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Sfatare il mito della globalizzazione

di Nicolas Fabiano - 22/01/2014

Fonte: lintellettualedissidente


Ora siamo in quello che gli astronomi chiamerebbero un buco nero: non si sa cosa c’è dall’altra parte e indietro non si può tornare. Perché la soluzione non può essere un nostalgico riavvolgimento del nastro, un ritorno alle valute nazionali. Se non si ha il potere su determinati beni e sull’offerta, possiamo cambiare quanto vogliamo il nostro sistema di pagamenti, ma la questione fondamentale resterebbe comunque irrisolta.

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Mentre i nostri politici dibattono sulla crisi dell’eurozona e sull’evidente mancanza di crescita del nostro Paese -i dati di questi giorni confermano un ulteriore aumento della disoccupazione- pochi si stanno accorgendo che in realtà la matrice del problema è più complessa ed è il caso di dire più globale: l’intero Occidente dovrebbe aprire gli occhi e capire che sono finite le possibilità della globalizzazione tout court, l’età dell’oro del commercio, il progresso, la competitività delle nostre economie.

Negli ultimi anni la globalizzazione sta presentando i conti che non abbiamo saputo fare allorché si è decisi di scegliere un sistema totalitario di libero scambio. Totalitario – come lo definirebbe il primo tra gli ideologi del neo-liberismo Francis Fukuyama-  innanzitutto nell’approccio: sbattere in pochi anni all’interno dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) la Cina non è stata realmente una strategia volta a proteggere economie come la nostra: sono decenni che l’Italia subisce la competizione del lavoro a basso costo importato da Paesi emergenti come l’India, la Cina o il Brasile. Invece questa prospettiva non è assolutamente presa in considerazione dalla maggior parte dei nostri politici attuali. L’obiettivo dell’OMC era l’abbattimento dei dazi di ingresso e in generale l’abolizione di quote tariffarie. Questo implicava una nuova apertura mondiale del mercato, presupponendo che si potesse sviluppare senza creare ulteriori squilibri economici per gli altri Paesi.

In Europa si è ancora convinti che la globalizzazione e l’economia priva di quel “vecchio” e secondo i più tra gli economisti “superato” protezionismo, porti al paradiso terrestre. Ma non è così. Prima di tutto perché se una delle priorità per uscire dalla crisi è la crescita, allora questa non va assolutamente confusa con il benessere. Il benessere è il grande mito creato dagli stessi economisti neo-liberali a partire dal crollo del muro di Berlino, ma in realtà è un concetto improponibile perché vuole per sua stessa ammissione soddisfare la domanda e nel farlo, essere immediato. Peccato che la crescita si ottenga nel lungo periodo e che il mondo abbia risorse limitate, di conseguenza davanti ad una domanda che si continua consumisticamente a soddisfare c’è un’offerta che resta fissa.

Questo spiegherebbe l’origine di molte inflazioni, cioè del continuo aumento dei prezzi, nonché del costo della vita. Chi controlla l’offerta, può controllare anche il benessere dei consumatori. Ne deriva di conseguenza che un Paese avendo risorse naturali limitate ha un’unica possibilità, o decide di sviluppare una propria politica industriale, cercando di ridurre al minimo la concorrenza estera, oppure muore. E se l’Italia continuerà ad avere questa classe politica e sarà priva di scelte che abbiano un impatto forte sulla società, allora scompariremo da tutte le cartine geografiche. E’ inevitabile.

Tra l’altro l’impatto negativo delle politiche liberiste non ha solamente provocato l’attuale crisi economica. È da notare come anche il tracollo finanziario del 1987, in piena fase “reaganiana” e, specialmente l’inizio della grande depressione nel 1929, derivavano da una profonda mancanza dello Stato. Questo non significa essere statalisti. Significa avere una visione organica e capire quando vi è un bisogno d’intervento nell’economia da parte del governo. Il grande economista austriaco, Joseph Schumpeter, all’indomani del tracollo di Wall Street, descrive molto bene questa situazione: “i cicli economici non sono, come le tonsille , cose separate che possono essere considerate per se stesse, ma partecipano, come il battito cardiaco, dell’essenza dell’organismo che li manifesta”. Tutto sta nel capire la caratura politica di chi affronta questi momenti. E francamente la globalizzazione degli ultimi vent’anni non è stata molto compresa da parte di quelle stesse persone che l’hanno avviata.

Ora siamo in quello che gli astronomi chiamerebbero un buco nero: non si sa cosa c’è dall’altra parte e indietro non si può tornare. Perché la soluzione non può essere un nostalgico riavvolgimento del nastro, un ritorno alle valute nazionali. Se non si ha il potere su determinati beni e sull’offerta, possiamo cambiare quanto vogliamo il nostro sistema di pagamenti, ma la questione fondamentale resterebbe comunque irrisolta. Bisogna dire con altrettanta franchezza che la crisi finanziaria dalla quale forse si sta uscendo, non è esattamente la fine di un incubo. Probabilmente quelle stesse persone che fino ad oggi hanno sostenuto di come la crisi in realtà fosse un problema nato – e che doveva morire- in America, non si sono accorte che la sua natura economica ha delle spiegazioni più profonde, di sistema. Voglio dire, non è un caso che sia stata esportata da oltreoceano e si sia manifestata in modo così lampante in Europa.