Cina: e se si rompesse la collana del Dragone?
di Salvo Ardizzone - 08/01/2014
Fonte: Il faro sul mondo
Scrivere sulla Cina può sembrar banale, i media ne son pieni quasi giornalmente, ma, come accade di frequente, a parlar troppo si perde di vista spesso l’essenziale. E l’essenziale è che insieme alle luci d’un successo sfolgorante ci sono ombre che ci possono riguardare, e tanto.
La cavalcata trionfale della Cina, si sa, è iniziata dalla lucidità quasi visionaria, unita alla volontà di ferro, di un uomo riemerso dalla stupidità di due epurazioni con l’unico obiettivo di far sviluppare il Paese; quest’uomo, Deng Xiaoping, all’11° Comitato Centrale del Partito del 1978, impose la svolta politica di apertura e modernizzazione della Cina, facendole iniziare una cavalcata di oltre trent’anni con un incremento del Pil a tassi di due cifre.
Naturalmente ciò ha avuto un prezzo carissimo, ma la dirigenza cinese ha avuto un ferreo credo per raggiungere lo sviluppo: stabilità interna a qualsiasi prezzo e relazioni pacifiche all’esterno, che si traduceva in un plumbeo controllo interno che soffocasse qualunque dissidenza e in un basso profilo all’estero (fino a che il successo non fosse consolidato, dopo…), che non suscitasse timori o reazioni.
Ciò ha permesso il duraturo prodigio che è montato fino alle soglie del 2000 quasi all’insaputa dell’opinione pubblica mondiale, fatta eccezione dei pochi addetti ai lavori. Un’ininterrotta catena di successi, inanellati come le perle di una lunghissima collana per citare un antico proverbio.
Cerchiamo di capire meglio: il progetto di sviluppo verso cui si è orientata la dirigenza cinese, prevedeva un enorme incremento della potenzialità industriale, finalizzata alla produzione di merci a basso costo (spesso tenuto ancora più basso da diffuse pratiche di dumping), destinate essenzialmente ai mercati esteri. Le risorse del sistema venivano così concentrate sull’esportazione, da cui provenivano grandi flussi di valuta, spesso pregiata, destinate a rifinanziare il ciclo economico e gli investimenti e il reperimento delle materie prime e dell’energia necessarie ad ampliarlo sempre di più. Per permettere la disponibilità degli immensi capitali necessari a sostenere questo programma, i consumi interni dovevano essere compressi, la circolazione monetaria interna rarefatta e destinata, appunto, essenzialmente agli investimenti e per la parte residua alla tesaurizzazione.
Tuttavia questo schema non poteva reggere all’infinito, da un canto per limiti strutturali all’incremento dell’offerta, in quanto è impossibile pensare di continuare ad incrementare a ritmi crescenti la produzione, la produttività, il reperimento di energia e materie prime a costi costanti o addirittura più bassi; dall’altro per sopraggiunti limiti anche congiunturali della domanda. Inoltre, il continuo stimolo all’economia ne ha provocato un evidente “riscaldamento”, doppiamente pericoloso in un paese che si è sviluppato facendo pagare il conto a vasta parte del proprio popolo mantenendo salari e condizioni di lavoro inadeguati (e scusatemi per il pudico eufemismo), e comprimendo i consumi con la promessa di un futuro migliore.
Insomma, sotto l’attacco di una crisi globale, in presenza di una sempre maggiore concorrenza di altri paesi con mano d’opera a costo anche più basso (vedi per esempio Vietnam e Bangladesh), e con il proliferare di crescenti rivendicazioni sia salariali che di condizioni di lavoro, bisogna alzare il piede dall’acceleratore, come sostengono sia il Presidente Xi Jinping che il Premier Li Leqiang assertori (meglio tardi che mai) di uno sviluppo sostenibile che contemperi sviluppo e occupazione nel rispetto dell’ambiente (e finalmente! Magari ci potessimo credere!).
Ma trasformare un sistema paese ideato per essere la fabbrica a basso costo del mondo e focalizzato sull’esportazione è difficile, e lo è doppiamente sotto l’impatto della crisi. La via d’uscita può essere solo l’incremento della domanda interna, sin qui compressa a favore dell’esportazione, ed è inutile dire come questo attiverebbe una domanda globale che innescherebbe un potentissimo fattore di crescita per tutta l’economia mondiale, e dunque, di ritorno, per la Cina stessa. Ma ciò contribuirebbe proprio a un ulteriore riscaldamento dell’economia che è considerato un pericolo mortale dalla dirigenza cinese.
Tuttavia, anche la pur necessaria frenata dell’economia rimane un’incognita piena di rischi; a fine dicembre il sistema bancario cinese è entrato in crisi di liquidità per la seconda volta in sei mesi e il tasso interbancario a sette giorni è schizzato all’8,94%; è dovuta intervenire pesantemente la banca centrale per rimettere le cose a posto, dimostrando come l’auspicato soft–landing dell’economia corra il rischio di trasformarsi in un hard–landing con conseguenza incalcolabili; un incubo per il sistema globale se i controllori di Pechino commettono errori. Solo per metter giù qualche cifra, nella loro politica di tesaurizzazione dei flussi di ritorno dell’export l’Istituto Centrale Cinese ha messo in cassa, fra l’altro, circa 2.000 mld di risorse valutarie in dollari e oltre 1.000 mld di Tresaury Bond dello sterminato debito federale americano; se sotto l’impatto di una crisi dovesse mettere in circolazione anche parzialmente queste riserve in un sistema mondiale ancora provato dalla crisi precedente, viste le dimensioni, provocherebbe un crollo delle quotazioni con un effetto depressivo su tutte le economie mondiali.
Occorre dunque molta prudenza e gradualità, ma ci sono troppe incognite per garantire la riuscita dell’operazione, le principali consistono in almeno due bolle lievitate nel tempo: la bolla immobiliare in primo luogo, gonfiatasi a dismisura tanto che il prezzo delle case fra il 2004 e il 2012 è aumentato del 113% considerando anche le topaie, ma del 250% considerando le case nuove (negli Usa, prima dello scoppio della bolla speculativa, era cresciuto dell’84%); poi viene la bolla del credito; il monte dei crediti classici accordati dagli istituti di credito e di quelli non tradizionali accordati dalle cosiddette “banche ombra” (tipiche di questo sistema, da un canto rigido, ma dall’altro con scarsi e opachi controlli) è cresciuto dal 130% del Pil dato 2008 al 200% dato 2013.
Un sistema, già intrinsecamente così in tensione, è ulteriormente squilibrato da numerosi altri fattori strutturali: in primo luogo la corruzione, estremamente diffusa e generalizzata a tutti i livelli, soprattutto nella sterminata periferia del paese, finora contrastata con scarsa efficacia malgrado le recenti dichiarazioni della dirigenza cinese ancora tutte da attendere alla prova dei fatti (e non ingannino gli interventi contro elementi di spicco della nomenclatura, effettuati più per lotte di potere che per altro).
In secondo luogo, il grave e progressivo invecchiamento della popolazione a seguito della legge di pianificazione delle nascite del 1979 (la legge del figlio unico per intenderci), che, con la pratica sistematica dell’aborto selettivo e (peggio) dell’eliminazione di neonati di sesso femminile, soprattutto nelle campagne, ha condotto all’ulteriore disastroso squilibrio di 122 maschi su 100 femmine; solo a fine dicembre vi è stato posto un rimedio parziale, con una nuova normativa che attenua soltanto gli ostacoli ad una libera procreazione.
Infine, ma non da ultimo: l’enorme incremento degli squilibri sociali ed economici tra campagna e città, e la disintegrazione dei rapporti e valori tradizionali alla base della società cinese, conseguenti all’inurbamento caotico di centinaia di milioni di contadini attratti forzatamente dal lavoro presso i centri industriali; lo sconvolgimento conseguente alla repentina adozione di modelli di vita estranei, ha messo in crisi profonda la tenuta complessiva del sistema Cina. Insomma: la velocità dei cambiamenti ha provocato un autentico terremoto che ha destrutturato i valori e i legami tradizionali su cui si basava la società cinese; la rinascita e la prospettiva di sorpasso sull’Occidente capitalista sono volate sulle ali di una deregulation che è stata non solo economica ma anche e profondamente emotiva, scuotendo alle fondamenta un intero mondo.
A un quadro così grave si aggiungono: una situazione ambientale disastrosa, dovuta alla totale mancanza di qualsivoglia valenza data ai problemi dell’ambiente (fabbriche, centrali idroelettriche, infrastrutture e cementificazione sono state pensate e realizzate con l’unica bussola del massimo profitto e con l’indifferenza più assoluta per i danni irreversibili arrecati al territorio); la sistematica coercizione delle minoranze, come quella tibetana o uigura, fonte di continue tensioni, represse spesso con estrema durezza, ma mai spente; la generalizzata negazione dei diritti umani, visti come un ostacolo alla discrezionale gestione del potere. Questi tre argomenti, da soli, meriterebbero ben altro approfondimento in altra sede vista la loro gravità, ma comunque incidono pesantemente sulla stabilità compressiva della società cinese.
Come si vede, sono tanti i nodi che la Cina è chiamata a sciogliere nell’immediato futuro, e ancora di più i fattori di crisi e quelli imponderabili. Occorrerà che la leadership del Dragone faccia i suoi calcoli e dosi le sue mosse con la massima attenzione, la sfida che ha dinanzi è forse la più difficile mai affrontata, perché un errore che spezzasse la collana di perle dei suoi successi, ora, con le proporzioni che ha assunto, farebbe sembrare il fallimento della Lehman Brothers e ciò che ne è venuto una passeggiata di salute.