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Jacques Le Goff: un ricordo

di Franco Cardini - 08/04/2014

 

Vorrei ricordarlo così: con gli occhi di Giovanna. Era la primavera inoltrata del 1979: doveva essere giugno, là nella vecchia sede dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales, vicino ai Jardins du Luxembourg e alla sede del Senato. Gli alberi del cortile nel quale usavamo talvolta far lezione quando il tempo era bello erano già ricchi di fogliame. Avevo portato con me appunto Giovanna, la mia prima figlia: aveva dodici anni ed era venuta a passare qualche giorno con me a Parigi. Credo che lei si ricorderà per tutta la vita di quel signore alto e imponente, seduto familiarmente a un tavolo di giardino: com’era tradizione, l’ultimo incontro studentesco dell’anno coincideva con un piccolo rinfresco rustico. Il signore alto aveva davanti a sé, sul tavolino, un mucchietto di belle ciliege rosse da una parte (oh, le temps des cerises…) e una ben ordinata pila di fette rotonde di salame dall’altra: e attingeva alternativamente dall’uno e dall’altra. Se salame e ciliege vi paiono un’accoppiata scandalosa, provate per credere.

In quel ’79 avevo ottenuto un insegnamento di storia medievale all’Università di Parigi VIII – Vincennes, l’Ateneo di Foucault e della contestazione, scambiando il mio posto fiorentino con una carissima e compianta amica, Odile Redon: e approfittavo dell’occasione per frequentare il corso di Jacques Le Goff all’ École. Non fu soltanto una bella stagione. Avevo sulle spalle ottime esperienze: a Firenze con Sestan, e quindi Poitiers, Mosca, Gerusalemme, Gottinga, New York. Ma fu là, a Parigi, con lui, che finalmente mi parve di aver afferrato saldamente quel “medioevo” che inseguivo fin da ragazzo e che sempre mi era sfuggito.

Jacques Le Goff: ovvero la gioia. Gioia di vivere, d’insegnare, d’imparare, di parlar delle cose che lo appassionavano, di mangiare di bere e di fumare quel che gli piaceva, di capire che cosa gli altri si aspettassero da lui prima di porsi il problema di quanto sarebbe stato il tempo che a lui sarebbe costato il dedicarsi agli altri. Se e quando gli sembrava di star facendo un buon lavoro, di aver trovato un buon allievo, di poter costruire qualcosa di valido e di nuovo, era felice come un ragazzino. Ricordo ancora nitidamente come fosse ora l’allegria di una sua telefonata da Parigi, a un’ora impossibile – doveva essere notte tarda o, come dicono i francesi, au pétit matin – quando mi annunziò a nome di una prestigiosa “cordata” di editori di dieci paesi diversi che si era pensato a me per scrivere un libro sui rapporti fra Europa e Islam da inserire nella nuova collana Faire l’Europe ch’era destinata (com’è accaduto) a fare il giro del mondo. “Non so, non sono all’altezza, non faccio l’islamologo…”, azzardai; “Tu sei il solo che può scrivere un libro così, come lo voglio io!”, mi replicò. Non era vero e lui lo sapeva benissimo: eppure al momento riuscì a convincermi e le sue parole, in seguito, mi furono di sprone costante per battere la mia mediocrità.

Era un innamorato dell’Europa: soprattutto dell’Italia e della Polonia. A quest’ultimo paese era legato in quanto il suo destino di medievista lo aveva condotto molto giovane nei paesi di quella che allora si chiamava l’Oltrecortina, prima a Praga, quindi a Varsavia. Socialista convinto, e di osservanza anticomunista, non era un osservatore “neutrale”, anzi: seppe tuttavia apprezzare (e sarebbe obiettivamente stato difficile non farlo) la serietà dei paesi socialisti nel campo accademico, la dedizione allo studio che professori e scolari manifestavano, l’austera intensità della vita universitaria ceca prima e polacca poi. A Varsavia, studente nel ’59 per un breve periodo – aveva allora trentacinque anni – conobbe davvero l’aristocrazia, la crema, il top degli storici del tempo, da Gieysztor a Manteuffel a Geremek a Pomian: e da allora una certa vena “mitteleuropea” non abbandonò mai né i suoi studi, né la sua personalità, né il suo stile. Ma soprattutto a Varsavia nel 1961 conobbe il suo grande e credo unico amore, Anna – Hanka, secondo il vezzeggiativo polacco -, una ragazza esile dieci anni più giovane di lui, laureata in medicina, che avrebbe sposato e che sarebbe stata la compagna della sua vita fino al 2004, quando nel dicembre essa venne a mancare. Una volta Le Goff, durante un freddo ma confortevole dopocena parigino, mi aveva parlato di un suo cruccio: lui così robusto e pesante, lui che beveva e fumava, se ne sarebbe andato senza dubbio molto prima di lei, sottile e morigeratissima, dieci anni più giovane di lui. Che pena doverla lasciare sola, mi ripeté due o tre volte. Quando andavo a trovarlo più tardi, nella sua casa vicina al bacino della Villette, dopo quel 2004, tornava invece spesso sul tema della sua inattesa solitudine, della prova che mai si sarebbe aspettato di dover sopportare dalla vita. Quello è stato davvero il tormento dei suoi ultimi anni, senza dubbio superiore al fatto che ormai gli era impossibile muoversi di casa (dove peraltro era sostanzialmente autosufficiente e dove, con la moderazione dettata dall’età, continuava a concedersi ogni sera una fumata di pipa e un bicchierino di cognac o di calvados).

Alla memoria della moglie Le Goff ha dedicato un libro che, con il titolo Con Hanka, è stato edito anche in italiano dalla Laterza: non è famoso come gli altri, dalle belle biografie dedicate a Francesco d’Assisi o a Luigi IX al fondamentale, discusso ma indispensabile L’invenzione del Purgatorio fino agli studi illuminanti sull’iconografia, sull’immaginario, su Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale. E’ tuttavia un libro prezioso in quanto magistralmente intreccia la storia intellettuale di un grande studioso al suo vissuto quotidiano e al suo universo affettivo: un modello straordinario, forse, proprio di quella “storia totale” cui la scuola di Fernand Braudel, della quale egli è stato un rappresentante fra i più illustri, tendeva.

Ma vorrei indugiare un istante su quel miracolo ch’è Con Hanka: la chiave più autentica, forse, per entrare nel suo mondo.

“…Non avevo voglia, colpito com’ero, di prendere un autobus notturno per tornare in albergo… Feci a piedi, con la testa e il cuore che mi giravano, il percorso abbastanza lungo…”.

Capita che un Dio pietoso, o il destino ironico e clemente, abbiano fatto provare a molti di noi momenti come questo. Non succede solo nelle fiabe o nelle fantasie degli adolescenti o nei fims d’una volta. Chi ha provato un momento così non lo dimentica mai: e se lo porta sempre dentro, nascosto e gelosamente custodito, come il più prezioso dei tesori. Chi non l’ha mai trovato, è da compiangere: ma per fortuna, appunto perché ne è stato privato non saprà mai fino a che punto la sua vita sia stata vuota e inutile.

Coup de foudre. Proprio così. E’ così che Jacques Le Goff lo chiama: e non potrebbe chiamarlo altrimenti. Metti una sera a cena, magari una cena modesta e quasi insignificante, in una città bellissima eppure triste. Che so, la Varsavia di fine autunno del 1961, immersa nel gelo polacco e nelle austere strettezze del socialismo reale. E una finestra che ti s’apre violenta nel cuore, e una folata di vento fresco che vi penetra dentro e spazza tutto. La felicità, la paura che tutto finisca in un soffio, la sensazione profonda e inconfessabile che invece no, che gli dèi ti hanno davvero sfiorato, che sarà per sempre. Lei. L’amore.

Così comincia la storia di Jacques, trentasettenne medievista spedito in Polonia dal suo Maestro Fernand Braudel; e di Hanka, dieci anni meno di lui. Una storia durata quarantadue anni e che durerà ancora, per tutta la durata dell’esistenza di Jacques Le Goff e per sempre.

Lui medievista che a Varsavia aveva trovato la sua seconda patria (la terza sarebbe stata l’Italia); lei, Hanka Dunin-Waşowicz, una ragazza, un giovane medico. E’ capitato a tanti francesi, almeno dal Cinque-Seicento in poi, l’innamorarsi in Polonia o di una polacca. Il francese più famoso della storia, italiano d’origine, aveva trovato anche lui in Polonia, guarda caso, il grande amore. Destini incrociati: e non insisterò su questo perché Jacques non ha mai amato granché quel piccolo artigliere diventato imperatore. Eppure, quando queste cose succedono proprio a uno storico (e coincidenza vuole che Hanka discendesse da un attendente polacco di Napoleone), la domanda s’impone: quanto ha pesato il lungo feeling tra Francia e Polonia sulla storia d’amore, di matrimonio e di lunga vita comune di Jacques e di colei che tutti chiamavamo e chiameremo per sempre col suo nome al vezzeggiativo, Hanka, “Annetta”, “Annina”?

Dico “chiamavamo”: ed è un’inesattezza, almeno per quanto mi riguarda. Non ho mai avuto con casa Le Goff un’intimità e una frequentazione tali da permettermi di chiamare per nome colei che, per me e per tanti comuni amici e colleghi, era sempre e soltanto “Madame”. Eppure la profondità, l’intensità e la tenerezza di quel rapporto tra due sposi che io ho conosciuto entrambi già maturi, a Parigi, alla fine degli Anni Settanta, si coglieva e s’indovinava anche nella sobrietà e nel riserbo dei loro gesti e delle loro parole. Poi, negli anni successivi, qualche cenno, una frase buttata là, un ricordo svagato, rivelavano spesso la profondità e la costanza d’un rapporto reciproco. Non ho mai invidiato la superiorità di Jacques Le Goff nel campo degli studi. L’invidia non è nelle mie corde. Ma gli ho spesso invidiato l’umanità, la capacità quasi infinita di esser generoso con tutti e di amare la vita. E forse gli ho invidiato quell’amore così totale e così totalmente reciproco. Davvero più forte di qualunque altra cosa. Anche della morte. Jacques lo ha sempre saputo.

Ma attenzione: Con Hanka non è una “storia d’amore”; e tanto meno una histoire d’une âme. Leggere questo libro in tale prospettiva equivarrebbe non solo a fraintenderlo, ma soprattutto a tradirlo: oserei dire a profanarlo. Al di là del calore e della commozione che filtra da ogni pagina e da ogni parola, questo è un libro sobrio, asciutto: a tratti – come avrebbe detto Eugenio Montale – “scabro ed essenziale”. La storia di un grande amore e di una lunga vita matrimoniale è la filigrana del racconto di una vita di studioso interamente vissuta a Parigi, sia pur tra frequenti e spesso lunghi viaggi, e animata dalla presenza continua di un fil rouge polacco e anche italiano che lo rende quel che veramente è: il récit delle vicende e dei sentimenti di un grande studioso ch’è anche un grande europeo e un europeista convinto. La stessa storia di Hanka prima del loro incontro, le vicende di questa ragazza d’origine piccolo-nobiliare (la szlachta, la “cavalleria”) nata ai tempi della dittatura militare e che aveva attraversato la guerra, l’occupazione e quindi il regime comunista, è rigorosamente trattata come materia di “grande” storia, alla ricerca del senso profondo delle cose e degli avvenimenti. Un altro argomento fondamentale di questo libro sono i molti viaggi insieme, dall’Europa all’Asia all’America: anche lì, cronache sobrie, pochi ricordi selezionati, la ricerca costante del significato di scelte e di avvenimenti.

Avvincono e meravigliano, poi, i coprotagonisti. Tanti. Attraverso la loro presenza è tutta la storia dell’Europa del Novecento (e la storia della sua storiografia, della sua intellighentzija migliore) che ti viene incontro, ti coinvolge, quasi ti trascina. Per chi poi, come me, è stato piccolissima e marginale parte di certi eventi e ha a sua volta conosciuto certi personaggi, l’esperienza della lettura di queste pagine diviene a sua volta una parte della vita. Apri il libro e ti viene subito incontro Fernand Braudel, tale e quale com’era lui: diretto, cordiale, poche parole, subito al centro di qualunque argomento ti proponesse. E Tadeusz Manteuffel, e Alain Touraine, e Pierre Nora, e il mio caro indimenticabile amico Bronislaw Geremek, e Aleksander Gieysztor con la sua celebre, rumorosa, festosa risata da boiaro lituano… Personaggi straordinari, che non si dimentica mai d’inquadrare nel loro esatto valore scientifico e intellettuale ma che ci si presentano così, nella luce calda della loro vita quotidiana, dei loro affetti, del loro métier d’historiens ch’era anche il loro modo più bello di vivere e d’amare la vita.

“Come continuare a vivere senza Hanka?”. E’ la domanda sulla quale il libro si chiude. Angosciosa; eppure forse, al tempo stesso, liberatoria. Così, Jacques. Ricordandola. E scrivendone. Con la certezza che non ti lascerà mai. E la memoria della compagna perduta non avrebbe mai abbandonato Jacques le Goff, nei dieci anni successivi alla scomparsa e prima che lui la raggiungesse. Fu il suo grande dolore e al tempo stesso forse, misteriosamente, la grande consolazione d’una solitudine che tuttavia i libri, gli studi, gli amici, la consapevolezza del successo raggiunto e dell’ammirazione di tante persone che lo seguivano, non sarebbero mai bastati a colmare.

Ma ora che se n’è andato, a parte il vuoto che lascia, una domanda forse s’impone anche se occorrerà ancora qualche anno per rispondere in maniera adeguata. Che cosa ci lascia, quanto alla sua visione del medioevo? Per dirla alla maniera dei vecchi accademici: che cosa resterà vivo e che cosa morrà della sua opera? Credo che non sarà facile aggirare la sua idea di “lungo medioevo”, che è molto più rivoluzionaria di quanto qualcuno non abbia creduto. Non si tratta di modificare una periodizzazione tradizionale. Il punto è ch’egli ha dimostrato che molto di quel che noi abbiamo ritenuto frutto della “rivoluzione rinascimentale” – dalle cognizioni cartografiche a quelle astronomiche, dalle esplorazioni oceaniche alle sperimentazioni meccaniche – era già stato anticipato per molti versi fra IX e XIII secolo, soprattutto in quel momento straordinario della nostra storia culturale e scientifica che va dalla metà del XII a quella del XIII secolo. E che le sue ricerche, che spesso si sono appoggiate anche alle scienze umane – soprattutto all’antropologia culturale -, senza dimenticare la stessa psicanalisi (una scienza fiondata sull’interpretazione dei sogni è quanto mai adatta a spiegare il medioevo) – sono approdate a mostrarci quanto l’”Altrove” medievale ci sia in realtà vicino, si nasconda ancora dentro di noi.

La sua concezione del medioevo, in rapporto soprattutto a quel che per noi italiani è il Rinascimento e soprattutto al problema della periodizzazione della storia, è un altro punto delle idee legoffiane su cui vale la pena spendere qualche parola in più. Nel suo ultimo successo editoriale, Faut-il vraiment découper l’histoire en tranche? (Paris, Seuil, 2014), Le Goff torna a ripresentarci una sua tesi forte che non è ancora stata recepita come dovrebbe, soprattutto da noi: quella di un ”lungo medioevo” teso tra XII-XIII e XVIII secolo e segnato, nel mutamento continuo, da una sostanziale continuità.

Lo strumento dialettico di cui egli si serve è il “disincanto” weberiano. Che cosa sono difatti l’”Antichità”, il “Medioevo”, il “Rinascimento”, se non concetti convenzionali che c’illudono di controllare quel vivo flusso di eventi, di istituzioni, di strutture ch’è la storia?

Facciamo qualche esempio. Alla parola “Antichità” fu solo Montaigne, nel 1580, ad attribuire il senso che gli diamo noi: prima di lui, non si era fatto che polemizzare su ciò che fosse meglio, se quel ch’era “antico” o quel ch’era “moderno”; e si continuò anche dopo. Il “medioevo”, poi, se lo inventarono alcuni intellettuali tre-quattrocenteschi a cominciare dal Petrarca, convinti che dopo la grande e perfetta stagione grecoromana culminata con l’era augustea il mondo fosse precipitato in una “età di mezzo” fatta di barbarie e di superstizione dalla quale si era emersi solo ai loro giorni. Tre-quattro secoli dopo, alcuni illuministi ripresero e aggravarono la mistificazione umanistica: ed ecco il “buio medioevo” di Voltaire e dell’Encyclopédie.

Ma, dopo la rivalutazione di quello stesso periodo in età romantica, furono gli intellettuali dell’Ottocento come Michelet e Burckhardt a riproporci un’Europa liberata dalle tenebre inventando il nome stesso di un’età felice tra Quattro e Cinquecento nella quale la bellezza, l’armonia e la ragione antiche sarebbero prodigiosamente rinate: appunto la Renaissance, il “Rinascimento”. Quel concetto attecchì soprattutto in Italia sia perché essa ne era indicata come la culla, sia perché gli italiani, che non avevano conosciuto alcun Grand Siècle, alcun Siglo de Oro, dopo il Cinquecento scorgevano solo il trionfo dell’ignoranza, della repressione inquisitoriale, del barocco crocianamente inteso come “brutto”, dell’oppressione straniera. Per questo sono soprattutto gli italiani a doversi liberare dal pregiudizio di un Rinascimento come breve e intensa stagione dei miracoli.

Ed ecco l’implacabile rullo compressore del disincanto legoffiano. Il Rinascimento sarebbe stato l’età della scoperta dell’individualismo, della liberazione della vita dalle pastoie dell’ipoteca religiosa, del razionalismo, dell’individuazione del bello nelle arti e nella musica, del razionalismo filosofico, dell’ampliamento del mondo con le scoperte geografiche e del perfezionamento delle risorse umane con le invenzioni? Vediamo. Nessun dubbio sul prodigioso rinnovamento soprattutto artistico e intellettuale verificatosi in Italia e soprattutto in città come Firenze (ma non solo) durante il Quattrocento. Il fatto è che esso era stato già anticipato e preceduto da una lunga serie di fasi innovative (a loro volta definibili come “Rinascimenti”) in età carolingia, poi ottoniana, quindi e soprattutto fra XII e XIII secolo: la grande età del ritorno in Occidente della filosofia greca attraverso le traduzioni dall’arabo, insieme con la matematica, la medicina, l’astronomia-astrologia; della riscoperta della natura con la scuola di Chartres e l’arte gotica; dell’affermarsi di un robusto senso estetico, come ha dimostrato Umberto Eco; il momento nel quale si cominciarono anche ad affinare quegli strumenti creditizi che avrebbero preparato l’avvento dell’economia capitalistica; e in cui invenzioni come la bussola, la velatura mobile e il timone assiale, insieme con gli sviluppi cartografici, gli avvii dell’uso delle armi da fuoco e le prime esplorazioni oceaniche, aprirono la strada alla grande stagione di Colombo e di Vasco de Gama, mentre in politica dalle monarchie ancora “feudali” si sviluppavano, a cominciare dalla Francia del Due-Trecento, i precedenti dello stato assoluto.

Quella dinamica, avviata prima del “Rinascimento”, si concluse solo molto più tardi. Individualismo e secolarizzazione dovettero combattere a lungo, in pieno Cinquecento, con un duro ritorno dell’autoritarismo religioso in area tanto cattolica quanto protestante: e solo fra Sei e Settecento si affermarono sperimentalismo, sensismo e perfino libertinismo. Allo stesso modo, è vero che le scoperte geografiche cambiarono il volto dell’Europa: ma per questo ci vollero almeno due secoli di lenta penetrazione delle novità. Ne sono simboli le nuove culture come il pomodoro e la patata, importate ai primi del Cinquecento, che solo dal secolo successivo intervennero a mutare costumi alimentari e convinzioni dietetiche: nello stesso periodo nel quale si avviava il declino dei generi di vita tradizionali, con i loro ritmi e i loro costumi. E il tutto avvenne non senza fasi di ristagno e d’inversione di tendenza. La grande tradizione magica sapienziale, che avrebbe condotto a Bruno e a Campanella, è frutto del medioevo: mentre il “luminoso” Rinascimento fu tale anche perché di continuo rischiarato dai roghi degli eretici e delle streghe. Sarebbe un escamotage troppo comodo attribuire tutto il male al medioevo e tutto il bene al Rinascimento, appropriandosi come di “anticipazioni della Modernità” tutti gli aspetti del primo che ci sembrano positivi e ricacciando nelle nuove “tenebre del medioevo” tutti i fenomeni regressivi dei quali la Modernità è punteggiata.

La gestazione della Modernità fu lunga e complessa: durò oltre mezzo millennio, dal XII secolo che avviò il processo della “ragione naturale” abelardiana fino alla prima rivoluzione industriale e quindi alle due rivoluzioni politiche del Settecento. Il “lungo medioevo” di Le Goff è, appunto, il tempo di questa dinamica che condusse l’Europa a rendersi padrona del mondo. Tale grande stagione fu tuttavia sigillata da quella che già negli Anni Trenta del secolo scorso Paul Hazard denunziava come la “crisi di coscienza” settecentesca; e di recente sembra giunta alla sua eclisse. Ma il fatto che il medioevo si portasse dentro la modernità non escludeva tuttavia la profonda differenza tra quelle due dimensioni temporali e concettuali. Le Goff non era certo né un reazionario né un antimoderno: quando parlava dell’Europa di oggi – ed era un europeista convinto - non impostava mai la questione in termini di “identità”, di “eredità”, di “radici”; era al domani che guardava. Al tema dell’Europa egli dedicò un libro agile, discorsivo, L’Europa raccontata da Jacques Le Goff che, senza mai venir meno alle caratteristiche di scientificità che non possono non stare alla base di quel che un grande studioso dichiara perfino facendo divulgazione, si presenta sostanzialmente come una convinta, appassionata perorazione europeistica. E quanto ne Il medioevo. Alle origini dell’identità europea egli si pone appunto il problema di quale “identità” il nostro continente possa quindi avere, la sua risposta è tutto sommato molto decisa: il tempo delle cattedrali, delle università, della lingua unica di fede, di diritto e di cultura è quello nel quale affonda le sue radici il nostro senso di unità continentale, al di là delle differenze che senza dubbio esistono e che sono peraltro a loro volta una ricchezza.

Credo che la “politicità”, nel senso migliore del termine, del lavoro scientifico di Le Goff non sia stata finora adeguatamente sottolineata. Ma è bene rendersi conto che essa è costantemente accompagnata dal senso della profondità del permanere delle strutture mentali, culturali e anche sociali del mondo medievale in quello moderno: in altri termini, al di là della passione civica che in lui fu costante e fortissima fin da quando giovanissimo studente visitava, con occhio attento e critico, le “democrazie popolari” ceca e polacca, quel che in lui e per lui era e restava fondamentale era la prospettiva scientifica. Era affascinato dal tema della continuità, ma al tempo stesso ben consapevole che la dinamica storica conosce sempre una continuità tessuta di infinite piccole o grandi rotture. Nel mondo contemporaneo, il medievista Le Goff cercava certo anche i brandelli di un medioevo perduto: ma al tempo stesso trovava le tracce forti e persistenti del vivo permanere delle strutture tanto sociali e civili quanto mentali e culturali di un’età che aveva profondamente segnato le istituzioni, le credenze, gli atteggiamenti mentali, le scelte morali, la fantasia condivisa.

Il fatto è che amava il medioevo. Non si limitava a studiarlo, questo è il punto. « C’est vers le Moyen Âge, enorme et délicat, - fu’il faudrait que mon coeur en panne naviguât… » : aveva sul serio fatto suoi questi due versi celeberrimi di Verlaine, nei quali pur senz’ombra di residuo romantico si riconosceva. Passione e comprensione in lui convergevano, s’incrociavano, si rafforzavano e si arricchivano a vicenda. Come ha magistralmente scritto Umberto Eco su “Repubblica” del 2 aprile: “Nel 1964 il suo La civiltà dell’Occidente medievale ci aveva rivelato un medioevo a tutto tondo, dalla coltivazione dei fagioli ai miracoli dell’architettura, dai modi di vita ai modi di pensiero. Voglio dire che se dovessi indicare a qualcuno il modo migliore per comprendere quella grande epoca ch’è stato il medioevo, non potrei che consigliare ancora questo grande libro, anche se ha ormai cinquant’anni. La Goff ha esplorato il medioevo nei suoi aspetti più trascurati, la vita degli intellettuali e dei mercanti, o il meraviglioso e il quotidiano”.

A condurre Le Goff a interpretare così bene il connotato di fondo della braudeliana Nouvelle Histoire, il rapporto tra storia e antropologia, era l’interesse permeato di passione per come la gente del “suo” medioevo (che, per “lungo” ch’egli lo abbia teorizzato, fin quasi a lambire l’Ottocento e magari in qualche caso ad arrivar oltre, era per lui quello “pieno”, sostanzialmente tra la fine del X e la metà del XIV secolo) concepisse il tempo e la vita, come potesse al tempo stesso vivere in un universo così concretamente e tangibilmente pieno di realtà metafisiche e immateriali - invisibilia, in tutte le possibili accezioni del termine – e al tempo stesso così fortemente, robustamente attaccato alla terra e ai valori più sanguigni e materiali. Lo affascinava, e lo induceva alla sfida di comprendere, quella capacità di vivere contemporaneamente e integralmente – per dirla con le parole del titolo di uno dei suoi libri più noti – il Tempo della Chiesa e il Tempo del Mercante, di credere non solo in Dio e nelle corti divina e diabolica ma anche nell’intermondo meraviglioso delle fate e dei draghi, d’immergersi nell’immaginario mistico e cavalleresco e al tempo stesso di affrontare e vincere le foreste, le paludi, le brughiere e le distese marine, di guadagnare e d’idolatrare la ricchezza, il corpo fisico, perfino il ridere. Alla domanda di come questo equilibrio fosse possibile cercò di rispondere sin dalla fine degli Anni Cinquanta, pubblicando il suo “classico” saggio sugli intellettuali nel medioevo; continuò poi dirigendo in due occasioni altrettante équipes di suoi allievi e/o colleghi prima con L’uomo nel medioevo, quindi con Uomini e donne del medioevo; infine affrontando quello ch’era sempre stato forse il tema secondo lui nodale, il rapporto tra il tempo e la vita, tra Anno Liturgico e Calendario, nel suo studio su Giacomo da Varazze e la Legenda Aurea.

Ecco il suo effettivo sentire storico-antropologico, che mi sembra sia sfuggito a molti. La coscienza profonda, verificata attraverso lunghe e severe ricerche, dell’evidente prossimità e al tempo stesso dell’astrale lontananza tra il medioevo e quella che usiamo definire la “Modernità”. La lontananza e l’inconciliabilità – a dispetto dei tantissimi elementi continuistici delle numerose eccezioni, delle forti contraddizioni - fra un’età integralmente per quanto sotto alcuni aspetti contraddittoriamente (e “barbaramente”) cristiana e una di dubbio, d’incredulità e di disincanto; fra un tempo nel quale la persona non s’intende se non attraverso la comunità nella quale è inserita e uno nel quale si finisce con l’idolatrare individuo e individualismo; fra un’era che vive a proprio agio, come un pesce nell’acqua, tra visibilia e invisibilia e un’altra lacerata dall’opposizione tra un materialismo sempre più volgare e impietoso da una parte, la tentazione continua dell’irrazionalità e dell’irrealtà più sfrenate dall’altra. Per noi moderni e/o “postmoderni” il medioevo, al contatto del quale e per molti versi nel quale (fonti, documenti, monumenti, istituzioni, memorie, credenza, fantasie…) continuiamo a vivere, è presente fino all’ossessione, magari in tante forme di revival; eppure al tempo stesso è un insondabile, incomprensibile Altrove. In questo senso, forse, il saggio-chiave di tutta l’opera legoffiana resta il grande studio su L’invenzione del Purgatorio. Quel ponte gettato tra i vivi e i morti, tra la vetta irraggiungibile della santità e la dannazione evitata per un soffio, fu una “invenzione” che permise di dominare e di controllare l’angoscia dell’esistere di una potenza rispetto alla quale le invenzioni scientifiche e tecnologiche che hanno consentito all’uomo moderno e contemporaneo di governare e di gestire la realtà - vincendo magari il bisogno, appagando la volontà di potenza, ma senza riuscire a salvarlo dall’angoscia di vivere un tempo finito, una corsa irreversibile verso il Nulla – rischiano per certi versi d’impallidire. E’ forse per questo che ci sorprendiamo talvolta a navigare verso il medioevo enorme e delicato. E allora possiamo affidarci a Jacques Le Goff, nato nella marinara solare Tolone da una famiglia di vecchi marinai bretoni. E’ un buon timoniere.

Intendiamoci. Parlando e pensando da cattolico, non intendo minimamente “cattolicizzare” Jacques Le Goff: gli farei torto, gli renderei un cattivo e sleale servizio, dal momento che egli – pur avendo ricevuto un’educazione cattolica, rispettando profondamente il cattolicesimo e amando l’esperienza cristiana – credente non si professava. Tuttavia, è obiettivamente necessario ripercorrere, a meglio comprendere la sua personalità e la sua opera, proprio quel libro che peraltro è uno dei suoi più famosi e più “classici”, e che pure è stato fra i suoi quello che gli ha guadagnato più attacchi dagli ambienti cattolici, L’invenzione del Purgatorio, uno studio che dal titolo può apparire polemico e provocatorio: e che magari lo è. Sia pure: ma proprio lì, studiando la genesi che tra antichità cristiane e medioevo ha condotto all’elaborazione prima dell’idea dello “stato spirituale” delle anime sospese, quindi a quella degli effettivi loca purgatoria, emerge con forza una tesi convinta, commossa, commovente: quella della possibilità di un legame fatto d’amore e di solidarietà che collega i viventi ai defunti, l’idea di un sostegno e di un aiuto reciproco, un filo sottile e fortissimo fatto di preghiere e di speranza. Certo: comunione dei santi, la chiamiamo noialtri credenti. E il “Simbolo di Nicea”, il Credo, c’impegna a credervi. Le Goff non si sente legato a questo impegno. Ma, da storico, guarda all’uomo, alle sue debolezze, ai suoi errori e alla sua aspirazione al cielo. Forse, sul piano della fede, non condivide tutto ciò. Ma lo “sente”: e ce lo fa sentire. Anche lo studio, quando è serio e profondo, diventa preghiera.

Come interprete del medioevo e più in generale come storico, Le Goff è stato una grande presenza nella cultura del XX secolo e ha segnato di sé anche il successivo. Eppure, non ha avuto una “carriera” di quelle tipiche del grande accademico francese. Anzi, vero e proprio accademico non è mai stato. Je ne serai jamais mandarin (“Non sarò mai barone”), disse una volta con una frase divenuta proverbiale. A dispetto della sua straordinaria notorietà (“Il più grande medievista del XX secolo”…: che vuol mai dire “il più grande?”) non ha mai percorso una vera e propria “alta” carriera universitaria nel mondo francese che continua ad amare uniformi ricamate e decorazioni, non ha mai avuto una cattedra né pubblicato una solenne, ponderosa grande thèse. Diciamo la verità: non che disprezzasse tutte queste cose, magari in fondo la mancanza di certi riconoscimenti gli pesava. Solo che non era roba per lui; non erano cose che lo interessassero.

Quel robusto francese dalle spalle larghe uscito dritto dalla scuola braudeliana della Nouvelle Histoire ci stupì, noialtri allora giovani aspiranti a un posticino nell’Università – eravamo un bel gruppetto, a Spoleto nel 1968, per l’annuale “rito” dei convegni primaverili del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo -, con la sua molte smisurata, il suo pantagruelico appetito, il fumo della sue eterna pipa e i grandi occhi vivissimi sempre spalancati. L’anno dopo, Braudel lo avrebbe voluto alla direzione della rivista “Annales”. La sua produzione, allora, era molto contenuta e nulla poteva lasciar prevedere la stupefacente torrenzialità degli anni successivi.

Aveva scritto da circa un decennio un libretto sugli intellettuali e la vita universitaria uscito con un certo ritardo in italiano col titolo Genio del medioevo, che per molti anni fu una lettura obbligatoria che noi imponevamo agli esami. Resisteva ancora, attardata nelle pieghe della semicultura diffusa e nel conformismo scolastico, l’idea di un medioevo “oscuro”: quello povero, ignorante, barbaro e superstizioso di cui aveva parlato il Voltaire. Noialtri, che ad esempio a Firenze avevamo studiato con Sestan allievo di Salvemini e di Volpe e con Garin allievo di Gentile non condividevamo certo quel genere di pregiudizi: eppure, la franchezza con cui Le Goff ci mise davanti a un medioevo certo ricco di ombre eppure luminoso, razionale, felice, libero, stupì e quasi scandalizzò perfino noi.

Imparammo più tardi a seguirlo nella sua torrenziale produzione senza lasciarcene più stupire, ma ammirandola sempre di più. Conoscevamo il suo “laicismo” intransigente, che pure non cedeva mai alla volgarità dell’anticlericalismo o dell’intolleranza: tuttavia ci sorpresero la delicatezza e la profondità con le quali riuscì a parlare di Francesco d’Assisi e la dottrina anche teologica con la quale esaminò il tema del rapporto tra santità e regalità nella figura di Luigi IX. Da quell’innamorato della vita che era, apprezzandola gioiosamente anche nei suoi aspetti fisici, riuscì a fornirci un quadro straordinario del ridere e dell’umorismo medievale come a parlarci con spregiudicato realismo del rapporto tra la gente del medioevo e il proprio corpo; ma al tempo stesso seppe mostrare nel bellissimo saggio Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa come la fede cristiana fosse profondamente intrinseca a una società che sapeva parlare di Dio sempre e comunque e dovunque, anche quando trattava di guerra, di usura, di mercatura.

Va infine ricordata la sua grandezza di autentico Maestro, che si manifestava non solo in termini di generosità e di dedizione, ma anche di vera e propria capacità di promozione e di direzione di ricerche ch’egli animava senza mai prevaricare, sempre rispettando il parere e la personalità dei colleghi e degli allievi che con lui collaboravano. Ne uscivano lavori di grande sintesi dietro ciascuno dei quali si avvertiva un lungo, intenso, faticoso lavoro analitico; lavori serenamente espositivi, nei quali pulsava una forte coscienza problematica e critica; lavori “divulgativi” magari, ma dove la divulgazione era sul serio quel che sempre dovrebbe essere, non affrettata orecchiatura o miserabile plagio, bensì un filo rosso teso tra la migliore specialistica e il grande pubblico. Un solo esempio: il più recente, anzi purtroppo l’ultimo che ci abbia regalato. Nel 2013, Laterza ha tradotto un libro a più mani uscito l’anno precedente da Flammarion e da Le Goff ideato, curato e coordinato insieme con alcune tra le migliori firme della medievistica europea: un vero e proprio Gotha della specialistica del settore. Uomini e donne del medioevo è un grosso e bel libro, molto ben illustrato: una specie di galleria enciclopedica di brevi biografie di personaggi del resto quasi tutti famosi. Niente di veramente nuovo, niente di originale a tutti i costi. Al contrario. Basta leggerlo: semplice, lineare, piacevole. E grande storia.