“Le stucchevoli polemiche cui abbiamo assistito negli ultimi anni e hanno opposto coloro che rivendicano la necessità del riconoscimento delle radici cristiane e coloro che vorrebbero negarla, preferendo invece riconoscere quelle illuministiche, indicano quanto la cultura attuale sia abitata da opposti monismi e percio lontana dal superamento delle contraddizioni, insomma quanto poco sia europea: difatti si tratta di una cultura che emerge dal fenomeno pervasivo della globalizzazione, che con altre parole potremmo definire occidentalizzazione ovvero americanizzazione.
L’ ideologia globalista è portatrice d’una sorta di monismo economicistico secondo il quale il mondo in cui viviamo è l’unico possibile, non esistono alternative, il valore economico è l’unica discriminante tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, quindi le leggi del mercato devono prevalere.
Questo pensiero unico corrisponde al progetto statunitense, come ben evidenzia Jeremy Rifkin quando asserisce che per gli americani la libertà è associata all’autonomia, cioè al fatto di non dipendere dagli altri, soprattutto dal punto di vista economico: per essere liberi, gli americani pensano che si debba essere ricchi.
II sogno europeo invece è esattamente l’opposto: per gli Europei essere liberi è porsi in relazione con gli altri, unirsi, condividere, aprirsi. La nostra è da sempre una società dell’inclusione. Ora è evidente che l’Unione Europea e le sue istituzioni sono volte realizzare non il sogno europeo, ma quello a stelle e strisce, che è il suo opposto. Perciò si può dire che l’azione politica dell’Unione Europea è antieuropea e che l’uso della parola Europa come sinonimo di CEE e poi di UE, dapprima raro ed informale, negli ultimi anni più regolare ed esteso, nasconde non solo un’insidia, ma addirittura una menzogna.
I padri fondatori dell’Unione Europea posero gli Stati nazionali al centro del loro progetto d’integrazione, che essi concepivano appunto come un graduale negoziato tra Stati sovrani; poi, negli anni Ottanta del secolo scorso, prese piede la politica economica del cosiddettoWashington consensus, improntato sulla teoria neoliberale e sul principio del minimo intervento statale. Si innestò un processo che portò rapidamente all’erosione delle sovranita nazionali dei singoli Stati membri, giungendo cosi, per citare le parole del compianto professor Costanzo Preve, alla «incorporazione di quest’Europa politicamente e spiritualmente morente in questo mercenariato militare occidentalistico globalizzato».
La tendenza a confondere gli interessi dell’Unione Europea con quelli della NATO è emersa dopo la fine della Guerra Fredda e si è rafforzata con la pratica dell’ interscambiabilità di persone che occupano posti chiave nei due organismi. L’Unione Europea era all’origine una grande opportunità, difficile è capire se lo possa essere ancora, di certo perché ciò sia possibile si dovrebbe eludere ogni richiesta, da parte delle istituzioni UE, di cessioni di sovranità, anzi i singoli Stati membri dovrebbero fare ogni sforzo per riconquistare ognuno la propria e poi, volendo ancora perseguire una politica europeista, trovare piuttosto un modo di sommare sovranità e forze, cosi da poter divenire davvero un attore globale.
Per rendere possibile il cambiamento dell’attuale scenario è allora necessario un recupero culturale dell’identità europea che parta dalla soluzione di un malinteso che inquina da molto tempo l’opinione pubblica, ovvero dalla presa di coscienza del fatto che l’Europa non è Occidente o per meglio dire, essendo sua caratteristica principale la coesistenza armonica degli opposti, è sia Oriente sia Occidente. L’ identità europea va piuttosto difesa dai rischi connessi alla globalizzazione.
Far coincidere il concetto di Europa con quello di Occidente è truffaldino, almeno quanto farlo coincidere con quello di Unione Europea, ed anche di più, se si considera che l’idea contemporanea di Occidente è stata elaborata nell’ambito del pensiero politico statunitense «proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa». Creare il malinteso è utile alla propaganda occidentalista per poi definire come nemico l’orientale di turno.
L’effetto è quello di indebolire la società europea, rendendola inconsapevole della particolare forma di convivenza di cui è portatrice.
(…)
La forma di coesistenza che permette di non scegliere tra due poli opposti ma di conciliarli è quella comunitaria, la quale, dopo aver caratterizzato a lungo l’Europa, ha lasciato spazio alla forma societaria; quest’ultima, sommamente individualista, promette il massimo della libertà, ma alla fine si rivela un apparato fatto per addomesticare i suoi membri e indirizzarli ad obiettivi precostituiti, decisi in altre sedi e talvolta perfino contrari agli interessi dei singoli coinvolti. Nell’epoca della globalizzazione il singolo è soprattutto consumatore, «solitario collezionista di sensazioni», educato fin dalla più tenera età attraverso la pubblicità, che pone molta attenzione e investe molte risorse nel tentativo di fidelizzarlo: quando ha successo, lo renderà a un tempo omologato e solitario.
In un’ideale organizzazione informata ad un perfetto collettivismo, invece, sarebbe escluso il problema della solitudine, ma esasperato il rischio dell’omologazione.
La comunità altresì può permettere all’individuo di svilupparsi pienamente, in quanto il senso d’appartenenza esalta o almeno aiuta ad accettare le peculiarità individuali. Vi è un’evidente omologia fra I’equilibrio tra generale e particolare che caratterizza l’ idea di Europa e I’equilibrio tra comunita e individuo.
Se il percorso politico necessario per una ricostruzione europea potrebbe passare indifferentemente da una modifica dell’attuale Unione Europea, oppure da un suo scioglimento e da una successiva riaggregazione mediante istituzioni con nomi differenti, imprescindibile è compiere in parallelo un percorso culturale di ricomposizione dei dualismi.”
Da L’Unione antieuropea, di Michele Orsini in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, n. 2/2014, pp. 160-162 (grassetto nostro).