“Andai nei boschi perché desideravo vivere deliberatamente, affrontare solo i fatti essenziali della vita, e vedere se non potessi imparare cosa avesse da insegnare, senza scoprire, giunto alla morte, di non aver vissuto”
Henry David Thoreau nacque a Concord (Massachusetts), il 12 luglio del 1817. Figlio di un imprenditore, decise di non seguire la sua strada, rinunciando così alla certezza di un futuro agiato. La vita di Thoreau può essere, infatti, vista ed interpretata come un infinito percorso spirituale, una continua volontà di mettersi e mettere i dogmi della società in discussione. Si laureò in filosofia ad Harvard nel 1837 e fu uno dei massimi rappresentanti di quel movimento di idee che, con esplicito richiamo a Kant, prese il nome di Trascendentalismo, caratterizzato dall’esaltazione dei rapporti tra uomo e natura e l’opposizione al razionalismo. Fu allievo ed amico di Ralph Waldo Emerson, un innocuo idealista immerso nei suoi pensieri e nella contemplazione dalla natura, autore, tra l’altro, del celebre saggio Nature. Ma ad Henry David non bastava studiare la natura, egli voleva essere Natura. Egli, come pochissimi altri sono riusciti a fare, riuscì a coniugare alla perfezione il suo pensiero filosofico alla sua vita pratica. Non passò il suo tempo dietro ad una scrivania, a leggere migliaia di libri e scrivere pagine su pagine di idee, ma le mise in atto nel più grande libro accessibile a tutti: la wilderness, quella Natura selvaggia che, già nei primi decenni dell’Ottocento, incominciava a venir distrutta per far posto alle fabbriche, ai grandi palazzi ed al grigiore desolante dell’industrializzazione.
Anticipando di circa un secolo la concezione di “Ecologia profonda”, del filosofo norvegese Arne Naess, Thoreau considerava l’uomo come una singola parte integrante di un Tutto, ovvero la Natura nel suo insieme. Di conseguenza, la nascente società industriale, distruggendo la Terra, minava alla sopravvivenza dell’umanità. Visionariamente individuò nel progresso industriale la causa del regresso umano, sempre più materiale e meno spirituale. L’unica possibilità di salvezza risiedeva nella riconnessione con la Totalità. Fu per questo che, il 4 luglio del 1845, si allontanò da Concord e raggiunse a piedi il piccolo lago Walden, circondato dalla foresta e lontano dalla civiltà. Qui edificò una capanna, coltivò la terra per autoprodursi i mezzi di sussistenza e visse a contatto con quella Natura tanto essenziale quanto meravigliosa. Ciò che ne derivò da questa esperienza fu “Walden, ovvero la vita nei boschi”, pubblicato nel 1854. In queste pagine è possibile scorgere l’intimità dell’esperienza vitale intrapresa dal pensatore. La lettura della descrizione dei particolari, dei piccoli gesti e delle azioni quotidiane sono in grado di comunicare al lettore sensazioni armoniose, incompatibili con il caos contemporaneo. L’elogio rivolto alla solitudine, intesa come tentativo di connessione con qualsiasi oggetto naturale, appare come una richiesta di pace in un mondo che sempre più, nella sua folle corsa, travolge i più deboli. In “Walden” Thoreau, vegetariano per diversi periodi della sua vita ed attivo contestatore della costruzione del grande mattatoio di Chicago, riflette sul rapporto con gli altri animali. È convinto che nel suo progressivo sviluppo, la razza umana smetterà di cibarsi di carne animale, così come ha smesso di mangiare quella umana. Rimase in prossimità del lago per più di due anni, fino al 6 settembre del 1847, quando: “ho lasciato i boschi per una ragione altrettanto buona di quella per cui ci sono andato. Forse mi sembrò di avere molte altre vite da vivere, e non potevo riservare altro tempo per quella”.
Ma per capirne una, di quelle tante sue altre vite, occorre fare un passo indietro. Nel 1846 gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra al Messico, per sancire l’annessione del Texas e della California. Thoreau si rifiutò di pagare le tasse per finanziare quell’atto di aggressione ingiustificato, consapevole del fatto che esso poteva essere attuato solamente con il consenso e con il contributo dei cittadini. Di tutta risposta fu incarcerato, ma quando il suo amico Emerson gli chiese: “Dio mio, David, che cosa ci fai tu lì dentro?”, egli rispose: “Dimmi tu, piuttosto, caro Waldo: che cosa ci fai là fuori?”, dimostrando grande coerenza con i suoi principi, anche se fu liberato poco dopo grazia ad una cauzione, non richiesta, pagata dalla zia. Il risultato di quell’esperienza fu la pubblicazione, nel 1849, di “Disobbedienza Civile”, che al suo interno racchiude: da un lato la critica all’ipocrisia del governo statunitense; dall’altro, in opposizione al potere assoluto della maggioranza, la centralità di ogni singolo uomo capace, attraverso le proprie azioni, di modificare scenari collettivi. L’essenza di questo vero e proprio manuale di resistenza non violenta, fonte di ispirazione di Gandhi come di Martin Luther King, può racchiuso in questo pensiero: “Una minoranza che si conforma al volere della maggioranza, perde ogni potere, non è più neanche una minoranza, ma diventa irresistibile quando sbarra il passo con tutto il suo peso”.
Henry David non fu mai un accademico e probabilmente per questo ancora oggi viene raramente studiato nelle università. Alcuni lo considerano un filosofo, altri un letterato, altri ancora un semplice viandante. Questa visione così negativa è paradossale alla luce dell’incredibile influenza che ha avuto in pensatori, correnti e movimenti successivi, e soprattutto della continua attualità del suo pensiero. Come ha sostenuto il filosofo Stanley Cavell: “[Thoreau insieme ad Emerson] furono tra le menti filosofiche più sottovalutate che l’America abbia mai prodotto”. Ma lo spirito libero del Concord, abituato ad essere pesantemente criticato anche dai suoi contemporanei, di certo dalla vita non ha ricercato la fama, ma valori superiori che probabilmente trovò specialmente negli ultimi anni della sua vita. Poco prima di morire, nella sua città natale nel 1862, raccolse tutti i suoi pensieri, concepiti durante lunghissime camminate animate dal suo antico ma sempre presente amore per la Natura, nel saggio “Camminare”. “Quando ho bisogno di ricreare me stesso vado in cerca della foresta più buia, della palude più fitta e più impenetrabile e, a occhi cittadini, più tetra”. Il cammino non è un esercizio fisico, ma un’intensa attività spirituale. Camminare significa scoprire se stessi, entrando in relazione con il Tutto. È un’arte che permette di aprire gli occhi davanti al rischio di autodistruzione, a cui sta andando incontro la Terra, nel 1862 come nel 2014, o meglio oggi più di ieri. E allora si può affermare che il senso della vita risiede nella scoperta di questo sentiero capace di collegare il pensiero all’azione, il finito all’infinito, l’uomo alla Natura. Tutti noi, in fondo, necessitiamo di questo scopo: “se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino”.