Sull’indipendenza dell’Ucraina Aleksandr Solzenicyn la pensava nello stesso modo di Mikhail Gorbaciov e di Vladimir Putin oggi: un fatto da accettare come inevitabile, ma non secondo i confini decisi in epoca sovietica. È quanto emerge dalla riesumazione delle lettere scambiate fra il premio Nobel per la letteratura e l’intellettuale ucraino Sviatoslav Karavanskij alla vigilia dell’indipendenza di Kiev. Solzenicyn sperava che fra Russia e Ucraina sarebbe rimasta una forma di unione, ma era disposto ad accettare la secessione di Kiev. Non però nei confini della repubblica sovietica. «Malgrado tutta la mia passione», scriveva il grande dissidente, «non obietto alla separazione dell’Ucraina… Ma se si tratta veramente dell’Ucraina. Ora che nell’Ucraina Occidentale vengono abbattuti i monumenti a Lenin (e lo meritano!), perché gli ucraini occidentali più di tutti gli altri vogliono che l’Ucraina abbia proprio i confini leniniani, ossia quelli regalati alla stessa dal caro Lenin che, cercando di rabbonirla in qualche modo per la privazione dell’indipendenza, aggiunse ad essa territori che non erano mai stati ucraini, ossia la Novorossija (Russia del Sud), Donbass (per isolare il bacino del fiume Donets dalle influenze “controrivoluzionarie” della regione del Don) e parti rilevanti della riva sinistra del Dnepr? (E Krusciov in un batter d’occhio “regalò” anche la Crimea.) Ed ora i nazionalisti ucraini difendono ferreamente proprio questi “sacri” confini leniniani?». La lettera non ebbe risposta.
La Russia non è in guerra con l’Unione Europea, Donetsk non è Danzica, Putin non è Hitler e una riedizione del 1939 non è alle porte sul nostro continente. L’accordo di massima per un cessate il fuoco permanente nell’Ucraina orientale che Poroshenko e Putin hanno convenuto telefonicamente il 3 settembre scorso – naturalmente la Russia ha smentito, ma tutti capiscono come sono andate le cose – è lì a dimostrare che gli attori del conflitto sono dotati di razionalità, che la geopolitica non è un’opinione e che finché esisteranno gli stati il realismo sarà sempre un approccio migliore dell’idealismo e dell’affermazione di princìpi che normalmente sono la copertura ideologica di interessi e volontà di potenza.
L’evocazione delle tragedie della Seconda Guerra mondiale e dell’aggressività che fu caratteristica dell’Unione Sovietica è comprensibile sulla bocca del presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, della presidente lituana Dalia Grybauskaite, o degli intellettuali polacchi (fra i quali il grande Andrzej Wajda) che hanno firmato un appello intitolato enfaticamente “Da Danzica a Donetsk, 1939-2014”. Comprensibile a motivo dei traumi storici che i loro paesi hanno patito per mano sovietica e prima ancora zarista, ma non giustificabile. Perché a reagire con isteria e con iperboli alla crisi attuale si rischia di ripetere non gli errori degli anni Trenta che portarono alla guerra nel 1939, ma quelli descritti da Christopher Clark nel suo The Sleepwalkers, che portarono l’Europa a un conflitto le cui proporzioni superarono ogni immaginazione nel 1914.
Putin non è Hitler e nemmeno Stalin o Breznev. Non promuove un’ideologia di supremazia razziale e nemmeno una rivoluzionaria universale rivolta a tutti i popoli come i suoi predecessori al Cremlino. Non è a capo di una macchina militare e di un apparato industriale senza rivali in Europa, come furono rispettivamente l’Unione Sovietica e la Germania del Terzo Reich. La Russia è una ex potenza globale che lotta per restare almeno potenza regionale. La sua spesa militare è pari a 87,8 miliardi di dollari, cioè meno di quelle di Francia e Regno Unito sommate insieme (119,1 miliardi di dollari) e meno di un settimo di quella degli Stati Uniti (640 miliardi di dollari).
La Russia è un paese in pieno declino demografico, nel quale la popolazione è scesa da 150 a 143,5 milioni di abitanti fra il 1990 ed oggi, ed è notevolmente invecchiata. Il suo prodotto interno lordo, che dipende per la maggior parte dall’estrazione di materie prime energetiche, è uguale a quello dell’Italia, che ha meno della metà dei suoi abitanti ed è 57 volte più piccola.
Per frenare questo declino ed evitare lo scivolamento del paese nella condizione di stato fallito dotato di arsenale nucleare – condizione che si stava realizzando negli anni della presidenza Eltsin – Vladimir Putin ha ricostituito la “verticale del potere”, che prima di lui avevano realizzato in modi diversi lo zarismo e il comunismo bolscevico, e ha concepito la creazione di un’Unione Euroasiatica che avrebbe riunito alcuni degli stati nati dal dissolvimento dell’Unione Sovietica attorno al polo d’attrazione rappresentato dalla Federazione Russa.
Il progetto ha subìto un colpo d’arresto formidabile nel febbraio scorso, quando la cacciata del presidente Yanukovich da Kiev ha azzerato le possibilità che l’Ucraina entrasse a far parte della nuova associazione regionale. Al contrario: con l’ascesa al potere dei partiti filo-europeisti e anti-russi, Putin si è trovato di fronte alla prospettiva che l’Ucraina, da potenziale granaio e laminatoio dell’Unione Euroasiatica, diventasse un avamposto della Nato a soli 500 chilometri da Mosca. Al summit della Nato del 2002 il documento finale conteneva la seguente frase: «Georgia e Ucraina entreranno a far parte della Nato».
Il reale disegno di zar Vladimir
Ecco allora che le iniziative aggressive attuate dalla Russia da marzo in avanti e che vengono percepite come azioni espansionistiche (annessione della Crimea, sostegno ai ribelli dell’autoproclamata Repubblica popolare del Donbass, intervento militare diretto benché mascherato) vanno in realtà lette come reazioni dettate dalla volontà di contenere una bruciante sconfitta: l’uscita imprevista e irreversibile dell’Ucraina dalla sfera di influenza russa. La Crimea e il Donbass, per il quale Putin oggi chiede uno statuto speciale che sta a cavallo fra l’autonomia e l’indipendenza, sono i premi di consolazione del torneo geopolitico che ha consegnato all’Occidente la vincita più ambita: l’Ucraina.
Per comprendere il valore intrinseco di tale primo premio basta conoscere il significato del suo nome, cioè “terra di frontiera”. Quegli ucraini che affermano che il governo Putin ha osteggiato il movimento del Maidan di Kiev nel timore che il suo successo rappresentasse un esempio per i cittadini russi e li spingesse a ribellarsi ai loro governanti, dimostrano di conoscere poco i loro cugini. I quali sono scesi in piazza contro il loro governo due anni prima che lo facessero gli ucraini (proteste di Mosca del dicembre 2011), ma dopo l’annessione della Crimea alla Russia hanno appoggiato la decisione di Putin con tassi di consenso dell’83 per cento che persistono fino ad oggi.
Il popolo russo si sarebbe ribellato a Putin non per aver aperto gli occhi a seguito del successo della rivoluzione del Maidan ucraino, ma per punirlo di non aver fatto pagare a caro prezzo agli ucraini il loro strappo dallo storico rapporto con Mosca.
La dottrina su cui Putin basa la sua politica di rivendicazione del riconoscimento della Russia come potenza regionale è pericolosa per alcuni paesi che confinano con la Federazione Russa, ma non per l’Unione Europea nel suo complesso. Diversamente dai suoi predecessori comunisti, non promuove un’ideologia universalista suscettibile di raccogliere consensi all’interno delle classi sociali dei paesi occidentali. In passato milioni di italiani, francesi, spagnoli, eccetera identificarono i propri interessi politici con quelli geopolitici del governo che sedeva al Cremlino, e questo mise in serie difficoltà l’alleanza politico-militare occidentale. Oggi questo non può più accadere: Mosca presenta la protezione dei russi etnici come il valore che guida la sua politica estera nei confronti dei paesi vicini.
L’alternativa di civiltà che Putin intende promuovere attraverso l’Unione Euroasiatica è centrata sui valori del cristianesimo ortodosso, che nell’Europa occidentale e sud-occidentale è praticamente inesistente. L’unica area dove Russia e Unione Europea potrebbero ancora competere è rappresentata dai Balcani, ma lì tutti i paesi tranne la Bosnia e la Serbia (e il Kosovo e la Macedonia, che non sono sensibili alle sirene russe) hanno già aderito alla Nato, perciò la competizione sarà molto circoscritta.
Putin dunque ha già definito in termini restrittivi l’area su cui la Russia amerebbe esercitare un’egemonia regionale. Dà definitivamente per persa l’Ucraina, e si accontenta delle briciole rappresentate da Crimea e Donbass. Ha annesso la prima, ma non farà lo stesso col secondo. La questione del Donbass deve restare aperta, a costo di vedere aggiungersi altre sanzioni economiche contro la Russia a quelle che America ed Europa hanno già deciso, fino a quando Mosca non otterrà l’obiettivo che le sta più a cuore: l’assicurazione formale che l’Ucraina non entrerà mai a far parte della Nato.
Che i paesi più importanti dell’Unione Europea (Germania, Francia, Italia, Regno Unito) siano disponibili a scendere a patti con la Russia di Putin sulla base di un accordo che vedrebbe Mosca dare semaforo verde all’adesione dell’Ucraina al club di Bruxelles e mettere fine alla destabilizzazione delle regioni orientali del paese in cambio del riconoscimento dell’annessione della Crimea alla Russia e dell’impegno scritto a non fare dell’Ucraina un membro della Nato, è un segreto di Pulcinella.
Fare come i finlandesi
Polacchi, svedesi e baltici possono alzare i toni finché vogliono, invocare il soccorso europeo all’Ucraina aggredita finché vogliono, ma due fatti duri come la pietra sono sotto gli occhi di tutti. Il primo è che i paesi dell’Unione Europea aderenti alla Nato non hanno nessuna intenzione di essere trascinati dentro a un conflitto militare sul territorio europeo, né direttamente inviando truppe a fianco dei governativi ucraini né indirettamente armandoli e fornendo logistica. Per fare la guerra ci vogliono le armi e la voglia di usarle, e all’Europa mancano le une e l’altra. I bilanci militari dei paesi europei della Nato sono in costante diminuzione: ai tempi della Guerra fredda la loro spesa militare equivaleva al 50 per cento di quella totale dell’Alleanza, oggi arriva appena al 25 per cento. Gli Stati Uniti di Obama hanno tagliato i bilanci militari, i paesi europei di più. Solo Grecia, Estonia e Regno Unito spendono più del 2 per cento del Pil per il settore militare, e presto Londra scenderà sotto questo standard, fissato in sede Nato.
Dall’altra parte la Russia conosce altrettanto bene la sua debolezza: non occuperà mai l’Ucraina o un altro paese confinante, anche se Putin ha fatto intendere che sarebbe possibile alle sue forze armate, perché le occupazioni militari sono destinate a fallire, a creare voragini nei bilanci e a consegnare alla damnatio memoriae i politici che le vollero: le lezioni dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan negli anni Ottanta e di quella dell’Iraq ai tempi di Bush nel decennio scorso non sono state dimenticate né a Mosca né a Washington. Tutto quello che Putin ha in mente è di mantenere destabilizzata l’Ucraina orientale, se necessario correndo in soccorso (in incognito) dei secessionisti quando questi si trovano a mal partito, finché Bruxelles e Kiev non si decideranno a intavolare vere trattative con la Russia.
Che ai pesi massimi dell’Europa la prospettiva del compromesso geopolitico non dispiaccia è noto, la vera novità è che apparentemente anche il presidente Poroshenko sta convergendo su questa ipotesi. Resasi conto che Unione Europea e Stati Uniti sono disponibili a un’escalation di sanzioni economiche antirusse ma non a un’escalation militare, la nuova leadership ucraina sembra accedere all’idea della trattativa a tutto campo con Mosca. Dalla quale potrebbe uscire, fra le soluzioni della crisi, quella che il New York Times ha già definito la “finlandizzazione” dell’Ucraina.
Ai tempi della Guerra fredda in Europa c’erano due paesi nei quali, diversamente da quanto avveniva nel blocco comunista, si praticavano l’economia di mercato e la democrazia liberale rappresentativa, ma senza che ciò sfociasse nella loro adesione alla Nato. Questi due paesi erano la Finlandia e l’Austria, militarmente neutrali ed esterni anche all’Unione Europea (vi aderirono nel 1994, a Guerra fredda terminata da cinque anni). La loro perdita di autonomia nella politica estera era largamente compensata dalla onesta rinuncia dei sovietici a perseguire progetti di destabilizzazione dentro ai loro confini. Un beneficio di cui non godettero paesi come l’Italia e la Germania, i cui terroristi di estrema sinistra trovarono sempre complicità nei paesi del Patto di Varsavia.
Auspicare la finlandizzazione dell’Ucraina è il migliore augurio che si possa fare ai rivoluzionari genuini (non quelli di estrema destra) del Maidan di Kiev: in un’Ucraina non più percepita da Mosca come minaccia strategica, potranno sperimentare e sviluppare i “valori europei” per i quali hanno messo in gioco le proprie vite nell’inverno scorso senza temere interferenze russe. Dovranno occuparsi solo delle resistenze interne.