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Il problema della guerra «giusta» nel pensiero di Antonio Genovesi

di Francesco Lamendola - 03/03/2014


 

 


 

Antonio Genovesi (1713 – 1769) era un illuminista moderato: credeva nel progresso, credeva nei lumi della ragione, ma non era disposto a gettar via tutta la tradizione, tutta la metafisica e tutta la religione come altrettanti corpi morti. Pensava, in particolare, che il sentimento religioso fosse inscritto così naturalmente nell’anima umana, che il volerlo estirpare fosse pazzia, perché – sono parole sue – in un certo senso, è la natura stessa che lo vuole. Al tempo stesso, da buon cittadino del secolo dei “lumi”, auspicava una netta separazione fra l’ambito del potere politico e quello del religioso, riportando quest’ultimo entro la sfera giurisdizionale di sua competenza.

La sua fede nel progresso, inteso essenzialmente come ricerca del benessere materiale e della pubblica felicità, era tuttavia così forte, che, a un certo punto della sua vita, abbandonò gli studi di filosofia per dedicarsi interamente a quelli di economia, convinto che solo dal miglioramento delle arti, dei commerci e dell’agricoltura sarebbe scaturito il pubblico bene, non da ricerche di ordine astratto sulla natura dell’uomo; fu anzi il primo docente di economia politica, una cattedra creata apposta per lui presso l’Università di Napoli.

Una delle sue ultime opere è stata «Della diceosina, o sia della filosofia del giusto e dell’onesto», un ampio trattato di etica pubblicato nel 1767, che è un po’ il suo testamento spirituale e che spazia dall’ambito dell’uomo, della sua natura e dei suoi doveri, a quello della società in generale. In esso, fra le altre cose, si occupa della natura del potere statale e dei rapporti fra gli stati, in pace e in guerra. Quanto al problema della guerra, sul quale soffermeremo adesso la nostra attenzione, egli, prendendo le mosse da Grozio e dai giusnaturalisti del XVII secolo, sviluppa una serrata argomentazione a favore della guerra “giusta”, condotta solo per ragioni strettamente difensive, e sempre entro i confini di una regola morale che non può essere violata, neppure con il disinvolto argomento della necessità o del fine che giustifica i mezzi.

Tale regola morale, però – questo è il punto – non viene tratta da un principio superiore; benché sacerdote, Genovesi è troppo illuminista per non cercare un’etica che si fondi su principî puramente umani e puramente razionali; vedremo fra breve con quali inevitabili conseguenze. In ciò egli è stato certamente un pensatore “moderno”, nel senso che il suo orizzonte intellettuale, puramente immanentista e secolarizzato, non concede spazio alla trascendenza se non in linea di principio, e non cerca ai problemi umani soluzioni che non siano esclusivamente razionali.

Genovesi si occupa della questione della guerra “giusta” nella seconda parte della «Diceosina», nel capitolo dedicato ai diritti esterni dell’imperio (cioè della sovranità), i quali sono di tre categorie: il diritto di pace e di guerra; il diritto di stringere alleanze o confederazioni; il diritto delle ambascerie (e quest’ultimo offre una lettura particolarmente interessante, alla luce della controversia fra Italia e India per la vicenda dei due fucilieri di marina arrestati e processati nel Paese asiatico, e ancor più per la sospensione dell’immunità diplomatica dell’ambasciatore italiano a New Delhi, fatto di inaudita gravità e che non trova riscontro se non nell’assedio e nel sequestro del personale dell’ambasciata statunitense a Teheran, all’epoca della “rivoluzione islamica” di Khomeini in Iran). La trattazione della guerra “giusta” rientra, naturalmente, nel primo dei tre casi.

Ne riportiamo alcuni passaggi salienti, tratti dal capitolo VIII del Libro secondo (da: A. Genovesi, «Diceosina», a cura di Fidia Arata, Milano, Marzorati, 1973, §§ X-XXIII, pp. 324-30):

 

«[…] La giustizia di una guerra nasce o da diritto perfetto o da imperfetto: da diritto perfetto in due modi: 1) se un popolo ci attacchi ingiustamente o per avidità di preda o per ambizione d’imperio, o per ragioni che non appartengono al pubblico, ma ai privati, dove il governo e il pubblico non vi s’interessi. […] La difesa è così diritto innato come la vita e la libertà; 2) se un popolo che ci ha offeso e danneggiato, ci nieghi il compenso, perché allora noi abbiamo un diritto di richieder soddisfazione e di punire l’ingiuria. […] Ancorché queste due cagioni rendano giusta la guerra, non è da stimarsi però che convenga subito volare all’arme. Dove si può con minor male d’ambe le parti avere i suoi diritti e la pace, fa sempre pazzia ricorrere ai dubbi e rovine voli casi della guerra. […] Si può quindi domandare: se una giusta guerra difensiva possa nel progresso con pari giustizia diventare offensiva. E dico di sì, e per due cagioni: 1) per gastigare e reprimere la superbia, ferocia, rapacità di un popolo invasore, perché ci lasci quieti in appresso. […] 2) per richiedere le spese della guerra e farci rifare i mali ingiustamente cagionati.[…] Il diritto imperfetto, cioè di reciproco soccorso,  può darci in molti modi un giusto diritto di guerra. Perché siccome tra le private persone, dove non sia altro scampo alla vita,  è lecito di torre anche per forza, a chi ne ha del soverchio,  quando ci è necessario; o di passare per l’altrui podere, e se bisogna, svellere una siepe e rompere un muro per salvarci da chi c’insegue; ed oltre a ciò accorrere coll’arme o per impedire  che uno si ammazzi da se medesimo, o che uccida un altro iniquamente; a quel medesimo modo è permesso ad una nazione. […] Chiede Grozio se sia lecito far guerra ad una nazione barbara ed inumana, per punirla delle proprie scelleratezze, ed insegnarle e vivere con giustizia ed umanità. Qui il principio di far guerra non sarebbe che il diritto di soccorso; il quale come obbliga tutto il genere umano, Grozio ha per ciò creduto che tutte le guerre siano giuste. Ma era da considerarsi che il diritto di soccorso non ci obbliga se non quando noi possiamo fare il bene degli altri. Una guerra che spopola una nazione la spianta, si chiamerebbe ella un beneficio? Io non so quante delle guerre degli Europei fatte nell’America e nell’Africa in questi ultimi secoli si potessero chiamare un soccorso di quei selvaggi. […] Se poi un popolo, il quale non trova da vivere nel suo paese o ne è cacciato dai flagelli della natura o dalle bestie, o da un popolo più grande e feroce; ovvero un esercito che si trova distante dalla sua casa, imprendono, quello a situarsi dove si può vivere, questo a ritrarsi, e ciò fanno senza recare a nessuno ingiuria; non si ha niun diritto né d’impedir loro il passaggio, né di attaccarli; e dove ciò si faccia, il diritto alla difesa dà loro un diritto alla guerra. Così gli Ebrei potevano ben far la guerra a coloro i quali si opponevano alla loro marcia; e i diecimila di Senofonte, i quali dalla Persia tornarono in Atene, ebbero tutta la ragione di farsi la strada col ferro. Ma questo diritto non conviene a coloro i quali  intendono di cambiare le terre ed i climi men buoni con i più felici e spogliarne i possessori. […] Questa medesima ragione ci dimostra assai chiaramente che la gloria non può dar niun diritto di guerra che sia giusto. La vera gloria  non nasce che dalle grandi illustri azioni di giustizia e di beneficenza, e non già dall’opprimere con forza i più deboli. Quei che inventarono le arti o i loro utili strumenti;  quei che diedero le leggi o la sapienza i popoli; quei che inventarono dei consigli da sollevare le nazioni fa sollevare le nazioni dai mali fisici o politici; questi soli son degni di essere stimati gloriosi. […] Finalmente il medesimo diritto di soccorso rende sempre giusta la guerra che si fa per difendere un popolo ingiustamente attaccato da un più potente, sia che vi siamo obbligati per patti e confederazioni, sia che no; perché il jus di difesa va da persona a persona, da famiglia a famiglia, da nazione a nazione. […] Quando poi la guerra sia giusta, sia che si faccia pere difesa, sia attaccando o per ricoverare i nostri diritti o per punire coloro che ci hanno offeso, sarà lecito adoperare ogni sorta d’arme ed ogni arte e stratagemma che si stima necessario a conseguire il nostro fine. Ma son sempre da distinguere gli stratagemmi dalle menzogne e dalla perfidia. […] Ricordiamoci che non ci è maggior fondamento  della grandezza dei popoli, quanto la fede, cioè la rigida e religiosa osservanza dei patti. […] Si chiede in oltre: se sia lecito in guerra di servirsi d’arme avvelenate o del veleno stesso siccome di armatura. Vi ha delle questioni che è più facile risolvere in tesi che in ipotesi. Nelle guerre difensive o nelle offensive necessarie, dove la giustizia sia dalla nostra parte, ci è lecito servirci di ogni armatura che può conferire ad ottenere il nostro fine. […] Ma in ipotesi essendo difficilissimo  che si adoperi veleno o arme avvelenate senza inganno; né la legge della giustizia permettendo inganno, come quella che spianta dai fondamenti ogni principio d’equità; seguita, non esser facile approvare in ipotesi  questa maniera di guerra. […] Si vuol ora vedere: che può esser permesso di giusto ad un guerreggiante  rispetto ai popoli neutrali.  La guerra si fa o per difesa o per recuperare il nostro, o per punire coloro che ci hanno offeso, né intendono di soddisfarci: ma i neutrali non sono in niun di questi casi (“ex hypotesi”): dunque non si può verso di loro commetter niuna ostilità che non sia iniqua. Pure se essi si mostrassero più inchinati ai nostri nemici che a noi, e li soccorressero di viveri o d’arme, si potrebbero stimare collegati contra di noi: nel qual caso la guerra che loro si facesse, sarebbe giusta. […] Ma sarà egli lecito passare coll’esercito per un paese neutrale frapposto fra noi ed i nemici»; ed anche occuparlo durante la guerra, siccome fece negli anni addietro con la Sassonia Federico II, re di Prussia, ed hanno fatto sempre le nazioni guerriere? Questione difficile, dove si consulti l’interesse; ma niente è più facile, se si vogliano osservare i diritti della natura. Un popolo non può avere diritto nel territorio di un altro popolo; e perciò se quell’altro osta al passaggio od all’occupazione, senza intanto dichiararsi di veruna parte, il passare o l’occupare è una manifesta violenza. Si potrebbe impetrare il suo consenso, dove si reputi necessario. Ma si vuol sapere che il terzo popolo non è nel preciso obbligo di concederlo. Eccettuo sempre il caso della fuga o del passaggio amichevole per penetrare in quelle terre che la provvidenza ci ha destinate…»

 

Proviamo, dunque, a seguire i ragionamenti svolti dal Nostro a proposito della guerra, e soprattutto intorno al concetto della guerra “giusta”.

Genovesi afferma che il diritto alla “giusta” guerra scaturisce dal diritto naturale alla difesa, valido anche per il singolo individuo, e si configura o come diritto perfetto, quando cioè sia in gioco direttamente il diritto alla difesa di uno Stato, o da diritto imperfetto. Il diritto perfetto deriva da una aggressione violenta per opera di uno Stato ai danni di un secondo, o per punire una offesa recata da uno Stato ad un altro, offesa che il primo si è rifiutato di riparare. Il diritto imperfetto si verifica quando sia in gioco il diritto di un popolo a garantire la propria salvezza e sicurezza, se incomba si di esso una minaccia mortale da parte di terzi, ovvero quando si tratta di soccorrere un popolo che sia stato ingiustamente aggredito: sia che con tale popolo esista un trattato formale di alleanza, sia che non esista.

Si noti che l’Autore non distingue opportunamente fra “popolo” e “Stato”, sicché il soggetto giuridico del diritto perfetto e di quello imperfetto rimane alquanto nel vago. Tale diritto si applica a qualunque popolo, anche se privo di Stato, come è stato il caso, poniamo, degli Armeni nell’ambito dell’Impero ottomano, o anche in quello degli Italiani, prima che si costituisse il Regno d’Italia? In caso affermativo, infatti, ne conseguirebbe che un popolo invaso e sottomesso abbia sempre e comunque il diritto di “difendersi”, ossia di lottare con ogni mezzo per la propria libertà. Tale sarebbe, ad esempio, il caso dell’I.R.A. nell’Irlanda moderna e ciò porterebbe anche a giustificare gli atti terroristici compiti in territorio “nemico”, ossia all’interno della Gran Bretagna. Ma questo principio rimane valido anche se quel popolo è stato sottomesso da secoli o se, addirittura – come è il caso del popolo slovacco nell’Impero austro-ungarico – non ha mai conosciuto una propria storia indipendente e una propria effettiva sovranità statale? Se così fosse, sarebbero ben pochi gli Stati i quali potrebbero ritenersi al sicuro da attacchi di popoli “oppressi”: la Francia dovrebbe aspettarsi in qualunque momento attentati di indipendentisti corsi, la Spagna di indipendentisti baschi e l’Italia, naturalmente, di indipendentisti altoatesini.

Genovesi si domanda poi se la guerra “giusta” abbia sempre e solo carattere strettamente difensivo, o se possa anche configurarsi, in taluni casi speciali, come offensiva. Risponde che può essere anche offensiva, e precisamente quando si tratta di scrollare il giogo e la violenza di un popolo invasore, e quando si tratta di imporre un risarcimento di danni ingiustamente causati. Non si dà, in ogni caso, alcuna legittima guerra “punitiva” contro popoli dalle usanze barbare e inumane; e cita esplicitamente il caso di guerre innumerevoli, condotte dagli Europei in Asia e Africa, con il pretesto di punire popoli “barbari” della loro ferocia. Non si ammette neppure il principio della cosiddetta guerra “preventiva”: la dottrina Bush, così come fu proclamata dagli Stati Uniti in occasione della Seconda guerra del Golfo, nel 2003, non trova alcun conforto nelle tesi del Nostro. Non risulta che, per quest’ultimo, il concetto di abbattere la ferocia di un popolo nemico possa venire estesa fino all’idea e alla pratica della guerra preventiva, perché egli, se parla di agire contro un popolo che “ci lascia quieti in appresso”, cioè in futuro, specifica però che deve trattarsi di un “popolo invasore”e non di un popolo che vive entro i propri confini, senza recar molestia all’esterno dei propri confini.

Al massimo, si potrebbe trovare qui una giustificazione per la guerra lanciata dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan nel 2001, sostenendo che si trattò di punire i danni provocati dagli attentati dell’11 settembre di quell’anno in territorio americano. Bisognerebbe però che il legame fra tali attentati e il governo afghano dei Talebani fosse stato provato da una inchiesta internazionale e che una serie e incontrovertibile inchiesta interna dell’amministrazione americana avesse  mostrato la connessione fra Al Qaida e l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono, condizioni entrambe non verificatesi.

La dottrina del diritto imperfetto alla guerra “giusta” sembra nascere, in Genovesi, soprattutto dalla preoccupazione di fornire una giustificazione giuridica alle numerose guerre condotte dagli Ebrei contro i popoli vicini, durante e dopo la migrazione dall’Egitto alla “Terra Promessa”; guerre nelle quali, con ogni evidenza, gli Ebrei aggredirono per primi, ma che, in ossequio a una interpretazione religiosa dei destini del “popolo eletto”, era necessario presentare come difensive e, dunque, come pienamente legittime. Tale lettura del passo di Genovesi è autorizzata da ciò che egli dice a proposito delle terre che “la Provvidenza ci ha destinate”: se la sua dottrina fosse valida, allora basterebbe ad un qualsiasi popolo affermare che la Provvidenza gli ha destinato il possesso di certe terre, per rendere legittima tale usurpazione. A quel punto, la dottrina hitleriana dello “spazio vitale” diventerebbe pienamente legittima, e, con essa, la distruzione della Polonia e l’invasione della Russia, nonché la colonizzazione di questi Paesi da parte di immigrati tedeschi, come era nei piani nazisti, e l’uccisione o la deportazione delle popolazioni slave.

In ogni caso, Genovesi nega il diritto di un popolo di migrare nel territorio di un’altra nazione, solo per assicurarsi un territorio e un clima migliori: in tal caso non vi è questione di salvezza da un pericolo, ma solo desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita; e da ciò non scaturisce un giusto diritto a invadere ciò che appartiene ad altri.

Si noti che gli Elvezi, nel racconto del «De Bello Gallico» di Cesare, vennero a trovarsi in una situazione di questo tipo. Essi volevano migrare dalle loro sedi sull’Altipiano svizzero al territorio dei Santoni, presso le rive dell’Oceano Atlantico, e chiesero ai Romani il permesso di attraversare pacificamente la Provincia, impegnandosi a non recare alcuna molestia agli abitanti. Ne ebbero però un rifiuto; indi, nel tentativo di passare ugualmente, vennero inseguiti da Cesare, costretti a battaglia, massacrati e respinti nuovamente nelle loro sedi originarie.

Si noti anche che chiunque fugga da situazioni di guerra, di estrema povertà o di pericolo, come avviene oggi in vaste aree dell’Africa o dell’Asia, viene ad essere giustificato, secondo la dottrina formulata dal Genovesi, ad entrare nel territorio di altri Stati, per mettersi al sicuro o per assicurarsi l’esistenza: principio che l’Alta Corte europea di giustizia è incline a riconoscere, specie quando si tratta dei Paesi europei affacciati sul Mediterraneo; molto meno quando si tratta dei Paesi del Nord Europa. Non parliamo poi del’Australia, la quale si sente legittimata a respingere qualunque tipo di immigrazione clandestina, anche se motivata da emergenze umanitarie, e a impedire l’approdo di qualunque imbarcazione recante a bordo dei cittadini di altra nazionalità che chiedano rifugio, sia pure per sfuggire a un genocidio (come accadde nel caso della popolazione cattolica di Timor Est da parte dell’esercito indonesiano e delle milizie islamiche, fra il 1975 e il 1999). Anche gli Stati Uniti esercitano un ferreo controllo della loro frontiera meridionale, per impedire l’ingresso di immigrati clandestini i quali, non di rado, affrontano la morte nel deserto, pur di sottrarsi alla caccia delle pattuglie di polizia statunitensi e di tentare la carta disperata dell’ingresso illegale nel territorio della California, dell’Arizona, del New Mexico o del Texas.

Quanto al parallelo fra la situazione di un singolo individuo che, per salvarsi da un inseguitore deciso a fargli del male, ha il diritto di violare la proprietà privata altrui, di abbattere muri, di strappare una siepe, e un popolo che, minacciato da altri o dalla natura, ha un eguale diritto di irrompere nel territorio altrui, e perfino di toglierli il superfluo, se esso è mancante del necessario, forse Genovesi non si rende ben conto della portata delle sue affermazioni. Prese alla lettera, da esse si evince il diritto di tutti, o quasi tutti, a invadere le terre altrui e di muovere guerra ad altri popoli: basta che una situazione di necessità, un terremoto, una carestia, una crisi economica, mettano in crisi le basi materiali dell’esistenza, ed ecco che ne deriva il “diritto” a violare la sovranità dei vicini più fortunati e benestanti.

Tuttavia, se il paragone con la situazione di un singolo individuo regge, allora che cosa si dovrebbe dire di un caso come quello della corazzata tedesca «Graf von Spee», che, danneggiata in uno scontro con gli incrociatori inglesi, cercò rifugio nel Rio del la Plata, entrando nel porto di Montevideo, nel 1939? La Convenzione del’Aia stabiliva che una nave di una nazione belligerante non poteva trattenersi più di ventiquattr’ore nel porto di una nazione neutrale - e tale era il caso dell’Uruguay -, pena l’internamento. Ma la nave tedesca non si trovava forse nella assoluta necessità di sottrarsi ai suoi persecutori e di riparare i danni ricevuti, cosa che avrebbe richiesto ben più di ventiquattr’ore? Molti storici hanno lodato il coraggio del governo uruguaiano, cioè di una piccola nazione neutrale, per essersi opposto alla richiesta di una potenza formidabile, come la Germania, di prorogare la permanenza della «Graf von Spee». Ma la potente Germania, in Sud America, non disponeva di alcun argomento di persuasione, né , meno ancora, di pressione militare; mentre la Gran Bretagna ne aveva, eccome: dunque la decisione del governo di Montevideo fu, tutto sommato, assai meno “coraggiosa” di quel che si è voluto far credere.

La Gran Bretagna, del resto, ha una lunga tradizione di violazione della neutralità di Paesi terzi, quando erano in gioco i suoi interessi navali e imperiali. Essa ha violato senza scrupolo la neutralità di nazioni come la Danimarca, al tempo delle guerre napoleoniche, o del Cile, durante la prima guerra mondiale (affondamento dell’incrociatore «Dresden»), o della Norvegia, nella seconda guerra mondiale (incidente della petroliera tedesca «Altmark», abbordata all’interno di un fiordo) e, ancora, della Francia di Vichy (distruzione della flotta francese a Mers-el-Kebir). In tutti questi casi, la Gran Bretagna ha dato una interpretazione estremamente estensiva al concetto della legittima difesa, calpestando la sovranità di nazioni neutrali; tuttavia, quando si è trovata nella situazione opposta, cioè di vedere violata la neutralità di Paesi che rientravano nella sua sfera d’interesse strategico, ha sempre alzato alte proteste e invocato il diritto internazionale, per punire tali violazioni di Stati neutrali da parte di nazioni con cui era in stato di belligeranza.

Il caso più noto è quello del Belgio, la cui neutralità è stata violata, nel 1914, dalla Germania, in base ai postulati del “piano Schlieffen”, per colpire la Francia dalla frontiera settentrionale. In quel caso, l’esercito tedesco richiese il diritto di attraversare il territorio belga – come vuole la dottrina esposta da Geovesi -, permesso che venne rifiutato dal governo di Bruxelles; e ciò costituì il pretesto per la dichiarazione di guerra inglese alla Germania, benché quest’ultima non avesse compiuto alcun atto ostile nei confronti della Gran Bretagna e, anzi, ne desiderasse ardentemente la neutralità. Abbiamo ricordati tutte queste situazioni per mostrare come la dottrina della giusta causa di guerra, pur essendo relativamente semplice e chiara in teoria, in pratica può essere deformata e stravolta a piacere da quelle nazioni che siano interessate a trovare una giustificazione giuridica per una politica di aggressione.

Il problema è sempre lo stesso: il diritto internazionale può stabilire una serie di regole e di impegni solenni, sottoscritti dalle nazioni in tempo di pace; ma poi, quando - nel clima infuocato della guerra - si presentano le condizioni adatte, ciascuno è pronto a violare quei principi e a calpestare quei trattati, ogni volta invocandone una interpretazione di comodo. «Ci farete dunque la guerra per un pezzo di carta?», chiese sbalordito il cancelliere tedesco Bethmann-Hollweg all’ambasciatore inglese a Berlino, nell’agosto del 1914; e il suo stupore, la sua incredulità erano, probabilmente, sinceri. Come dire: proprio voi, che avete distrutto la flotta danese a Copenaghen, nel 1801, calpestando la neutralità della Danimarca; proprio voi, che infinite altre volte avete tenuto in non cale impegni e  trattati, ora ci dichiarate la guerra per l’invasione del Belgio?

Purtroppo, nella realtà dei fatti, è la forza che fa il diritto e non il diritto che fa la forza. Un criminale di guerra serbo può essere catturato in base a un mandato di arresto internazionale e processato dal Tribunale dell’Aja; ma un criminale di guerra americano, ad esempio il responsabile dell’impiego di armi chimiche in Vietnam, o della tortura sistematica di prigionieri iracheni nelle carceri di Baghdad, non sarà mai colpito da un tale mandato di cattura internazionale o, se anche lo fosse, non verrebbe mai arrestato e processato come un comune malfattore, perché la sua patria non lo permetterebbe.

Queste riflessioni valgono anche a proposito delle armi “avvelenate” di cui parla Genovesi, così come dell’uso della frode in guerra. Egli stesso, del resto, ammette che è difficilissima la distinzione fra l’uso lecito e illecito dei “veleni”, ossia delle armi chimiche. È lecito quando rientra nella guerra giusta perché difensiva, è illecito quando si attua per mezzo dell’inganno, che non è mai lecito, egli dice - il che è già opinabile, né egli si prende la briga di giustificarlo. L’uso di veleni, peraltro, è di per se stesso un inganno: avvelenare l’acqua di un pozzo di cui si servirà il nemico per bere, è un inganno; e allora, come separare questo inganno dalla pretesa legittimità dell’uso del veleno stesso, se ciò viene fatto per una giusta causa di difesa e non per una ingiusta causa di offesa? E che dire dell’inglese Lord Jeffrey Amherst, che fece distribuire in dono centinaia di coperte infettate dal vaiolo alle tribù amerindie del Nord America, per sterminare dei potenziali nemici, durante la Guerra franco-indiana?

Contraddizioni inestricabili: nelle quali viene a trovarsi un’etica come quella del Genovesi, che non si ispira a una legge superiore, come quella divina, ma ad una legge puramente umana, che, per definizione, è e sarà sempre fatta dalle parti interessate. Quando mai uno Stato condannerà se stesso, anche davanti alla plateale evidenza del proprio torto; quando mai uno Stato ha ammesso di aver condotto una guerra ingiusta a danno di altri popoli e di altri Stati, a meno che vi sia stato costretto, come furono costretti a farlo i rappresentanti della Germania sconfitta, nel trattato di Versailles del 1919?

Come tutti gli illuministi, anche Genovesi rispecchia questa contraddizione di fondo: cerca un’etica che sia puramente umana, e che si fondi su una saggezza umana condivisa dalle nazioni; su di essa pretende di fondare le norme del diritto internazionale. Ma davvero egli non sa, non vede che mai la forza si è inchinata davanti al diritto; e che le leggi umane, quando non si ispirano ad altro che a ragioni puramente umane, non rispettano altro diritto che quello derivante dalla forza, e giammai il diritto sprovvisto della forza di farsi valere?