La crescita economica sta uccidendo il pianeta? Il futuro del pianeta nelle mani dei movimenti
di Naomi Klein - 11/02/2014
La nostra incessante richiesta di crescita economica sta uccidendo il pianeta? Gli esperti climatici hanno analizzato i dati e sono arrivati a delle provocatorie conclusioni.
Nel dicembre 2012, un ricercatore di sistemi complessi, di nome Brad Werner e dai capelli fucsia, fa il suo ingresso tra una folla di 24.000 tra geologi e ingegneri spaziali al Fall Meeting dell’American Geophysical Union, che si tiene annualmente a San Francisco. Il convegno questa volta conta alcuni grossi nomi tra i partecipanti, da Ed Stone, del progetto Voyager della Nasa, che presenta una nuova svolta nel percorso dello spazio interstellare, al regista James Cameron, che racconta le sue avventure in sommergibile nelle profondità del mare.
Ma è stato proprio l’intervento di Werner che ha fatto più scalpore. Il titolo era “La Terra è fottuta?” (titolo completo “La Terra è fottuta? Totale inutilità della gestione ambientale globale e possibilità di sostenibilità attraverso l’attivismo”).
Di fronte alla sala conferenze, il geofisico dell’Università della California, San Diego, ha condotto il pubblico attraverso un avanzato modello informatico che ha utilizzato per rispondere all’interrogativo. Ha parlato dei limiti del sistema, le perturbazioni, le dissipazioni, gli attrattori, le biforcazioni e tutta una serie di altri dati alquanto incomprensibili per i non-iniziati alla complessa teoria dei sistemi. Ma l’ultimo passaggio era sufficientemente chiaro: il capitalismo globale ha operato un dissipamento di risorse così rapido, facile e senza limiti, da causare una pericolosa instabilità nei “sistemi uomo-natura”. Pressato dai giornalisti per una risposta più chiara e diretta all’interrogativo “siamo fottuti?”, Werner ha messo da parte il gergo tecnico ed ha risposto: “Più o meno”.
E’ emerso un dato, tuttavia, nel modello presentato, che offre un margine di speranza. Werner l’ha chiamato “resistenza”: i movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano una serie di modelli di comportamenti non rientranti all’interno della cultura capitalista”. Stando alla sintesi della sua presentazione, questi includono “le azioni volte alla salvaguardi dell’ambiente, i modelli di resistenza al di fuori dalla cultura dominante, come le proteste, i boicottaggi e il sabotaggio delle popolazioni indigene, lavoratori, anarchici e altri gruppi di attivisti”.
I classici convegni scientifici solitamente non prevedono incitazioni ad una rivolta politica di massa, azioni più o meno dirette e sabotaggi. Ma a dir la verità, Werner non ha detto esattamente questo. Lui si è limitato ad osservare oggettivamente che le rivolte di massa delle persone – come il movimento abolizionista, il movimento per i diritti civili od Occupy Wall Street – rappresentano la più probabile fonte di “frizione” per rallentare una macchina economica che viene condotta senza controllo alcuno. Sappiamo che nel passato i movimenti sociali “hanno avuto una enorme influenza sull’evoluzione della cultura dominante”, ha osservato. Ha senso quindi dire che, “se pensiamo al futuro della terra e il futuro del nostro rapporto con l’ambiente, dobbiamo includere i movimenti di resistenza come parte di queste evoluzioni”, e che – ha affermato Werner – non è solo una questione di opinione, ma rappresenta “veramente una questione geofisica”.
Molti scienziati sono stati mossi dalle loro stesse ricerche a mobilitarsi attivamente. Fisici, astronomi, medici e biologi, sono stati in prima linea in movimenti contro le armi nucleari, l’energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. Nel novembre 2012, la rivista Nature ha pubblicato un articolo del finanziere e filantropo ambientalista Jeremy Grantham, che sollecitava gli scienziati a unirsi a queste attività e “farsi anche arrestare se necessario”, perché il cambiamento climatico “non rappresenta solo una crisi che coinvolge le nostre singole vite – ma minaccia l’esistenza stessa della nostra specie”.
Alcuni scienziati non avevo bisogno di essere convinti. Il padre della moderna scienza climatica, James Hansen, è un formidabile attivista ed è stato arrestato una mezza dozzina di volte per aver combattuto per la rimozione delle miniere di carbone in cima alle montagne e le sabbie bituminose (ha persino lasciato il suo lavoro alla Nasa quest’anno, anche per avere più tempo per le sue campagne). Due anni fa, quando sono stata arrestata fuori della Casa Bianca alla manifestazione contro gli impianti di estrazione delle sabbie bituminose della Keystone XL, una delle 166 persone arrestate quel giorno, era un glaciologo di nome Jason Box, esperto mondiale in materia di scioglimento dei ghiacci in Groerlandia.
“Non avrei potuto guardarmi allo specchio se non fossi andato”, disse Box quella volta, aggiungendo che “limitarsi a votare non è sufficiente in questi casi. Bisogna anche comportarsi da cittadini”.
Tutto ciò è lodevole, ma quello che Werner ha fatto con il suo prospetto è differente. Non ha detto che la sua ricerca lo ha portato a impegnarsi a fermare un particolare provvedimento; ha detto che la sua ricerca mostra che il nostro stesso paradigma economico è una minaccia per la stabilità ecologica e che sicuramente, sfidare questo paradigma economico attraverso la pressione dei movimenti di massa, è la cosa migliore che l’umanità possa fare per evitare la catastrofe.
E’ roba forte, ma lui non è l’unico a dirlo. Werner fa parte di un piccolo ma influente gruppo di scienziati le cui ricerche in merito alla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare il sistema climatico – li ha condotti a simili conclusioni trasformative e persino rivoluzionarie. E per ciascuno di quei potenziali rivoluzionari che hanno sognato intimamente di sovvertire l’attuale ordine economico a favore di uno che non condanni i pensionati italiani a impiccarsi a casa loro, questo lavoro dovrebbe essere di particolare interesse. Perché presenta la sostituzione di questo crudele sistema economico con qualcosa di nuovo (e forse, con molto lavoro, anche migliore), non più come una questione di semplice preferenza ideologica, ma piuttosto come una necessità essenziale di tutte le specie viventi.
A condurre il gruppo di questi nuovi rivoluzionari della scienza, vi è Kevin Anderson, il maggior esperto climatologo britannico e vice direttore del Tyndall Centre for Climate Change Research, uno dei migliori istituti di ricerca sul clima della Gran Bretagna. Confrontandosi con tutti, dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale al Consiglio comunale di Manchester, Anderson ha trascorso più di dieci anni a illustrare pazientemente le implicazioni delle recenti scoperte scientifiche sul clima, a politici, economisti e attivisti. Con un linguaggio chiaro e comprensibile, ha presentato un rigoroso programma per la riduzione delle emissioni, che prevede un soddisfacente piano per mantenere le temperature globali al di sotto dei 2 gradi centigradi, obiettivo indicato dalla maggior parte dei governi per prevenire la catastrofe.
Ma negli ultimi anni, i documenti e le presentazioni di Anderson sono divenute sempre più allarmanti. In un articolo dal titolo “Cambiamenti climatici: spingersi oltre la soglia del pericolo… numeri allarmanti e tenui speranze”, ha indicato che le chance di restare nei limiti delle temperature di sicurezza, sta drasticamente diminuendo.
Con la sua collega Alice Bows, esperta climatica del Tyndall Centre, Anderson ha indicato come si sia perso così tanto tempo a causa di stalli politici e deboli politiche climatiche – mentre i consumi (e le relative emissioni) globali continuavano a crescere a vista d’occhio –, che ora ci troviamo di fronte alla necessità di tagli così drastici da minare, tra le altre cose, i fondamentali logici della priorità posta alla crescita del PIL.
Anderson e Bows chiariscono che il noto obiettivo di riduzione di lungo termine – riduzione delle emissioni dell’80% sotto i livelli del 1990, entro il 2050 – è stato individuato puramente per ragioni di interesse politico e non ha “alcun fondamento scientifico”. L’impatto climatico, infatti, non dipende solo da quanto emettiamo oggi o domani, ma dalle emissioni complessive che si consolidano nell’atmosfera nel corso del tempo. I due scienziati mettono inoltre in guardia sul fatto che, concentrandosi su obiettivi da tre a cinque anni di tempo – anziché su quanto possiamo fare per ridurre il biossido di carbonio in modo netto e immediato-, vi è il serio rischio di consentire alle nostre emissioni di continuare ad aumentare negli anni a venire, superando pertanto di gran lunga i 2 gradi di “bilancio di carbonio” e ritrovarci così in una posizione insostenibile già nel corso di questo secolo.
Questo è il motivo per cui Anderson e Bows sostengono che, se i governi dei paesi sviluppati vogliono seriamente raggiungere l’obiettivo concordato a livello internazionale di mantenere le temperature al di sotto dei 2 gradi centigradi e se le riduzioni devono rispettare un principio di equità (ossia, fondamentalmente, che i paesi che hanno emesso carbonio per la maggior parte degli ultimi due secoli devono iniziare a ridurre prima di quei paesi in cui più di un miliardo di persone ancora non ha neanche accesso all’elettricità), allora le riduzioni devono essere molto più drastiche e devono essere affrontare prima.
Per avere il 50% di possibilità di riuscire a raggiungere l’obiettivo dei 2 gradi (soglia che, ci viene specificato, comporta pur sempre una serie di impatti climatici estremamente nocivi), i paesi industrializzati devono iniziare a tagliare le loro emissioni di gas serra per un qualcosa intorno al 10% anuo – e devono iniziare a farlo ora! Ma Anderson e Bows si spingono oltre e fanno notare che questo obiettivo non può essere raggiunto con espedienti quali la modesta politica dei prezzi del carbone o soluzioni green-tech solitamente sostenute dai grandi gruppi industriali della green economy. Queste misure certamente aiutano, ma non sono affatto sufficienti: il 10% in meno di emissione, anno dopo anno, è praticamente senza precedenti da quando abbiamo iniziato ad alimentare le nostre economie con il carbone. Infatti, un taglio al di sopra dell’1% annuo “è stato storicamente associato solo a periodi di recessione economica e sconvolgimento”, come ha affermato l’economista Nicholas Stern nel suo report del 2006 per il governo inglese.
Neanche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si sono avute riduzioni di questa durata e profondità (gli ex paesi sovietici hanno sperimentato una riduzione media di circa il 5% ma nell’arco di un periodo di 10 anni). Né si sono avute dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi più ricchi hanno avuto un calo di circa il 7% tra il 2008 e il 2009, ma le loro emissioni di CO2 sono risalite alla grande nel 2010 e le emissioni di Cina e India hanno continuato a salire). Stando ai dati storici del Carbon Dioxide Information Analysis Centre, solo all’indomani della Grande Crisi del 1929 gli Stati Uniti, ad esempio, hanno sperimentato un crollo delle emissioni superiore al 10% annuo per diversi anni consecutivi. Ma quella fu la peggiore crisi economica dei tempi moderni.
Se vogliamo evitare che, per raggiungere i limiti di emissioni fissati dalla scienza, si arrivi a una tale carneficina, la riduzione del carbone deve essere gestita attentamente attraverso quella che Anderson e Bows descrivono come una “radicale e immediata strategia di decrescita negli USA, in Europa e nelle altre nazioni ricche”. Che va bene, se non fosse che siamo governati da un sistema che vede nella crescita del PIL un vero e proprio feticcio, senza riguardo alcuno per le conseguenze sull’uomo e la natura e nel quale la classe politica neoliberista ha ampiamente abdicato alla propria responsabilità nella gestione delle cose, dal momento che il mercato rappresenta il motore invisibile a cui affidare qualsiasi scelta.
Quindi, quello che Anderson e Bows dicono è che siamo ancora in tempo per evitare un catastrofico riscaldamento globale, ma non all’interno delle regole capitaliste come attualmente concepite. E questo è il miglior argomento che abbiamo mai avuto per deciderci a cambiare queste regole.
In una ricerca del 2012 apparsa sull’autorevole rivista scientifica Nature Climate Change, Anderson e Bows hanno lanciato un guanto di sfida, accusando molti loro colleghi scienziati di mancare di chiarezza circa il tipo di cambiamento che il clima richiede dall’umanità. Vale la pena citare il seguente brano: “… nel delineare gli scenari relativi alle emissioni, gli scienziati minimizzano spesso e ripetutamente le implicazioni delle loro analisi. Quando eludono la crisi dei 2 gradi, oppure traducono “impossibile” con “difficile ma realizzabile”, o ancora anziché “urgente e radicale” usano termini come “impegnativo” – il tutto per tranquillizzare il dio dell’economia (o, più precisamente, la finanza). Per esempio, per evitare di superare il tetto massimo di riduzione delle emissioni imposto dagli economisti, “difficilmente” vengono ipotizzati picchi prematuri di emissioni, oltre alle nozioni un po’ naif circa la “grande” ingegneria e i livelli di apertura delle infrastrutture a basso consumo di carbonio. Ma ancor più inquietante, mentre si riducono gli stanziamenti per le emissioni, si chiede sempre più alla geoingegneria di assicurare soluzioni tali da non mettere in discussione i diktat degli economisti.
In altre parole, al fine di apparire ragionevoli all’interno dei circoli economici neoliberisti, gli scienziati hanno drasticamente sottostimato le implicazioni delle loro ricerche. Nell’agosto 2013, Anderson ha voluto essere ancora più drastico, scrivendo che abbiamo perso la nave per poter intraprendere un graduale cambiamento. “Forse al tempo del Summit sulla Terra del 1992, o persino verso la fine del millennio, i livelli di riduzione entro i 2 gradi centigradi sono stati raggiunti attraverso significativi cambiamenti evoluzionali all’interno del sistema politico ed economico egemonico. Ma il cambiamento climatico è un problema cumulativo! Ora, nel 2013, noi che facciamo parte di nazioni (post)industriali ad alto tasso di emissioni, ci troviamo di fronte ad una diversa prospettiva. Il nostro ininterrotto e massivo dispendio di carbonio, ha dissipato ogni opportunità di un “cambiamento evoluzionale” consentitoci dal precedente (e maggiore) bilancio di carbonio. Ora, dopo due decenni di bluff e menzogne, il rimanente bilancio richiede cambiamenti radicali al sistema politico ed economico egemonico” (i grassetti sono suoi).
Non dovrebbe sorprenderci che alcuni climatologi siano un po’ spaventati dalle implicazioni così radicali delle loro stesse ricerche. Molti di loro stavano magari facendo il loro normale lavoro di misurazione dei campioni di ghiaccio, realizzando i loro grafici sul clima globale e studiando l’acidificazione dell’oceano, solo per scoprire che in realtà – come ha detto l’australiano Clive Hamilton, autore ed esperto climatologo – stavano “inconsapevolmente mettendo in discussione l’ordine sociale e politico”.
Ma vi sono molti che sono perfettamente consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza climatica. È per questo che alcuni governi che hanno deciso di abbandonare il loro impegno a riguardo, a favore invece dell’estrazione di maggior carbone, hanno dovuto trovare metodi sempre più criminosi per silenziare e intimidire i loro stessi scienziati. In Inghilterra questi espedienti sono divenuti sempre più manifesti, tanto che Ian Boyd – capo consulente scientifico presso il Dipartimento per ambiente, alimentazione e affari rurali – ha recentemente scritto che gli scienziati dovrebbero evitare di “insinuare che certe politiche siano giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere le loro opinioni “lavorando con consulenti interni (come me) e rappresentando la voce della ragione piuttosto che del dissenso, quando parlano in pubblico”.
Se volete sapere cosa tutto ciò comporta, controllate cosa sta accadendo in Canada, dove vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha fatto un lavoro così efficace nell’imbavagliare gli scienziati e sopprimendo tutti i progetti di ricerca critici che, nel luglio 2012, circa 200 scienziati e sostenitori hanno intonato un canto funebre presso il Parlamento di Ottawa, piangendo “la morte delle prove”. Un loro cartello recitava “No Science, No Evidence, No Truth” (“Nessuna scienza, nessuna prova, nessuna verità”).
Ma la verità emerge comunque. Il fatto che la consueta corsa al profitto e alla crescita sia destabilizzante per la vita sulla terra non è più un qualcosa che dobbiamo leggere sui giornali scientifici. I primi segni sono sotto i nostri occhi. E sempre più persone si comportano di conseguenza: bloccando le attività di fracking in Balcombe; disturbando i progetti di perforazione dell’Artico in acque russe (con tremendi costi personali); denunciando coloro che estraggono le sabbie bituminose per violazione di territorio indigeno; e innumerevoli altri piccoli o grandi atti di resistenza. Stando al grafico di Brad Werner, questo rappresenta la “frizione” necessaria per rallentare le forze della destabilizzazione; il grande attivista climatico Bill McKibben, invece, li chiama “anticorpi” che si sollevano per combattere la “febbre da cavallo” del pianeta.
Non si può parlare di rivoluzione, ma è un inizio. E dovrebbe spingerci a spendere un po’ del nostro tempo per immaginare un modo di vivere su questo pianeta, che sia decisamente meno “fottuto”.