Elogio del silenzio. Ecco perché riscoprirne il piacere
di Gian Maria Bavestrello - 19/01/2014
Fonte: heimat
Il fastidio che l’uomo comune nutre nei confronti del silenzio è uno dei tratti distintivi della società odierna. Nelle relazioni interpersonali esso è causa di imbarazzo o sinonimo di maleducazione, soprattutto quando si viene interrogati. Domandare è lecito, rispondere è cortesia, si dice. Come se domandare, in luogo del semplice osservare, fosse sempre opportuno. Dal silenzio, inteso come assenza di suono, si desidera fuggire e lo si fa con tutti i mezzi, in particolare quando si è soli, proprio allo scopo di non sentirsi tali. Televisione, radio, cellulare, musica, informazioni, chiacchiere, contenuti stereofonici devono il valore che attribuiamo loro all’intolleranza dell’individuo contemporaneo verso la solitudine, la meditazione, il contatto con le parti più sottili del proprio essere. Verso tutto ciò che il silenzio evoca e favorisce.
Siamo soliti pensare che questa sia la società dell’immagine, ma appare più coerente sottolineare come sia il suono la cifra più significativa della nostra quotidianità. La vista, che pure Aristotele segnalava nella Metafisica come il senso più importante, non ci basta. Per questo la bellezza di un paesaggio alieno e sublime – la vetta di una montagna o una landa sperduta – può colpire nel segno per pochi istanti, prima di condurci in uno stato di smarrimento: perché è silenziosa. Come un dipinto. Perché i suoni che rilascia sono troppo flebili e indistinti, la loro armonia è troppo sottile e impalpabile, si rivolge a corde interiori troppo profonde per non essere, nella maggior parte dei casi, atrofizzate. E’ l’udito, più della vista, a stimolare in noi quelle emozioni di cui godiamo a drogarci: la paura, in un film horror, è restituita non dall’immagine ma dalla musica di sottofondo e dall’urlo della vittima; nel sesso, ciò che decide l’intensità dell’amplesso non è la luminosità della stanza, ma parole, sospiri, ansimi; non sfugge, infine, quanto gli amanti dei motori amino udire il rombo della loro motocicletta o della loro autovettura sportiva.
La maggior parte di noi è attratta dalle metropoli non perché siano “belle” di per sé ma perché sono “rumorose”. E’ attratta dal suono, dal richiamo continuo all’ es-timità (grazie a Camillo Langone per aver suggerito la parola nella rubrica “Preghiera” che tiene su Il Foglio), alla proiezione della propria coscienza al di fuori di un sé divenuto estraneo e minaccioso, fonte di depressione, indolenza e noia, riflesso di una povertà interiore che l’esteriorità, il consumo, l’apparire sono chiamati a surrogare.
Urge riappropriarsi del silenzio, ritrovare confidenza con esso come gli abitanti delle coste del Mare del Nord di cui Ernst Junger, in “Visita a Godenholm”, si chiede cosa abbia attratto fin lì, al limitare dell’Artico: “Conquiste, bottino, avventura e ricchi banchi di pesci? Anche questo, certo, ma era soprattutto l’impulso di arrivare sino ai confini e di superlarli, sino a quegli estremi limiti dove ha inizio la solitudine”. “Si aveva l’impressione che tutto fosse possibile, anche se in fondo non accadeva quasi nulla. Forse dipendeva dal fatto che lì la vita era simile al sonno, tanto più che il colore dominante era il grigio. Ma se nel grigio si celano tutti i colori, così in quella luce crepuscolare sembrava fosse avvolta, come in un velo, la possibilità di un violento risveglio e di un’azione vivace. Lo si notava perché il silenzio era carico di significato, spesso tormentoso”.
Il silenzio, il “vuoto”, lungi dall’essere forme di annichilimento, rappresentano il momento di raccoglimento delle energie, di elaborazione di nuove potenzialità e di nuovi destini. Chi coltiva il silenzio conosce il Potere della mente, che scioccamente l’uomo moderno ritiene una forza di cui può servirsi. Accade piuttosto il contrario: è la mente, con la sua attività spontanea e caotica, che si serve dell’uomo, confondendolo e ingannandolo, riparando dietro l’apparenza di una ragione che si vuole onnipotente ma che vive ai margini del tessuto emozionale e del subconscio. Solo nel silenzio la consapevolezza di sé, quella presenza a sé stessi che è il punto sorgivo di qualsiasi auto-realizzazione spirituale in qualsivoglia dottrina, ha qualche possibilità di manifestarsi in modo stabile e duraturo.
Un paesaggio silenzioso è, con ogni probabilità e con poche eccezioni legate a quei luoghi che l’uomo ha restituito ad esso distruggendoli, uno spazio incontaminato. Non antropizzato oppure antropizzato con spiccato senso del limite. Solo una maggiore confidenza con il silenzio – ovvero solo un’igiene della mente – può restituirci il senso del rapporto con la natura alterato non tanto dalla “tecnica” in sé, ma dall’idea che la tecnica sia “ruggente”, che la sua essenza risieda nel marinettiano “zang tumb tumb” e che il rumore – il futurismo insegna – misuri l’intensità del dominio che esercitiamo sul Mondo al punto da divenire cifra poetica a sé stesso.
Infine, sotto un altro aspetto, esiste ancora una decisiva frontiera di riscatto del silenzio: il pregiudizio che la filosofia sia logos e che la sapienza, o la verità, debbano avere forma discorsiva. Che debba veicolarsi attraverso la parola. “Chi parla non sa, chi sa tace”, ammonisce Lao Tze nel Tao Te Ching evidenziando come la verità sia muta, un possesso silenzioso che trasforma la relazione filosofica in osservazione, contemplazione, lettura decifratoria dei segni, dei gesti, della mimica che ne sottolineano la presenza. Il silenzio è saggezza. Attraverso il silenzio – attraverso la restituzione del silenzio alla filosofia e alla pedagogia – la saggezza può ritornare nei pressi della sapienza da cui fu espulsa più di due mila anni fa.