Ama le generazioni future come te stesso
di Giordano Mancini - 17/06/2014
Fonte: Movimento decrescita felice
“Ama le generazioni future come te stesso!” scriveva Nicholas Georgescu Roegen, che negli anni ’70 inventò la bioeconomia e la decrescita, come modello antagonista a quello distruttivo del consumismo, che divora il futuro dei nostri figli e nipoti. Sull’altare del mito della crescita continua del Prodotto Interno Lordo, sacrifichiamo energia, materiali, biosfera e ogni genere di beni, sprecando a più non posso come se non vi fosse un domani. Oggi l’ingranaggio si è parzialmente inceppato e la macchina industriale iper produttiva si ritrova con troppa merce da vendere e pochi clienti, così licenzia, delocalizza o chiude i battenti. Ma non passa giorno senza che qualche politico o qualche esponente del mondo economico ripeta che “solo la crescita può rilanciare l’occupazione”. E spesso qualcun altro aggiunge ironicamente: “non sarà certo la decrescita felice a creare nuovi posti di lavoro”.
Per alcune categorie di persone è veramente difficile, anche di fronte all’evidenza, uscire dai “dogmi” economici tradizionali e cercare di comprendere che esistono altre vie. In un ironico, quanto istruttivo, libricino di Paul Watzlawick intitolato “Istruzioni per rendersi infelici”, l’autore dispensa ricette infallibili per diventare “professionisti dell’infelicità”. Una delle ricette più efficaci consiste nel pensare che “esiste un’unica soluzione ad un dato problema”, la quale se prima funzionava e ora non più, significa che “non mi sto impegnando abbastanza”. In sintesi Watzlawick scrive: “Se vedi che non ottieni più i risultati di un tempo, non ti scoraggiare! Continua pervicacemente a caricare il Mondo a testa bassa! Perché è il Mondo che sbaglia e non tu! Non cercare altre soluzioni e conseguirai certamente un grado elevato di frustrazione e quindi di infelicità. Pensa che intere specie animali e razze umane si sono estinte per non essere state in grado di cambiare idea o di adattarsi ad una nuova situazione!”
Ironie a parte, nessuno vuol mettere in dubbio che il progresso tecnologico e lo sviluppo economico degli ultimi decenni abbiano portato benessere a tante persone, specialmente nei paesi industrializzati. Ma assieme ai vantaggi sono arrivati anche molti problemi come il cambiamento climatico, l’inquinamento, le diseguaglianze sociali, nuove malattie ed altri mali che sarebbe sciocco ignorare. E poi una eventuale crescita che non riesca a generare nuovi posti di lavoro o a mantenere quelli in essere, come quella di cui si parla di questi tempi, non si potrebbe a buon diritto definire “crescita infelice”? E come si fa a credere nella favola che racconta di una specie di “effetto ritardato”, per il quale il lavoro arriverà dopo un certo periodo di tempo rispetto alla crescita del PIL? Chi conosce il mondo dell’industria sa bene che l’automazione, l’ottimizzazione dei processi produttivi e della logistica ed altri artifizi organizzativi, portano ad un costante aumento della produttività, ovvero alla capacità delle imprese di produrre più prodotti e servizi con meno impiegati. Agli economisti che assimilano l’aumento della produttività all’aumento della competitività, senza aver contezza degli “effetti collaterali”, basterà studiare i dati ISTAT degli ultimi 50 anni per constatare come ad un aumento del PIL di quasi 4 volte, verificatosi dagli anni ’60 ad oggi, non è affatto corrisposto un aumento dell’occupazione proporzionale, anzi! In riferimento all’aumento di una quindicina di milioni di abitanti, abbiamo un CALO proporzionale dell’occupazione. Questo è il prezzo della competizione globale. E allora perché economisti ed industriali sono così attaccati alle vecchie soluzioni come una cozza al suo scoglio? Forse perché sono abituati a pensare il termini di quantità e non di qualità e pensano ancora, sbagliando clamorosamente, che il PIL sia un indicatore del nostro benessere, invece che un mero numeratore delle merci scambiate, qualunque esse siano. Il PIL aumenta se costruiamo una scuola, ma aumenta di più se un terremoto la distrugge, perché bisogna prima sgomberare le macerie, ci sono morti da seppellire e feriti da curare e poi c’è la ricostruzione tutto favorisce l’aumento del PIL! E aumenta di più se le nostre auto e case consumano tanto carburante e se inquiniamo e se quindi ci ammaliamo e comperiamo tante medicine….
Bisogna cominciare a scegliere. Occorre pensare in termini qualitativi e far crescere quello che ci è utile e far diminuire quello che non ci serve, che ci fa male o che genera spreco. In generale occorre favorire le tecnologie e le soluzioni della bioeconomia e della decrescita. A volte il termine “decrescita felice” viene scambiato con il termine “recessione” che è tutta un altra cosa. Basta leggere i testi di Maurizio Pallante come di altri studiosi, molti dei quali impegnati nell’industria, per comprendere che decrescita felice sottintende ad una serie di criteri qualitativi dove le tecnologie innovative per la lotta contro lo spreco sono parte rilevante della soluzione. La comunità europea nel 2012 ha lanciato con forza una sua strategia verso la bioeconomia, finanziandola con oltre 4 mld di € nell’ambito del programma Horizon 2020. Si tratta di una strategia “timida”, rispettosa degli interessi delle lobby e della vecchia economia del carbonio, ma il seme è stato piantato e l’albero di una nuova economia crescerà.
Purtroppo ci tocca ancora ascoltare ogni giorno le chiacchiere di quella schiera di economisti che non azzeccano un numero, una previsione ed una buona soluzione da prima del 2008. Economisti capaci solo di spiegarti domani perché quello che hanno previsto ieri non si è realizzato oggi! E non parliamo di personaggi di secondo piano: basti citare Mario Draghi, allora a capo della Banca d’Italia, che, di fronte alla crisi che stava montando e che avrebbe portato da lì a poco al fallimento della Lehman Brothers, parlò di “turbolenza passeggera”, dimostrando di possedere una capacità di analisi e di previsione degna del mago Otelma.
Forse è il caso di cominciare ad ascoltare altre campane rispetto a quelle tradizionali e di accettare che esistono nuove soluzioni, alcune delle quali per altro obbligate, che ci conviene percorrere. Nessuno di noi vuol perdere il benessere tanto faticosamente acquisito ed è proprio l’insistere su strade oramai palesemente sbagliate che rischia di farci tornare ad un passato buio e regressivo. I nuovi vincoli derivati dalle emergenze globali che stiamo affrontando sono altrettante opportunità per competere. Ad esempio la necessità di immettere in atmosfera meno CO2, di ridurre i costi della bolletta energetica e di utilizzare comunque meno combustibili fossili ci “costringono” all’efficienza energetica, uno dei cavalli di battaglia della bioeconomia e della decrescita da quasi 40 anni. In un recente rapporto stilato dal Politecnico di Milano e da Enel Foundation, si parla della possibilità di investire oltre 500 mld di € al ritmo di 65/75 mld di € all’anno da qui al 2020, per incentivare la lotta agli sprechi di energia tramite innovazione specifica in diversi settori, generando in pochi anni più di 3.000.000 di nuovi posti di lavoro in Italia. Questo è un tipico esempio di economia della decrescita, dove gli investimenti vengono concentrati nella lotta allo spreco, dove si interrompe la catena del consumismo, si crea lavoro utile e non occupazione purchessia, si abbattono le emissioni di CO2 in atmosfera e si riduce la bolletta energetica. Il rapporto non propone di incentivare qualunque tipo di innovazione per far crescere il PIL: indica di effettuare una precisa scelta qualitativa. Certo il PIL crescerebbe di circa 2 punti all’anno nella fase di investimento, ma poi calerebbe grazie ad un risparmio nel consumo di energia di oltre il 23%. In questo caso sarebbe l’utilità ed il buon senso il nostro punto di riferimento e non il PIL! E’ giunto il tempo di aprire la mente e di smetterla di blindarsi dietro a percorsi che hanno fatto il loro tempo e che non funzionano più. E che non funzioneranno mai più, perché non si può più fare crescita non selettiva, perché pagheremmo cara la nostra incapacità di fare scelte qualitative.
Il futuro della nostra specie non è così al sicuro come molti di noi immaginano. Con la sua consueta capacità di visione, supportata da una incontestabile competenza scientifica, Nicholas Georgescu Roegen, vedendo che le sue tesi rimanevano inascoltate, scrisse con nera ironia:“Studiate su carta, in astratto, queste esortazioni sembrerebbero, nel loro insieme, ragionevoli a chiunque fosse disposto a esaminare la logica su cui poggiano. Ma da quando ho cominciato a interessarmi della natura entropica del processo economico, non riesco a liberarmi di un’idea: è disposto il genere umano a prendere in considerazione un programma che implichi una limitazione della sua assuefazione alle comodità esosomatiche? Forse il destino dell’uomo è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante piuttosto che un’esistenza lunga, monotona e vegetativa. Siano le altre specie – le amebe, per esempio – che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare una terra ancora immersa in un oceano di luce solare.”
Per questo dobbiamo ascoltare e mettere in pratica l’esortazione di Georgescu Roegen “Ama le generazioni future come te stesso” perché è un imperativo etico ma è anche un nostro preciso e comune interesse.