Stampa, radio, TV, internet. Non passa giorno senza che una ben individuata categoria di persone, sedicenti economisti, senta il bisogno di catechizzarci sulle vie d’uscita dalla crisi. Questi figuri hanno occupato l’informazione dei media main stream, felici a loro volta di somministrarci un ammonimento sugli effetti recessivi della deflazione piuttosto che restituirci il gusto delle arti, delle scienze o della letteratura.
E’ almeno dal 2008, anno della crisi americana dei sub-prime, che economisti di ogni risma e scuola riempono colonne di giornali con previsioni, teorie, consigli, ricette taumaturgiche, spesso ispirate da BCE o FMI, e più la politica si conforma alla loro presunta scienza più la serenità dei cittadini, la pace sociale e la speranza del domani precipitano nel calderone oscuro dell’incertezza e dell’impoverimento.
Assomigliano, questi economisti odierni, a quegli alchimisti che a cavallo tra il XVI e XVII secolo bazzicavano la corte imperiale di Rodolfo II a Praga, accolti e foraggiati dietro la promessa di trasformare il vil mettalo in oro e di rimpinguare i forzieri dello Stato. I più fortunati tra questi prestigiatori, generalmente, finivano in prigione.
Fino a non molto tempo fa, come la borsa era giudicata un vezzo per giocatori, l’economia era considerata uno strumento al servizio della politica. Le sue ricette? Semplici e intuitive: il benessere equivaleva alla disponibilità di terre, di materie prime e alla forza lavoro necessaria ad alimentare la produzione. Solo con la trasformazione dell’economia in finanza abbiamo incominciato a pensare che il denaro possa auto-generarsi e rendersi autonomo dal lavoro, di cui altro non è che un simbolo.
Perché il punto è proprio il lavoro. La nostra costituzione parla espressamente di diritto al lavoro, generando equivoci sul presunto dovere dello Stato di procurare un impiego a ogni cittadino. Purtroppo o per fortuna, questo diritto deve essere letto “solo” come un diritto alla libertà di lavorare, mettendo le proprie competenze al servizio degli altri. Se la domanda è come riappropriarsi di questa libertà fondamentale, minacciata dall’ eccessivo carico fiscale,dalla burocrazia, dalle difficoltà a competere con concorrenti stranieri, la risposta è una sola: agendo. Trasformando il lavoro in azione libera. Agendo avendo in vista l’azione stessa. Agendo in ordine alla bellezza morale ed estetica dell’azione. Meno elucubrazioni accademiche sull’occupazione o sul reddito, più azione diretta. Cieca e immediata. Dettata dallo spirito e non dalla ragione.
L’utilitarismo volgare che ispira l’economia odierna, costruita sul mito del PIL, giustifica l’azione con la sola ricerca di lucro. Ebbene, siamo sicuri che tutto ciò che nel corso della storia ha mosso naviganti, artisti, artigiani, letterati, scienziati, inventori etc. sia stata la ricerca di denaro? Non erano forse animati, costoro, anche da un desiderio più profondo, una spinta più intima ad agire per “essere”, ad agire per dare vita al proprio destino e a quella chiamata che albergava nel proprio spirito? Possono essere, questa spinta e questa chiamata, anche le nostre?
Agire senza avere in vista un preciso utile economico, certi che qualcosa accadrà comunque. Perché non c’è azione autentica che lasci inalterato il quadro in cui si compie. La disoccupazione non è una condizione certificata da un centro di collocamento, ma uno status paralizzante che nasce dalla disponibilità interiore a riconoscersi in essa e ad accettarne le conseguenze sul piano psicologico e sociale.
Siete voi idraulici, giardinieri, elettricisti? Se perdere clienti paganti vi ha permesso di riappropriarvi di quel bene (e non di quella sciagura) che si chiama tempo, mettete la vostra arte al servizio della pensionata che non può pagarvi, potreste scoprire che è una professoressa in pensione che sarebbe felice di aiutare vostro figlio nei compiti.
O forse siete artisti. Ebbene, un artista può definirsi disoccupato? Date sfogo alla vostra vena creativa, non perdete mai il vostro capitale più importante, la capacità di entrare in contatto con voi stessi, e cercate di condividerla con la maggior parte delle persone, al solo scopo di donare piacere e appagamento. Qualcosa, piccola o grande che sia, accadrà anche sul piano economico, sia che vogliate vedere in questo effetto un frutto della “Provvidenza”, un’applicazione su scala sociale della “legge del Karma” (che in sanscrito significa azione) o, più scientificamente, una verifica della legge di azione e reazione.
Qualunque cosa siate o vogliate diventare, traducete la vostra identità in azione ed evadete dalla prigione della “crisi”, le cui sbarre sono il semplice riverbero dei significati che oggi attribuite, solo perché certificati dalle scienze economiche, alle parole “disoccupazione”, “povertà”, “crescita”, “benessere”.
L’errore capitale delle società contemporanee è mettere l’economia al centro della propria esistenza e il profitto al vertice delle proprie intenzioni quando il benessere, anche materiale, è una conseguenza naturale della capacità di relazionarsi a sé stessi e agli altri. Di fare “comunità”. Solo all’interno di una “comunità” è possibile sottrarsi allo status di disoccupato ( che anticamente non spettava nemmeno allo scemo del villaggio) e riacquistare quella dignità di persona che un uomo senza lavoro non riconosce più a sé stesso per aver perso, insieme al “lavoro”, il proprio riconoscimento sociale. Ebbene, il “lavoro”, inteso non come “impiego” ma come possibilità di azione all’interno di relazioni inter-personali, è intorno a noi, in una rete spesso invisibile di soggetti desideranti e potenzialmente capaci di agire in modo determinante a beneficio di terzi. Per vederla, è sufficiente sottrarsi al linguaggio delle scienze sociali e andare incontro a una nuova economia auto-gestita, a misura d’uomo.
Il denaro? Verrà. Anche perché è in questo scenario che maturano, in carenza di valuta ufficiale, espedienti ormai dimostratisi efficaci ed efficienti come le monete locali, che riconoscono ai membri di una comunità un credito di beni e servizi interno a un circuito virtuoso.
L’economia odierna spinge le società alla crescita facendo leva sulla dipendenza dal denaro fine a sé stesso e sulla disperazione che ci motiva a procurarcelo. La comunità spinge alla crescita le persone, facendo leva sui meccanismi dell’autonomia e della speranza ben riposta nel mutuo sostegno. Il passaggio dall’una all’altra è tanto breve quanto il semplice spazio di una decisione immediata: quella di agire come Ch’ing, il falegname le cui doti sono celebrate in uno dei testi più venerabili della tradizione taoista, il Chuang-Tzu: ” Quando sto per mettermi a fare un porta- strumenti, evito ogni diminuzione del mio potere vitale. Riduco la mia mente allo stato di quiete assoluta. Tre giorni in queste condizioni e mi dimentico di ogni ricompensa che potrò ricavare. Di ogni fama da raggiungere “. E, c’è da giurarci, anche degli economisti.