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Abbiamo perso la gentilezza perché abbiamo perso il gusto di sognare

di Francesco Lamendola - 12/03/2014

i darling N° 32 la porta d'oro - a. rausch - huger - fabbri editori 1968

 

 

Ai bambini d’oggi gli adulti non raccontano più le fiabe, non regalano più libri di fiabe, ma giochi elettronici o mostriciattoli di gomma derivati da qualche brutto cartone animato;  questo non ha solo diminuito la forza della loro fantasia e la potenza della loro capacità immaginativa, ha anche inciso sulla loro gentilezza, perché la gentilezza è figlia del gusto di sognare. Intendiamo, per gentilezza, non solo e non tanto il possesso delle buone maniere, ma la gentilezza dell’anima, cioè la nobiltà del sentire, nel senso dantesco: «biondo era e bello e di gentile aspetto»; cioè: «era biondo, bello e di nobile aspetto».

La stessa cosa è avvenuta con l’adolescenza e la prima giovinezza. Gli adolescenti e i giovani di oggi hanno smesso di sognare perché, al cinema, invece di garbate storie sentimentali, spesso vanno a vedere vicende brutali, popolate da personaggi cinici o amorali, giochi erotici di corpi senza alcuna connotazione affettiva, senza il benché minimo risvolto di poesia; e non leggono più romanzi che parlano dei palpiti del cuore in una luce di gentile aspettativa, perché non leggono affatto e passano direttamente dai detestati libri di scuola al telecomando del televisore o al “mouse” del computer.

Si dirà che quelle storie erano ingenue e melense; si dirà che erano ipocrite, perché non riflettevano affatto la realtà sociale e morale: e può darsi che in questa critica vi sia una parte di verità. Ma una parte di verità non è la verità; una parte della verità è una menzogna. Sappiamo benissimo che la storia del principe azzurro nasce da una proiezione ingenua di desideri irrealizzabili e che, per una Cenerentola che trova il suo principe desideroso di sposarla ad ogni costo, ve ne sono diecimila che si illudono e restano poi deluse e amareggiate. Il punto non è questo: perché, nella vita, non conta solo il risultato, ma anche il modo in cui si arriva a quel certo risultato; il punto è che un certo gusto di sognare fa parte della natura umana e che sopprimerlo, in nome di un realismo disincantato e, spesso, alquanto brutale, non è indice di maggiore maturità o di più precoce assunzione di un punto di vista adulto, ma, al contrario, di una resa agli aspetti più crudamente materialistici dell’esistenza, di un nichilismo travestito da buon senso.

Sono stati i cattivi “maestri del sospetto”, Marx e Freud in cima a tutti gli altri, ad assuefarci all’idea che conta solo il risultato e che chiunque parli di nobili ideali e di belle aspettative o è un astuto bugiardo che vuole raggirarci, o è un alienato e, in ultima analisi, un povero imbecille. Non è vero che conta solo il risultato e non è vero che, per essere persone mature, bisogna consumare il suicidio delle belle speranze, l’eutanasia di ogni senso di stupore e di gentilezza; non è vero che bisogna pagare il prezzo del disincanto del mondo, perché il disincanto porta solo amarezza e disperazione. E noi, per vivere, per vivere nel senso pieno della parola, abbiamo bisogno di bellezza e di poesia, quindi abbiamo bisogno di sognare: non di sognare con la testa nelle nuvole, come si suole dire, ma di sognare nel senso alto del termine, cioè di puntare in alto, di trasfigurare le cose in una luce di spiritualità e di poesia.

Ecco perché è sbagliato dire a un bambino, il più presto possibile, che Babbo Natale non esiste; ed ecco perché è sbagliato dire a un adolescente, il più presto possibile, che deve smetterla di sognare la principessa (o il principe) azzurro, i quali non esistono e non arriveranno mai. In realtà, non è detto che non esistano: né Babbo Natale, né la principessa azzurra; tutto dipende da come ci immaginiamo che debbano apparire. Ma apparire non è essere. Non è detto che una cosa non esiste perché non ci si presenta così come ci aspetteremmo che sia. Ma, oltre a ciò, non è bene spegnere l’incanto del mondo nell’anima vergine di un bambino, né in quella, ancora parzialmente vergine, di un adolescente.

Lasciamo che siano loro, da se stessi, a scoprire come stanno le cose, a farsi un’idea di come va il mondo; noi, da parte nostra, incoraggiamoli a credere nel bene, nel buono e nel bello, perché, senza tale incoraggiamento, essi forse finirebbero per lasciarsi influenzare da mille voci distruttive che vengono da ogni parte e spegnerebbero in loro ogni impulso generoso, ogni nobile proponimento, ogni alto sentire. Anche l’anima va alimentata e nutrita, così come un campo va difeso dalla sporcizia e dalle erbe infestanti. Se non seminiamo noi adulti cose buone – noi genitori ed educatori in genere –, saranno altri a farlo: gli agenti del consumismo e del tecnicismo, di un progresso disumano, basato unicamente sulle leggi spietate del mercato.

C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, dice la Bibbia; c’è un tempo per ridere e un tempo per piangere, un tempo per ogni cosa. Quindi c’è anche un tempo per sognare, e quel tempo è l’infanzia e, in una certa misura, anche l’adolescenza e la prima giovinezza. Dopo, il confronto con la realtà degli adulti arriverà per tutti; ma non è detto che aver sognato cose belle, nell’infanzia e nell’adolescenza,  troverà le persone fatalmente impreparate ad affrontare i doveri e i sacrifici che fanno parte della vita adulta; al contrario, pensiamo che le aiuterà a conservare in se stesse quella capacità di vedere le cose in una luce di bellezza, senza la quale la vita stessa diventa piatta e sgradevole. In altre parole, un bambino nutrito di belle fiabe e un adolescente nutrito di buoni sogni saranno più forti, non più deboli davanti alle difficoltà della vita adulta; avranno più frecce al loro arco, e non di meno; più fiducia in se stessi, più fiducia nella bontà del mondo, anche se impareranno che non si può avere una fiducia indiscriminata nei confronti di chiunque e di qualunque situazione.

È giusto premunire un giovane contro il pericolo del lupo cattivo, ma non bisogna fargli credere che al mondo ci sono solamente lupi cattivi, pronti a sbranarlo e a divorarselo in un boccone. Il mondo non è solo quello che appare (la realtà fattuale della cosa, di cui parla Machiavelli), ma anche quello che noi pensiamo che sia: il fatto che noi pensiamo che esso debba essere in un certo modo non è ininfluente, perché la realtà la facciano noi, anche se ciascuno di noi partecipa solo a una minima parte della costruzione di essa. Il realismo brutale è, contrariamente a quel che si crede, poco realista, perché non tiene conto che noi non conosciamo le cose, ma piuttosto l’opinione che abbiamo di esse, l’idea che di esse ci siamo fatta. Si trova quel che si cerca: se ci cercano porci, si troveranno porci; se ci cerca solamente fango, si troverà solamente fango; ma se si cercano fiori e frutti, sono questi ultimi che si finirà per trovare.

Non stiamo dicendo che le nostre illusioni sono una cosa sola con la realtà, né che bisogna gettarsi imprudentemente nella vita, armati solamente di sogni. Del resto, bisogna vedere che cosa si intende per “sogno”. Se si intende qualche cosa di puerilmente gratuito, di velleitario, di narcisista; se si intende qualche cosa che nasce da una immaginazione voluttuosa, ma totalmente separata dalla volontà e dell’intelligenza, allora si ha ragione di criticare una tal maniera di sognare. Ma non è questo che intendiamo: noi ci riferiamo al fatto di coltivare la parte più gentile della nostra immaginazione. Chi non sa vedere, per esempio, nella donna amata, anche una principessa, una vera e propria principessa venuta dall’Altrove per portare un raggio di luce nella nostra vita, non sa amare veramente, non sa nemmeno scorgere la bellezza che è presente nel mondo. Certo, il confine con le pericolose illusioni solipsistiche è sottile, ed è cosa relativamente facile cadere nell’ingenuità, nella sconsiderata leggerezza, nella imprudenza infantile. Ma la persona consapevole conosce la differenza che passa tra queste cose: non scambia quest’ultima maniera di sognare, sterile e superficiale, con quell’altra, foriera  di cose buone per la vita dell’anima.

Se qualcosa va male nella nostra vita, non è colpa del fatto che abbiamo sognato bei sogni, né del fatto che abbiano coltivato la nostra parte gentile: non dobbiamo saltare a delle conclusioni sbagliate, basandoci sulle mere apparenze o su dei ragionamenti superficiali. Un modo di ragionare superficiale o, peggio, un mero pregiudizio, è che la vita riconosca solo il linguaggio di un crudo realismo, che poi è una forma mascherata di cinismo e di egoismo, di cui ci serviamo per giustificare le nostre basse azioni e le nostre menzogne, sia nei confronti di noi stessi, sia nei confronti degli altri. Finché ci raccontiamo che tutto è fango e che la bellezza, la verità e la bontà non esistono, ci sentiamo anche autorizzati ad agire con cattiveria, con la frode e con assoluta mancanza di scrupoli. Una filosofia spicciola molto comoda, tutto sommato, perché sempre e comunque auto-assolutoria: i cattivi sono sempre gli altri; noi saremmo buoni, se vivessimo in un mondo di buoni; ma poiché il mondo è popolato di cattivi…

Siano diventati tutti dei  piccoli Machiavelli: questa filosofia non sarebbe buona, se gli uomini fossero buoni – dice il Segretario fiorentino -; ma, dal momento che gli uomini sono “tristi”, se tu fossi leale con loro, loro non ti ricambierebbero la cortesia, dunque nemmeno tu devi osservare la fede verso di essi. «Scrive, nel «Principe»: «E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto [cioè ] non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non lo osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro». E così tutto diventa lecito: mentire, ingannare, tradire: perché noi non facciamo altro che adeguarci alle cose del mondo, e non è colpa nostra se il mondo, da quando esiste, è sempre andato così.

Ecco perché è importante che  bambini e i ragazzi ricomincino a sognare sogni belli: sogni nei quali vi sia ampio spazio per la generosità, per la lealtà, per la sincerità, per la parte migliore di noi stessi e non per la peggiore, così spesso stimolata e corteggiata dalla cultura moderna; non per la parte egoista, prepotente, cinica e insensibile. Gli adulti hanno una forte responsabilità questo ambito: a loro spetta il compito di far vedere la bellezza del mondo, di non ridurlo, ai loro occhi, a puro calcolo di convenienza economica, a utilitarismo nudo e crudo.

Quando un papà o una mamma conducono per mano il loro bambino a fare una passeggiata in campagna, che tornino a raccontargli qualche fiaba e che si fermino, ogni tanto, a fargli ammirare la bellezza di un fiore, l’eleganza di una farfalla, la fastosità e la suggestione del sole al tramonto, la superba magnificenza del cielo stellato nelle notti d’estate. Sono semi di poesia che potranno attecchire e svilupparsi rigogliosamente, quando il bambino crescerà e diverrà adulto; sono forme di educazione alla sensibilità, al saper vedere, al saper andare oltre le apparenze, oltre la fretta e l’abitudine.

Non si tratta di estetismo, non si tratta di evasione dalla realtà: si tratta di educazione alla parte migliore di noi stessi, la quale, se non viene opportunamente coltivata, rischia di atrofizzarsi e di rimanere sepolta nell’oblio. Sappiamo bene che, nella vita, sono necessarie anche la vigilanza, l’energia, lo spirito pratico e il senso dell’iniziativa; ma dove sta scritto che queste cose non possono andare d’accordo con l’apprezzamento del bello, del buono e del vero? Chi ha detto che, all’interno del tran-tran della vita quotidiana, non può esservi posto per la poesia, per l’incanto del mondo? Sarebbe come dire che non possiamo spalancare delle finestre, che non possiamo aprire i balconi per ammirare la luce e per respirare l’aria pura che viene da fuori; che dobbiamo trascorrere la nostra intera esistenza in una specie di bunker, in un rifugio blindato, senza porte né finestre, per non lasciarci distrarre dai nostri doveri abituali.

E questo, di fatto, stiamo diventando, a forza di pessimismo e di nichilismo travestiti da buon senso: dei rinunciatari, degli sconfitti, i quali nascondono la loro sconfitta e la loro amarezza dietro la maschera degli uomini di mondo, che non si fanno illusioni perché hanno capito che cosa è la vita. Ma è proprio vero che abbiamo capito che cosa è la vita, partendo da simili premesse? Davvero l’abbiamo capito, solo perché abbiamo sempre saputo – o creduto di sapere -, prima degli altri bambini e degli altri ragazzi, che Babbo Natale non esiste, che è il papà a portarci i regali; e che la principessa azzurra si incontra solo nelle fiabe? Se è tutta qui la nostra pretesa saggezza, allora si tratta di una ben misera cosa.

È arrivato il momento di disfarci di un po’ di zavorra e di falsa conoscenza del modo; di sbarazzarci di un po’ di Machiavelli, di un po’ di Marx e di un po’ di Freud. Machiavellismo, marxismo e psicanalisi hanno distorto la nostra visuale delle cose e hanno spento in noi la freschezza dello stupore, l’incanto del mondo. Dobbiamo riaccenderlo.

C’è ancora tempo: finché ci sono dei bambini che spalancano gli occhi sul mondo per la prima volta, c’è ancora tempo. Purché noi non ne facciamo dei precoci vecchietti, tristi e amareggiati…