema, di un teatro?
Negli edifici sacri generazioni di monaci e di suore hanno pregato, meditato, elevato l’anima a Dio; in quelli profani, uomini e donne si sono impegnati nel lavoro, oppure hanno cercato lo svago, il divertimento, hanno inseguito il piacere, sono andati a caccia di emozioni forti, hanno tentato la sorte sul tavolo verde. I pensieri, le speranze, le attese di tutte quelle persone si sono diretti verso l’alto o verso il basso; hanno cercato di purificarsi, di liberarsi dalle scorie dell’avidità e dell’egoismo, oppure si sono avvoltolati nelle passioni sfrenate, si sono rivestiti di brame e di paure, si sono afflosciati nell’amarezza della delusione, o sono avvampati nelle fiamme del desiderio e della lussuria.
L’anima di un penitenziario è simile a un purgatorio, l’anima di una prigione in cui si pratica la pena di morte è simile all’inferno: la rabbia, l’angoscia, la disperazione di coloro che vi sono passati e che vi sono stati uccisi impregnano i muri, saturano l’atmosfera; l’anima di un campo di concentramento, circondato dal filo spinato e dalle torrette di sorveglianza, è rossa di dolore e di umiliazione. Anche l’anima di un macello comunale è orribilmente deformata dall’angoscia e dalla disperazione degli animali che continuamente vi vengono trascinati, uccisi e squartati: perché anche gli animali sono capaci di sentimenti, anche gli animali possiedono un’anima e il loro dolore, la loro angoscia impregnano i muri e riempiono l’ambiente di energie negative.
Edifici deputati a svolgere funzioni analoghe, ma socialmente diversificati, possiedono anime diverse: una cosa è l’anima di un piccolo albergo d’una località balneare nostrana, che ospita famigliole nella stagione estiva, e una cosa l’anima di un grande albergo internazionale, posto in qualche località famosa e che si rivolge a una clientela di milionari, di celebrità dello spettacolo, di magnati della finanza e dell’industria. Vi è, tra essi, una differenza simile a quella che corre fra una giovane semplice e modesta, che non chiede molto alla vita e si accontenta di far bene il proprio dovere, e quella di una ragazza sofisticata e viziata, prigioniera del proprio narcisismo, per la quale nulla è abbastanza, nessuna esperienza è sufficientemente interessante, nessun corteggiatore è adeguato, ogni cosa è guardata dall’alto in basso, con un misto di noia e disprezzo.
Ma che cosa succede all’anima di un luogo, quando quel luogo viene trasformato, viene radicalmente ristrutturato, o, addirittura, viene distrutto? Dove vanno a finire le anime di un vecchio palazzo, di un convento secolare, di un antico cimitero? Scompaiono a poco a poco, si dissolvono, si confondono con l’ambiente circostante, oppure permangono per sempre? E che ne è dell’anima di un edificio che subisce una drastica trasformazione: di una chiesa sconsacrata che viene trasformata in centro culturale; di una ex scuola elementare che diventa un circolo per anziani; di un ex collegio che viene adibito a condominio residenziale?
Dapprima sono cambiati i luoghi circostanti, è cambiato il paesaggio: là dove prima c’erano campi, è avanzata, poco a poco, la città; dove si udiva, al mattino, il canto del gallo, ora non si ode che il ronzare del traffico automobilistico; dove si poteva vedere il levarsi del sole, non si scorgono più che tetti e casermoni di cemento. Accade come quando una persona anziana comincia a non sentirsi più a suo agio, perché il quartiere in cui è sempre vissuta è mutato troppo in fretta, i conoscenti se ne sono andati – alcuni per sempre -, alle vecchie botteghe sono subentrati negozi di assistenza informatica, centri di cure estetiche, banche, paninoteche, call centers: tutte cose che rispecchiano abitudini di vita che non gli appartengono, di cui non sa nulla.
Poi, a un certo punto, sono cambiati i luoghi stessi: coloro che vi abitavano se ne sono andati: niente più preghiere e canti liturgici; niente più voci argentine di bambini che studiano, che recitano poesie, che giocano in cortile durante la ricreazione; niente più chiacchiericcio di giovani studentesse che si scambiano confidenze, che parlano di sogni adolescenziali e di amori in boccio, che ripassano la lezione a voce alta. Non si odono più le note del pianoforte, né la voce del professore che parla del corpo umano, del teorema di Pitagora o che legge Virgilio, Dante, Manzoni, né la risatine sottovoce degli alunni, che cercano di scacciare la noia delle ore di lezione meno interessanti e meno temute.
Ed ecco che arrivano ingegneri che osservano, che misurano, che decidono la nuova sistemazione; poi, squadre di muratori, di idraulici, di falegnami, che abbattono muri, che modificano impianti, che riempiono stanze e corridoi di rumori, di polvere, di passi concitati. Alla fine, si è verificato qualche cosa d’inaudito: dove c’erano le cucine, il refettorio, le dispense, ora ci sono appartamenti da vendere o da affittare; dove c’erano le aule, ancora appartamenti; dove c’era l’aula magna, in cui si tenevano conferenze, concerti o rappresentazioni, altri appartamenti ancora. Solo la struttura esterna ha conservato qualche cosa dell’antica fisionomia: eppure, chi ricorda l’edificio com’era prima, ne ricava un’impressione strana: è ancora quello e, tuttavia, non è più quello. Un po’ come quando ci si trova di fronte a un’anziana attrice che ha fatto sconsideratamente ricorso alla chirurgia estetica: è ancora lei, ma non è più lei; è irriconoscibile, pur essendo sempre la stessa persona, con la stessa statura, lo stesso sguardo; un brivido corre lungo la schiena di chi l’ha conosciuta e ammirata prima, come davanti a un fantasma ritornato dall’altrove.
E l’anima di quella chiesa, di quella scuola elementare, di quel collegio, che sono diventati dei condomini moderni, che fine ha fatto? È sopravvissuta, si è trasformata anch’essa, oppure è fuggita, oppure ancora è morta per sempre? Il mistero dell’anima dei luoghi è analogo al mistero dell’anima degli esseri umani: nessuno che abbia lasciato il proprio corpo è mai tornato indietro per dire, per raccontare quel che c’è oltre quella soglia; anche i casi, pur impressionanti, di pre-morte, e i relativi racconti di coloro che ne hanno fatto l’esperienza, non gettano se non una debolissima luce sull’ignoto, perché una scintilla vitale era ancora presente in quelle anime, tanto è vero che sono rientrate nei loro corpi e hanno ripreso la loro vita.
Si possono fare ipotesi; ci si può affidare alla fede religiosa: non si può dire, con certezza scientifica, che cosa ne sia dell’anima umana, quando essa ha varcato le soglie della morte; si può credere che sopravviva, ma non è dato sapere molto di più. I poeti si spingano pure a descrivere i particolari dell’aldilà; i filosofi e i teologi hanno il dovere di essere più cauti e misurati: possono fare ipotesi, interpretano le sacre scritture: ma la verità è che un velo di mistero nasconde irrimediabilmente la vista delle cose ultime, delle cose di laggiù.
Allo stesso modo, non si può dire con assoluta sicurezza che cosa accada all’anima di un certo luogo o edificio, allorché esso ha subito una radicale trasformazione o, addirittura, è stato abbattuto, distrutto, e magari in modo particolarmente violento, come può accadere nel corso di una vicenda bellica, ad esempio per opera di un bombardamento aereo.
Dove è finita l’anima delle città tedesche, dei quartieri, delle case che, durante la seconda guerra mondiale, sono stati incendiati e rasi al suolo dalle bombe al fosforo delle fortezze volanti anglo-americane? E dove è finita l’anima della vecchia Hiroshima, della vecchia Nagasaki, dopo l’impatto degli ordigni nucleari che le hanno spazzate via, e prima che la tenacia degli uomini le ricostruisse, lasciando solo pochi brandelli di muro a tramandare la memoria di quella tragedia che, verificatasi meno di settant’anni fa, ci sembra già indicibilmente lontana nel tempo?
E l’anima di una fabbrica abbandonata, di un cimitero sconsacrato, di un castello diroccato, che fine avrà fatto? Fra tutte, quella del cimitero è sicuramente la più tenace; Thomas Grey sapeva quel che diceva, quando componeva la sua «Elegy written in a Country Churchyard», e anche Ugo Foscolo quando componeva «I sepolcri». Ma un cimitero sconsacrato può diventare un luogo in cui si manifestano misteriose forze medianiche: alla periferia di Treviso si trovano i resti di un luogo del genere (ma molti, perfino fra gli abitanti delle case vicine, probabilmente lo ignorano), nel quale si sono verificati episodi che hanno del fantastico, raccontati dallo studioso Leo Talamonti nel suo libro «Universo proibito» (Milano, Sugar, 1966; Milano, Club dei Lettori, 1976, p. 347):
«Vi è, fuori Treviso, un piccolo cimitero abbandonato dell’epoca napoleonica, la cui esistenza è attualmente messa in forse dall’avanzata inesorabile della città [e infatti è già formalmente scomparso, nota nostra]. Ogni volta che il medium si recava con il gruppetto dei suoi amici in quella zona si verificavano cose assai strane. Una volta, in ore vespertine, una delle lapidi divelte si innalzò lentamente e venne a posarsi, dopo un bel volo planato, accanto ai visitatori. Al principe T. F. capitò di trovare posati su una di quelle lapidi, alcuni documenti importanti che egli era certissimo di avere lasciati ben chiusi nella sua cassaforte. In altra occasione, a tarda sera, una pila elettrica accesa, che navigava tranquillamente a mezz’aria, venne incontro agli amici che stavano passeggiando sulla strada provinciale; proveniva dalla casa di uno di loro. Occhiali che vengono sottratti all’improvviso al loro legittimo proprietario, il quale crede, lì per lì, di essere la vittima di uno scherzo; ma poi li ritrova all’interno della sua macchina, che egli stesso aveva lasciata chiusa e bloccata dall’antifurto.»
Il cimitero è, per la precisione, l’ex cimitero di Lanzago di Silea, chiamato Paradiso e sconsacrato nel 1920; il medium cui accenna Talamonti è il noto Bruno Lava, che fece parlare molto di sé alcuni decenni or sono; ai fenomeni in questione assisté anche lo scrittore Cino Boccazzi. Una nostra indagine personale ha raccolto testimonianze ancor più inquietanti, per non dire raccapriccianti, che fanno pensare a delle presenze malefiche: voci spaventose provenienti dalle sepolture, e una paura così diffusa tra gli abitanti del borgo, da indurli a evitare ad ogni costo quel luogo, dopo il crepuscolo. Probabilmente, così come esistono delle anime dannate fra gli esseri umani, vi sono anime maledette anche per quanto riguarda i luoghi (forse quella del Loch Ness, per citarne una, ne è un esempio); e, del resto, un cimitero si può sconsacrare, ma quello che era, continua ad essere.
La conclusione, se una conclusione è possibile, è che l’anima dei luoghi esige rispetto: perché quando un luogo viene stravolto, quando viene snaturato, insudiciato, oltraggiato, anche la sua anima patisce la sofferenza e l’offesa. È un grave oltraggio, per esempio, quello di violare le necropoli antiche, di profanare le tombe, di manipolare i resti mortali di esseri umani, con la giustificazione della ricerca scientifica: vi sono dei limiti che non andrebbero superati, delle porte che non dovrebbero essere aperte, mai, per nessuna ragione al mondo.
La civiltà moderna, basata sul dogma del progresso e sull’attivismo esasperato, tende a manipolare continuamente le cose, le persone e, naturalmente, anche i luoghi e gli edifici: invece della stabilità, dell’armonia, della contemplazione, essa predica e diffonde il cambiamento continuo, frenetico, aggressivo, che divora il passato in nome dell’avvenire. Ma in una tale guerra, che ne è delle anime?