Si parta da un fondamentale presupposto: Europa ed unione monetaria non sono assolutamente un bene indissolubile, al contrario di quanto ci facciano credere. Soprattutto, essere contrari all’unione monetaria, come anche alla Comunità Europea così concepita, non significa essere contro l’idea stessa di Europa, anzi. Ad ormai pochi giorni dalle elezioni europee si sarà notato qualcosa mai avvenuto prima, una massiccia campagna (propaganda di regime) orchestrata dalla Rai -ente pubblico e pertanto pubblicamente pagato dai cittadini–che ha mandato in onda degli spot video ad esaltazione della grandezza del “popolo” europeo, che ha sì una moneta unica (dannosa), un mercato unico (distruttivo) ma che ancora non ha – per nostra fortuna- un esercito unico, ed una comune volontà politica.
L’oscenità del fatto è data non solo da questo tipo di “evangelizzazione” profumatamente pagata col denaro degli italiani -il 40% ed oltre dei quali oltretutto contrari alla UE- ma anche e prima ancora dal fatto che di video di questo tipo, ad esaltare una vera grandezza, quale quella di un popolo e di una identità nazionale come quella italiana, non sono mai stati realizzati. Tutto ciò manifesta tuttavia la paura evidente dei gerarchi europei nei confronti dei tanti focolai anti-Europa sparsi su tutto il continente. Dall’Ukip inglese (in una Inghilterra che comunque non paga lo scotto dell’euro), alla Francia della Le Pen, passando per la Grecia, l’Ungheria e così via fino a coprire la maggioranza dei paesi aderenti all’Unione. Tutti questi movimenti e partiti, compresi taluni italiani (in maniera decisa la Lega, in maniera più tiepida Fratelli d’Italia, finanche a posizioni ambigue del M5S) vengono additati come populisti ed aggressivi, una vera e propria minaccia per la democrazia, come se sostenere la sovranità nazionale e non voler -e non poter- più sopportare il giogo di istituzioni finanziarie sia un male. Quella europea è dunque uno strano tipo di democrazia, di quelle che “democraticamente” non accettano posizioni diverse dalle proprie.
A ben vedere, la battaglia anti euro è portata avanti da forze che attraversano l’intera galassia politica, dall’estrema destra all’estrema sinistra, e questo perché la vecchia dicotomia è evidentemente un contrasto utile soltanto a queste entità straniere e sovranazionali, che ci governano sulla base del “divide et impera”. Il bene di una nazione, così come il bene della vera nazione Europa, è un bene necessario, un valore assoluto, che appartiene a tutti, non alla destra od alla sinistra.
Una moneta nazionale significa la possibilità di svalutare, così da garantire la competitività dei nostri beni ed il lavoro dei nostri compatrioti. Si veda il pratico esempio della Polonia, che seppur dentro l’Europa ha una moneta propria, lo Zloty, che è stato recentemente svalutato addirittura fino al 30%. Cosa significa? Che le nostre imprese, costrette a chiudere in Italia, aprono in un Paese che permette sgravi mostruosi sui costi del lavoro, a discapito ovviamente tanto della nostra economia, quanto dei nostri lavoratori. Intanto però quella stessa Polonia sta crescendo a ritmi vertiginosi, rappresentando circa il 40% del Pil dell’Est europeo. Poco saggiamente lo stesso Stato ha intenzione di entrare nell’euro.
La sovranità monetaria permette inoltre di monetizzare il debito, ossia far sì che lo Stato possa comprare i suoi stessi titoli stampando denaro, pertanto non permettendo un incremento vertiginoso dello stesso debito, e soprattutto evitando la sudditanza verso Paesi stranieri di cui siamo creditori. Avere una moneta propria significa in definitiva avere uno strumento adeguato ad una specifica economia, al contrario del vestito unico euro per taglie differenti.
L’insostenibilità della moneta unica è stata pure evidenziata da un rapporto di Mediobanca (!), la seconda più grande banca italiana (si fa per dire, essendo come tutte privata). Il rapporto in questione,del quale si è parlato ben poco, fa riferimento al ”ciclo di Frenkel”, teoria economica che descrive le fasi proprie di un Paese che si aggancia ad una valuta più forte. Sull’esempio di quanto accadde in Argentina, la teoria sottolinea come ad un momento di prosperità dovuto ad un forte afflusso di capitali esteri -che si traducono quindi in consumi ed investimenti- seguirà tuttavia un aumento inflazionistico e del debito privato, nonché un incremento di bolle speculative.
A questo punto gli investitori spaventati si allontanano, il Pil scende, il debito privato si fa pubblico, perché le banche non potendo sostenere la crisi di liquidità sono costrette a richiedere iniezioni esterne, pagate dallo Stato. Quest’ultimo sarà poi costretto a tagliare la spesa (male) ed ad aumentare le tasse, col solo risultato di peggiorare la situazione. L’unica soluzione ed ultima tappa del ciclo? Sganciarsi dal cambio fisso e svalutare.
Sempre da Mediobanca si legge come l’Italia sia entrata in una “spirale negativa della produttività” soltanto dopo aver fissato i tassi di cambio prima dell’entrata nella UEM, nel 1996. L’insostenibilità di questa moneta e lo sganciamento da questa sono dunque necessari, e non ammetterlo “significa negare l’evidenza”. Col voto si va dunque in Europa, ma solo se per uscire da questa trappola.
“Guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso” (James Mirrlees, premio nobel 1996).