In “Una teoria della giustizia”, nel 1971, John Rawls, liberale e di matrice Kantiana, riprendendo il modello contrattualista, formula la sua teoria morale. In breve, il filosofo statunitense pensa che i cittadini abbiano due caratteristiche, denominate “poteri morali”, in stretta connessione tra loro: il senso di giustizia e la concezione del bene. Il primo, dovrebbe disporre i singoli ad agire secondo i principi della società, stabiliti nel contratto; il secondo, corrisponde alla personale visione del mondo di ognuno e per questo non deve essere confuso con la concezione del “Bene” comune, ma identificato come “avere, perseguire e rivedere razionalmente il proprio bene”. Rawls non nega che il singolo possa condividere questi beni con un gruppo, ma proprio perché ogni soggetto morale può “rivedere” radicalmente qualsiasi valore tradizionale, risulta difficile concepire una qualche idea organicistica della società. Di fatto, la visione Rawlsiana segna la superiorità della persona sulla comunità, della parte sul tutto. È il trionfo dell’individualismo, nel quale l’io personale è del tutto scisso da quello sociale. Ebbene, la nostra società, liberal-democratica, ha incarnato ed estremizzato perfettamente questo pensiero. La massa, sempre più assoggettata a valori perversi di giustizia, viene dominata dalle logiche egoistiche di alcuni, determinati unicamente a raggiungere il loro proprio bene.
La critica più forte ricevuta da Rawls, è quella di una corrente di pensiero definibile come comunitarista. I comunitaristi, tra cui Sandel, MacIntyre e Taylor, reagiscono alla teoria moderna della politica, che distingue i legami politici da quelli naturali, riprendendo il pensiero premoderno, nel quale la politica è in stretta connessione con la natura stessa delle persone. Se per Rawls, l’io precede la comunità, qui è totalmente l’opposto. Sono due, infatti, i pilastri del modello comunitario: la concezione di identità culturale e la condivisione dell’ideale di vita buona. L’identità è concepita come effetto delle interazioni sociali all’interno della comunità e come conseguenza di elementi ascrittivi (quali etnia, genere, famiglia, ecc…), del tutto ignorati dai pensatori liberali. Per questo, Taylor accusa Rawls di avere una concezione distorta dell’io, considerando le persone come atomi sparsi nel mondo, non riconoscendo in loro, alcun valore tradizionale ed identitario. Conseguenzialmente, per i comunitaristi la sfera politica è determinata dalla dialettica tra l’identità personale e l’appartenenza culturale, sintetizzata nella concezione della “comunità etica”, ovvero lo spazio di condivisione di valori culturali, tradizionali, storici e morali. L’identità culturale è la caratteristica centrale della comunità. Lo Stato, visto solamente come una sovrastruttura, si tiene in piedi proprio grazie a questo fondamento comunitario identitario. In antitesi al liberalismo e alla concezione dei tanti beni possibili, è un’idea organicistica, finalizzata al raggiungimento del “Bene” comune.
Nel secolo della globalizzazione, la prospettiva liberale, definibile come universalistica, in quanto vuole concepire l’umanità come potenzialmente identica, è sicuramente dominante rispetto a quella comunitaria, la quale, al contrario, è fortemente particolaristica, non riconoscendo principi validi per tutte le comunità. Comunemente si associa la visione liberale, alla possibilità di salvaguardare le diverse visioni del mondo. Il presente, però, ci sta insegnando, come questo non sia affatto vero. Proprio a causa del loro carattere contraddittorio, allo stesso tempo individualistico, nel senso di indipendenza e superiorità del singolo rispetto alla comunità, e globale, ovvero adattabile a qualsiasi tipo di contesto, i regimi liberal-democratici stanno distruggendo la differenza nel mondo. In questo sistema, dove gli individui, svuotati della propria identità, sono delle particelle vaganti, la comunità perde costantemente la sua connotazione armoniosa. Il predominio delle singole parti annienta l’organicità del Tutto, i valori tradizionali vengono sostituiti da norme comportamentali e la stessa “tradizione” cancellata dalla modernità. Il termine “tradizionale” è stato demonizzato, facendolo passare come un qualcosa di per forza statico e reazionario. Raramente, viene sottolineata la “dinamicità” della trasmissione da padre in figlio, la quale sicuramente stabilisce la diversità tra i popoli, a volte può significare adattamento, ma sicuramente mai stravolgimento, tipico invece delle società moderna. Così, l’uomo moderno avanza progressivamente verso la creazione di una realtà vuota, dove tutti sono liberi di essere niente. Citando Antoin De Benoist: “all’ideologia dell’Identico bisogna infine contrapporre il principio di diversità. Un principio trae forza dalla sua stessa evidenza. La diversità del mondo costituisce la sua unica e vera ricchezza, essendo essa artefice del bene più prezioso: l’identità. I popoli, così come le persone, non si equivalgono. Dire che nessuno vale più degli altri non significa dire che tutti sono uguali – l’Identico in vesti diverse –, ma che sono tutti diversi. La tolleranza, se questa parola ha ancora un senso, non consiste nel guardare l’Altro per vedere in lui l’Identico, ma nel capire ciò che lo costituisce in quanto altro, ovvero nel cogliere l’alterità, realtà irriducibile ad ogni “comprensione” che si basi su una semplice proiezione di sé. L’imperativo che deriva da questo principio è semplice: bisogna fare di tutto per non trasmettere ai nostri figli un mondo meno differenziato, quindi meno ricco, di quello che abbiamo ereditato.”