Il fatto che il governo Renzi, appena insediatosi, abbia posto sin da subito l’attenzione sui rapporti tra il Paese e l’Unione Europea (nell’incontro con il cancelliere tedesco Merkel) e sul mercato del lavoro non è privo di spiegazione. Il modello adottato in Italia per rilanciare l’economia, infatti, dopo le stagioni dell’austerità di Monti e Letta, potrebbe somigliare sempre di più a quello che negli ultimi anni ha permesso alla Germania di non cedere alla recessione, mantenendo un livello di crescita nazionale di un certo spessore.
Lo stesso Renzi, infatti, che sempre più si dimostra agente e fiduciario del grande capitalismo italiano (che in questi anni è rimasto in ombra ma che, proprio attraverso il nuovo Presidente del Consiglio, punta al riscatto), sembra sempre più intenzionato a non subire con eccessiva sottomissione le scelte degli organismi finanziari sovrannazionali che fino ad oggi, da alcuni anni a questa parte, hanno deciso le sorti politiche ed economiche dell’Italia.
Il piano messo in campo dalle classi dominanti europee è chiaro: dopo anni di semplice ed estrema severità finanziaria, è necessario cambiare strada, anche in virtù delle sempre maggiori tensioni sociali che caratterizzano la maggior parte dei Paesi del continente. Si punta, perciò, non più alla continuazione delle politiche di austerità, ma ad incentivare processi di flessibilità e precarizzazione del mercato del lavoro. Praticamente, questa formula sta trovando attuazione in Italia nel Jobs Act proposto dal governo; un tentativo di destabilizzare ancora maggiormente la posizione della maggior parte dei lavoratori salariati, e di favorire le realtà più interessate del mondo capitalistico italiano (non a caso Confindustria, che tanto si era lamentata nei confronti di Letta proprio per le sue misure eccessivamente tecnocratiche, ha appoggiato la proposta di Renzi in maniera decisa).
Il Jobs Act, alla cui realizzazione ha partecipato il ministro del lavoro Poletti (ex PCI, figura legata a Coop, gigante della distribuzione che non disdegna forme di precarizzazione e di svalutazione salariale), presenta caratteristiche ben definite: aumento del periodo di prova e di apprendistato senza obblighi da parte del datore di lavoro, spezzettamento del contratto di lavoro in sezioni temporalmente meno rilevanti e perciò meno vincolanti, rimozione dell’obbligo di processi di formazione nel periodo di tirocinio. Un decreto legge che apporta al mercato del lavoro italiano un’ulteriore incentivo alla flessibilità delle prestazioni lavorative, introducendo forme contrattuali minime, cronologicamente brevi e senza alcuna garanzia di stabilizzazione, con conseguenze particolarmente negative sulla forza-lavoro giovanile e su quella femminile; un indebolimento della posizione contrattuale dei lavoratori con l’esito prevedibile di una diminuzione dei salari (formula che, in Germania, è stata tra le cause fondamentali dell’aumento del divario di ricchezza tra classi dominanti e classi subordinate). Viste le premesse, quindi, era lecito aspettarsi che il decreto legge sarebbe stato fin da subito criticato. Sembra infatti impossibile che una riforma di questo calibro possa rappresentare un miglioramento sociale nella struttura economica e produttiva italiana, in cui un ruolo sempre più determinante, in questo momento storico, è assunto dal fenomeno della disoccupazione. La cifra massima a cui si è giunti è stata quella di 3,3 milioni di cittadini senza lavoro (il 12,9% nel contesto nazionale); ancora più drastico è il dato della disoccupazione giovanile, che si attesta al 42,4%. Cifre che avvicinano il Paese molto più alla realtà spagnola e greca (rispettivamente al 25,8% e 27%) che non a quella tedesca, la quale, proprio in virtù delle misure di precarizzazione lavorativa messe in atto (che certamente possono portare ad un’espansione della richiesta di forza-lavoro), si attesta al 5,3%. Il Mezzogiorno italiano mostra però statistiche al di sotto della media nazionale: ai processi di desertificazione industriale e di centralizzazione capitalista (in atto nel settore agricolo), alla ripresa dell’emigrazione, alla mancata crescita del livello dei consumi, si aggiunge un dato di disoccupazione reale che supera il 28%, con gli effetti sociali devastanti (primo fra tutti, il reclutamento effettuato nella massa disoccupata dalle associazioni mafiose) che una realtà tanto drammatica comporta. Se si pensa, quindi, che nel 1977 il tasso di disoccupazione in Italia era appena al 6,4%, è facile capire quanto abbiano influito nel settore del mercato del lavoro e dell’occupazione i processi di impostazione neo liberista che dall’inizio degli anni Ottanta caratterizzano il blocco occidentale capitalistico. I processi di precarizzazione che contraddistinguono l’economia capitalistica attuale svolgono un ruolo fondamentale nel processo di rafforzamento delle classi dominanti: alti tassi di disoccupazione sono necessari a tenere bassi i salari ed a rimpinguare le fila dell’esercito industriale di riserva che fornisce forza-lavoro a prezzo di svendita.