Con l’intervista del Presidente del Senato Grasso (Corriere della Sera 30 marzo 2014) ed il successivo battibecco fra lui e Renzi è esploso uno scontro di grande portata politica, nel quale si stanno inserendo anche altri soggetti istituzionali. Con l’inarrivabile rozzezza dei renziani, la Serracchiani è arrivata a richiamare il Presidente del Senato (seconda carica istituzionale del paese) alla disciplina di partito: non era mai accaduto prima. Ma, in realtà, Grasso ha solo reso manifesto un conflitto che covava copertamente e che riguarda due diverse concezioni della democrazia, entrambe autoritarie e liberticide, ma fra loro opposte: la variante iper-populista e plebiscitaria e quella elitaria e monarchica.
La proposta fatta da Renzi e Berlusconi di fatto abroga il Senato, togliendogli quasi tutte le competenze, ma, soprattutto, disegnando una composizione non elettiva e di persone (sindaci e Presidenti di Regione) legate al loro ruolo sul territorio e, pertanto, di fatto impossibilitate a partecipare ai lavori di un organismo a centinaia di chilometri dalla propria sede. E, infatti, si prevede una riunione mensile puramente simbolica.
La concezione plebiscitaria della democrazia, comune a Renzi e Berlusconi, vede al centro l’esecutivo presieduto da un capo onnipotente e carismatico (l’”Unto del Signore”), limitato dal minor numero possibile di “impacci” (a cominciare dalla Costituzione) e nettamente prevalente sul legislativo, ridotto a puro simulacro. In questo quadro il Senato presenta un ostacolo, perché può dar luogo all’esistenza di maggioranze differenziate fra le due Camere (e, infatti, nessuna democrazia parlamentare in cui viga il sistema maggioritario è bicamerale).
Dunque, perché non abrogarlo tout court? Sia per considerazioni tattiche (dare un contentino formale alla Lega, indorare la pillola da far ingoiare al ceto politico), sia, soprattutto, per evitare di abrogare o riscrivere decine di articoli della Costituzione, quello che avrebbe ostacolato il bliz che i due avevano immaginato con scarso realismo, non tenendo conto delle inevitabili resistenze dei senatori.
La seconda posizione, quella elitario-monarchica, ha preso le mosse da una proposta di Mario Monti, Renato Balduzzi e Linda Lanzillotta che prevede un Senato dotato di forti poteri di controllo e di interferenza sulle attività di governo composto da
«200 membri eletti dai consiglieri regionali, dai membri delle giunte regionali e da un certo numero di sindaci e scelti non solo tra le classi politiche locali ma anche tra i rappresentanti della società civile, dei ceti economici più dinamici, dell’università, delle professioni».
Attenzione: qui gli enti locali designano i senatori, ma non mandano i propri vertici, bensì persone scelte dalla “società civile” (università, professioni, ceti economici…”) in grado, quindi, di partecipare effettivamente alla vita dell’organismo. Dunque, un Senato vero e dotato di poteri ancora non ben definiti, ma che possa mettere becco nelle scelte del governo.
Il passo successivo è stato un appello del “Sole 24 ore” che ha iniziato a parlare di una “Alta camera della cultura e delle competenze”. Appello intorno al quale sono andati raggruppandosi intellettuali come la senatrice a vita Elena Cattaneo, Chiara Carrozza, Luciano Canfora (e questo mi duole), ma, soprattutto, Eugenio Scalfari (Sole 24 ore 30 marzo 2014) e la proposta, man mano è diventata quella di una Camera composta da grandi personalità della cultura, indicate in una rosa dall’Accademia dei Lincei (il museo egizio!) e dalle Università e poi nominate dal Presidente della Repubblica. Col che, salvo per la nomina a tempo e non a vita, è esattamente quello che era il Senato di nomina Regia.
Una proposta che pensiamo piaccia molto all’attuale capo dello Stato, che è uno che la monarchia ce l’ha nel sangue. Ovviamente, non è affatto negativo il coinvolgimento di autorevoli personalità della cultura nelle attività parlamentari, ma questo è auspicabile attraverso un mandato popolare, non con una nomina dall’alto. D’altro canto, in caso di bicameralismo, per quanto imperfetto, è per lo meno bizzarro comporre una Camera delle competenze da contrapporre all’altra che, implicitamente, diverrebbe “degli incompetenti”.
A ben vedere si tratta del modello della “democrazia a trazione elitaria” teorizzata da Monti e che ha trovato espressione tanto nel “governo dei tecnici” (esplicitamente citato da Monti nel suo articolo sul Corriere della Sera il 30 marzo 2014) quanto nelle due commissioni di saggi che dovevano riformare la Costituzione. Dunque, la Camera bassa (che il sistema elettorale in discussione assicurerebbe che sia davvero molto bassa) elettiva e quella Alta di nomina presidenziale. E questo porta ad un altro punto della questione: la torsione presidenzialista prodottasi in questi anni. Inizialmente, l’iper attivismo di Napolitano fu il risultato dell’impresentabilità internazionale di Berlusconi e della concomitante crisi del debito sovrano. Ma con la nomina di Monti, il Presidente è andato sempre più assumendo funzioni di indirizzo politico e, più che di garante della Costituzione, di garante delle obbligazioni Ue del paese ed in particolare del debito. Comprensibilmente, le polemiche di Renzi con la Ue in materia di vincoli di bilancio non devono aver molto allarmato il Colle che, alla vigilia del semestre europeo dell’Italia, si sente una volta di più chiamato a garantire per il futuro. Tuttavia, Napolitano, per ragioni che non stiamo qui a ripetere, si appresta a lasciare il Quirinale. Di qui la tentazione di trasformare il sistema costituzionale introducendo definitivamente le modifiche di assetto dei poteri che, sin qui si erano prodotte di fatto.
Per cui, attraverso la nomina di un Senato con penetranti poteri di controllo e di indirizzo sull’attività di governo, il Presidente acquista definitivamente il ruolo di super-Presidente del Consiglio (vagamente ispirato al modello francese) in alleanza con il ceto tecnocratico. Così da contrappesare efficacemente un governo ancora troppo condizionato dalle “spinte populiste” che vengono dal voto popolare.
Grasso, nella sua infelice intervista al Corriere, ha cercato una mediazione che tenesse conto degli umori degli attuali senatori che vorrebbero qualche chances di tornare a sedersi a palazzo Madama, ed ha proposto un Senato un po’ composto sul modello delle autonomie territoriali, un po’ elettivo, con poteri reali ma limitati. La scomposta reazione di Renzi, che arriva a proporre una revisione costituzionale per voto di fiducia (cosa che neppure nel più sconnesso regime sudamericano degli anni trenta si sarebbero sognati di fare), ha tolto il coperchio alla pentola.
Di fatto siamo di fronte a due diversi tentativi di liquidare la democrazia repubblicana voluta dalla Costituzione. Non ci resta che sperare in Razzi, Scilipoti ed amici che mandino tutto gambe all’aria.