Seguo con crescente perplessità le peripezie verbali del premier Matteo Renzi. Non che ne disconosca le capacità: Renzi è bravissimo nel comunicare. Veloce di mente, prontissimo nelle battute, accattivante nell’eloquio, furbo e ammaliatore. Come presentatore televisivo sarebbe perfetto. Anche come politico, nella nostra epoca; a condizione che oltre alle doti comunicative ci sia sostanza politica ovvero, se non qualità da statista, perlomeno capacità di analisi e un minimo di visione progettuale. E invece il pur bravo Matteo continua a mostrare soprattutto doti da giocoliere o da acrobata. Una piroetta qui, un artifizio là, tantissima presenza scenica e mediatica condita da luoghi comuni e proverbi ovvero quella “saggezza” popolare che, se gestita male, può costare tantissimo (chiedere a Bersani per informazioni)
Intanto i problemi fondamnetali non vengono affrontati. La riforma del lavoro è un’aspirina, non risolverà nulla. L’Italia è stata messa dall’Unione europea in una tagliola: non è libera. E, come ha spiegato Claudio Borghi Aquilini in questo articolo grazie all’European redemption Fund rischia di veder sequestrati tutti i suoi asset (a proposito: lo sapevate?). Intanto, perô, deve fare i conti con il Fiscal Compact ovvero con l’accordo che impegna l’Italia a rientrare nei parametri del Trattato di Maastricht entro il 2035, dunque a far scenddere il debito pubblico dal 130 al 60 per cento del Prodotto interno lordo annuo nell’arco dei prossimi venti anni.
Questo è l’impegno più urgente che Renzi, invece, tanto per cambiare, sembra prendere alla leggera. Non ne parla e, se sollecitato sul tema, si trincera nell’ottimismo piacione di chi confida in una ripresa che invece, se le cose andranno davvero bene, sarà al più asfittica. Insomma, Renzi sta ignorando il problema e questo costerà carissimo all’Italia. Lo penso da tempo ma nei giorni scorsi un grande economista come Giovanni Barone Adesi, che insegna all’Usi di Lugano, ha pubblicato sul Corriere del Ticino un articolo breve quanto illuminante. Ve ne propongo il passaggio principale:
Per discutere seriamente se il fiscal compact sia sostenibile o meno, conviene iniziare, piuttosto che da scenari a breve termine, dall’aritmetica, scienza molto invisa ai politici italiani. Per ridurre il
debito dal 130 al 60 per cento del Prodotto interno lordo in 20 anni occorre che il PIL cresca di circa il 4 per cento l’anno, più o meno il deficit o l’attivo di bilancio annuo, inclusi i proventi straordinari da dismissioni.
In altre parole, se il bilancio fosse in pareggio, la crecita del 4 per cento, ad esempio 3 per cento d’inflazione e 1 per cento di crescita reale dell’economia italiana, consentirebbe il raggiungimento dell’obbiettivo. Se il deficit medio fosse dell’1 per cento, servirebbe, con la stessa inflazione, una crescita del 2 per cento.
Questi obbiettivi di crescita e d’inflazione sembrano difficilmente raggiungibili per l’Italia nei prossimi anni. Questo rende gli obbiettivi per gli anni seguenti ancora più difficili. Servirebbe una rivoluzione
totale dell’economia italiana e un cambiamento totale delle politiche monetarie europee. Se il primo cambiamento, pur improbabile, è in buona misura nelle facoltà degli italiani, il secondo contrappone gli interessi italiani agli interessi tedeschi, che favoriscono un’inflazione più bassa. La Banca centrale
europea, dovendo gestire la politica monetaria per un’area così diversa, deve sempre cercare compromessi, spesso più vicini ai Paesi più forti.
Per queste ragioni è evidente che il fiscal compact è una follia eurocratica.
Ecco di questo dovrebbe parlare Renzi. E alzare la voce in Europa. Se fosse davvero uno statista. Ma non lo è.