Non esiste sovranità monetaria senza sovranità politica
di Gianni Petrosillo - 18/05/2014
Fonte: Conflitti e strategie
“Il governatore previdente afferra le redini della valuta comune per imbrigliare i Sovrani del Destino” – Trattato Guanzi IV secolo A.C.
Il dibattito sull’euro non mi appassiona molto perché credo sia un falso problema, almeno per come è posto dalla fazioni in campo, gli euristi e gli antieuristi, movimenti paradossalmente sprovvisti di spinta euristica, cioè di quel procedimento che, come riporta qualsiasi vocabolario, permette di condurre a nuove conoscenze e a nuove scoperte.
I propugnatori di questa finta battaglia ci riempiono di conti, tabelle, previsioni, scomuniche e promesse per restare ognuno sulla medesima posizione dopo ogni accesa discussione, alimentando un circolo vizioso senza termine e senza risposte. Non poterebbe essere diversamente perché si scontrano due partiti dell’assoluta superficialità scientifica che pretendono di conservare il mondo o di cambiarlo semplicemente combattendo contro le fantasmagorie valutarie. I fantasmi si evocano ma non possono mai essere afferrati.
Perché non si viene a capo di nulla? Perché il denaro non è una forza a sé stante, non è colpevole di nulla e non ha meriti immutabili nel tempo, occorre invece considerarlo nei diversi contesti storici in cui è apparso e per le funzioni che ha assunto. Se in passato, in epoche precapitalistiche, poteva essere considerato una mera tecnologia sociale (non predominante e di supporto) utile soltanto in situazioni limite, nell’era capitalistica le cose si tramutano profondamente e questo assume una posizione centrale nel sistema in quanto diventa, in virtù di dati rapporti sociali storicamente affermatisi, “lo strumento” per eccellenza di facilitazione degli scambi, il rappresentante generale del valore delle merci in una società che si presenta come un grande accumulo di prodotti destinati al mercato e non all’autoconsumo.
Detto questo, addebitare alla moneta comune, sulle base delle valutazione appena esposte, i guasti di un paese o dell’intera comunità europea è depistare dal punto essenziale. Anche se l’Italia abbandonasse l’euro, riscegliendo la lira, le cose non si modificherebbero di una virgola, nel presente quadro dei rapporti di forza politici, interni ed internazionali. Bisogna distogliere lo sguardo dal dito ed osservare direttamente la luna per incominciare a capirci davvero qualcosa. Detto in altri termini, non è il cambio di denominazione monetaria che salverà l’Italia dalla crisi in cui è piombata perché se non mutano le decisioni della classe politica che la dirige si rischia, in ogni caso, di sprofondare in un baratro ancor più profondo. Niente di più facile, dunque, del passare dalla attuale stretta finanziaria, via euro, che sta iugulando la nostra economia, letteralmente disseccandola, ad una gestione lassista, con la nuova lira, che ci riporterebbe esattamente al punto di partenza (inflazione galoppante e successivo giro di vite deflazionistico) in mezzo a difficoltà cresciute esponenzialmente. Dico questo soltanto per rammentare che se al governo siedono gli stessi incompetenti di ora, o i loro cloni con idee antitetico speculari, non c’è valuta che tenga, siamo destinati inesorabilmente a perire. Di altra natura, invece, è la riconquistata sovranità monetaria ma dalle mani di una classe dirigente sovrana politicamente e affrancata dalle sottomissioni esterne. In tale cornice di indipendenza politica complessiva anche la moneta diventerebbe uno dei mezzi (tra i mezzi) di puntellamento della libertà e delle prerogative dello Stato. La moneta, al servizio di una visione politica non approssimativa e di una élite dirigenziale non servile a fantomatiche regole internazionali (come quella odierna), può essere piegata agli obiettivi mutevoli del governo, il suo uso flessibile sarebbe finalmente orientato alla concretizzazione dei molteplici scopi di un Paese che si pone, consapevolmente, nell’orizzonte dello sviluppo della sua potenza per “equilibrare” quella altrui. Questo allora è il dato dirimente. Se reintroduciamo la lira ma continuiamo a sperperare risorse in azioni lesive dei nostri interessi geopolitici e industriali c’è poco da sperare in meglio. Sentendo parlare gli uni e gli altri, gli euristi e gli antieuristi, mi cadono le braccia perché quel che manca nei loro discorsi tecnici è proprio quel che ci occorre nella realtà effettiva: una progettualità politica di ampio respiro finalizzata alla generazione di potenza nazionale, in un momento di profondi cambiamenti del teatro geopolitico mondiale.
Non vi tedio oltre e vi lascio con uno stralcio da un libro molto interessante pubblicato dalla UTET. Il saggio si chiama “Denaro”, l’autore è Felix Martin. In questa estrazione si leggerà di come l’uso del denaro (badate sempre che siamo in età non capitalistica, al cospetto di un modo di produzione asiatico e con tutto quel che comporta in termini di rapporti sociali), controllato da sovrani politicamente lungimiranti, possa diventare un fattore di unificazione sociale e di sprigionamento di energia collettiva, oppure, in caso contrario, di maggiore frammentazione ed impoverimento complessivo di una data configurazione comunitaria. Le responsabilità, comunque, non stanno mai nel denaro ma in chi l’amministra e per quali ragioni. Quindi, chiederci di optare per l’euro o la lira, senza ulteriormente indicare quali sono le prospettive offerteci in altri ambiti decisivi per la nostra situazione (come le relazioni estere e l’autodeterminazione statale), è come domandarci se preferiamo mangiare il brodo con la forchetta o col coltello. Noi vogliamo i cucchiai ma nessuno ce li porge. Buona lettura.
…Il IV secolo a.C. fu il culmine di quel che si definisce il periodo degli “Stati combattenti” in Cina. L’autorità centrale dell’antica dinastia Zhou era crollata da tempo, e i suoi ex Stati vassalli erano impegnati in una guerra apparentemente infinita per riunificare le terre cinesi fin dall’VIII secolo a.C. Non avevano fatto molti progressi. Dopo quasi quattro secoli e mezzo di rivolte e battaglie, il ricordo di una Cina pacifica e unita era più lontano che mai. Numerosi territori minori erano stati inghiottiti da vicini più grandi, ma nel IV secolo i signori dei quattro Stati più potenti – Qin, Jin, Chu e Qi – erano ancora intrappolati in un conflitto interminabile, e tramavano costantemente per difendere il proprio potere e sconfiggere i rivali. Nessuno era più vicino degli altri alla vittoria, né quindi alla pace. Fu nel tentativo di sbloccare questa situazione di stallo che a metà del IV secolo a.C. il duca Han di Qi concepì un’idea davvero moderna. Il pensiero cinese tradizionale (la filosofia di Confucio e di Mozi) si occupava prevalentemente dell’etica: i suoi contributi alla scienza del governo erano essenzialmente rielaborazioni di precetti morali. Se il monarca agiva in modo giusto e i suoi funzionari in modo efficiente, allora giusto ed efficiente si sarebbe rivelato lo Stato.
Nel caos di quei tempi, una simile teoria politica minimalista era di ben poca utilità pratica al duca Han. Egli invitò dunque i migliori pensatori dell’epoca a fondare una nuova accademia nella capitale Linzi. Questi studiosi avrebbero ricevuto una posizione di prestigio e lauti finanziamenti. Il loro unico obbligo sarebbe stato quello di consigliare il governatore di Qi sul modo migliore di amministrare il paese e sconfiggere i nemici. Era il prototipo del moderno think tank politico, e l’idea si rivelò un successo prodigioso. Negli anni del suo splendore, tra la fine del IV secolo a.C. e l’inizio del III, l’accademia Jixia aveva una facoltà di 76 professori e varie migliaia di studenti, e divenne il centro d’istruzione più famoso della Cina. Fu inoltre responsabile di una riforma importante del pensiero cinese. La filosofia morale non era più l’unico campo d’indagine. Nacquero nuove scuole con uno scopo decisamente più terreno: spiegare in dettaglio come il governatore potesse organizzare il proprio stato nel mondo più efficiente per assicurarne la sopravvivenza e infine la supremazia. Fra gli strumenti che i saggi dell’accademia Jixia consideravano più importanti in questa impresa c’era l’istituzione del denaro. Le teorie monetarie sviluppate all’accademia Jixia furono raccolte nell’opera nota come Guanzi. Nei successivi duemila anni sarebbero praticamente assurte a canone del pensiero economico cinese. Sebbene composte all’incirca nello stesso periodo delle opere di Aristotele sul denaro, esse affrontano il tema in modo radicalmente diverso. Aristotele aveva fondato la convenzionale teoria occidentale del denaro quando aveva scritto nella Politica che «per facilitare gli scambi si convenne di dare e di accettare un qualche cosa che, essendo utile esso stesso, possedesse il vantaggio di essere facilmente impiegabile per le necessità della vita, come il ferro o argento o anche qualche altro materiale…».23 Gli autori del Guanzi erano di tutt’altro parere. Il denaro, scrivevano, è uno strumento del sovrano, una parte del suo arsenale di governo: «i re precedenti usarono il denaro per preservare la ricchezza e i beni e regolare così le attività produttive del popolo, e così facendo portarono pace e ordine ai Regni Sotto il Cielo».24 Se il denaro era uno strumento del sovrano, seguivano altre domande importanti: come funzionava esattamente, e per quali scopi doveva impiegarlo il sovrano? Per rispondere a queste domande i dotti di Jixia svilupparono una teoria del denaro semplice ma potente. Prima di tutto, spiegarono, il valore del denaro non era legato al valore intrinseco del particolare oggetto simbolico usato: «tre tipi di moneta [perle e giada; oro; e monete a forma di coltello e di vanga] non offrono calore a chi è nudo, né possono riempire il ventre dell’affamato» proclamava il Guanzi. Piuttosto, il valore del denaro era direttamente proporzionale alla quantità in circolazione rispetto alla quantità di beni disponibili. Il ruolo del sovrano, dunque, era quello di modulare la quantità di denaro disponibile per poter variare il valore dello standard monetario in rapporto a quei beni. Poteva scegliere una politica deflazionistica: «se nove decimi della moneta del regno rimangono nelle mani del governatore e solo un decimo circola fra il popolo, il valore del denaro salirà e i prezzi d’innumerevoli beni scenderanno»; o inflazionistica: «egli mette denaro in circolazione, e intanto accumula beni per sé, facendo così decuplicare il prezzo d’innumerevoli beni», secondo le necessità dell’economia.25 Far variare lo standard monetario in questo modo poteva servire a due scopi. Innanzitutto, forniva un mezzo potente di ridistribuzione della ricchezza e del reddito fra i sudditi del sovrano, poiché l’inflazione diminuiva i reclami dei creditori e alleviava il fardello dei debitori, dirottando la ricchezza dai primi ai secondi, mentre la deflazione faceva il contrario. Inoltre, se veniva coniata nuova moneta, la ridistribuzione più importante andava dal sovrano ai sudditi, poiché questi spendeva altro denaro mettendolo in circolazione praticamente a costo zero: il miracoloso potere che gli economisti della tradizione occidentale avrebbero definito in seguito “signoraggio”. Secondo, la variazione regolava l’attività economica rendendo più o meno disponibile lo strumento primario di organizzazione e conduzione dei commerci. Lo scopo del governo doveva essere una società armoniosa, per conseguire il quale la politica monetaria era uno strumento potente. Certo, c’era una complicazione. Perché il potere del denaro fosse efficace, precisavano i dotti di Jixia, il sovrano doveva mantenere su di essi un controllo esclusivo. Se qualcun altro nel regno fosse stato in grado di emettere moneta, avrebbe potuto arrogarsi il controllo del valore dello standard e usurpare una parte del potere del sovrano. Fin dal loro concepimento, i precetti dell’accademia Jixia furono lodati per la loro chiarezza e logicità. Ma fu necessaria un’esperienza amara per trasformarli negli assiomi indiscussi del pensiero monetario cinese, e nel frattempo la questione del controllo monetario fu più volte contestata violentemente. Nei decenni caotici seguiti allo spodestamento della dinastia Qin nel 202 a.C., gli imperatori della nuova dinastia Han perseguirono una politica fiscale e monetaria improntata al lassismo, spendendo al di sopra delle proprie possibilità e finanziando il deficit con l’emissione di nuova moneta. Alla fine si dovette imporre una politica monetaria radicalmente deflazionistica, mirata a ricompattare la fiducia nella valuta imperiale. La stretta che ne seguì si rivelò più dolorosa e impopolare che mai…