Una svolta per l'Europa
di Franco Cardini - 22/09/2014
Fonte: Franco Cardini
Il risultato del referendum scozzese può piacere o dispiacere, far sognare o deludere, esaltare o spaventare. E magari lasciar indifferenti. Il fatto è che questa è una data storica e che – come si usa dire anche quando non è vero: ma stavolta lo è – nulla ormai sarà più come prima.
Ovviamente, i dati elettorali (e i referendari sono in ciò un po’ dissimili, ma non troppo) come sapete dicono sempre relativamente poco: vanno interpretati. Ma l’interpretazione, necessaria, non risolve affatto le cose. Anzi, semmai le complica. C’era uno spettacolo che, mentre i seggi erano aperti, colpiva sempre gli osservatori: il fatto che, mentre “il popolo degli yes” gridava slogans, agitava bandiere, insomma si comportava come se avesse già vinto (dando sostanzialmente un segno di debolezza, non di forza: si comporta così chi vuol intimidire l’avversario, quindi chi ne ha paura anche se si sente il più forte), i “no” arrivavano rapidi e sparivano alla chetichella, come se si vergognassero della loro scelta. Coscienza in qualche modo sporca di chi sa che gli altri avrebbero ragione, ma poi ci sono la paura del salto nel buio, la questione monetaria, il rischio e la fatica di dover ricominciare da capo con istituzioni tutte o in parte da riformare e magari da reinventare eccetera? O semplice paura, da parte di elettori miti e riservati, delle reazioni violente della “piazza” indipendentista? Le maggioranze, si sa, di solito sono appunto anche silenziose: e nella misura in cui le minoranze sono aggressive. Ma è poi davvero una maggioranza solida e qualificata un 55% contro un 45%?
Anche qui bisogna intenderci. Le forze in presenza, in realtà, non erano proprio due, bensì quasi tre. Se è vero che molti hanno votato “no” pur avendo, a differente livello, una certa simpatia per il “sì”, è non meno vero che il fronte indipendentista era profondamente solcato da una forte discriminante tra i “falchi” che volevano la scissione tout court – verdi e socialisti, uniti anche in un’opzione repubblicana che però, attenzione, nel paese di Robert Bruce, della tradizione stuardista e della Royal Guard non ha la profondità della quale dispone in Irlanda – e le “colombe” dello SNP che non se la sentivano di rompere con la tradizione monarchica e con la queen of the Scots (per quanto essa appartenga all’odiata dinastia degli Hannover) e avevano già annunziato di optare quindi per un regime di stati separati sotto un’unica corona, in regime di “unione personale”. C’erano e sussistono poi le questioni dell’appartenenza al Commonwealth e all’Unione Europea, a proposito delle quali esisteva e sussiste una caleidoscopica mappa di pareri. Insomma, se è lecito dubitare che i votanti non abbiano voluto esprimere una loro ben rotonda e incrollabile fiducia “senza se e senza ma” nel Regno Unito, magari accompagnata da affetto ed entusiasmo, è non meno lecito pensare che lo yes abbia perduto, sia pure di misura, anche perché considerato ambiguo. Sommando i no agli “yes monarchici”, insomma, ci si rende conto che l’indipendentismo scozzese è meno solido e largamente condiviso di quanto non si creda.
Certo, quello scozzese è un caso a sé. Ma quale altro non lo è o non lo sarebbe, in qualunque regione che aspiri a una sua indipendenza e si senta una “nazione”? Dalla Catalogna al Paese Basco in Spagna, alla Bretagna all’Occitania alla Corsica in Francia, alla Sardegna alla Lombardia al Veneto al Tirolo meridionale in Italia, l’Europa è piena di “casi a sé” che tuttavia non possono più ulteriormente venir ignorati.
Accettando l’alea del referendum scozzese, il primo ministro britannico Cameron ha creato un precedente e avviato un meccanismo “a dòmino” che potrebbe diventare irreversibile e dalle conseguenze oggi inimmaginabili. Certo, ha potuto e forse dovuto farlo in quanto la Scozia ha, dal Duecento in poi, una storia di rapporti intensi e contraddittori con l’Inghilterra. Ed è stato agevolato nel decidere dal fatto che il Regno Unito manca di una Costituzione. In Francia, in Spagna e in Italia non è così: per cui, anche se i rispettivi governi rivedessero in qualche modo le loro posizioni – che sono ovviamente contrarie alla istanze indipendentiste all’interno dei loro stati -, essi dovrebbero comunque superare anche ostacoli formali e istituzionali che nella felice Albione non esistono.
Eppure, il precedente così stabilito è importante. Alla luce di esso acquista un nuovo e più interessante valore il “Manifesto di Milano per l’autodeterminazione in Europa” elaborato e diffuso nei giorni scorsi da un “Collettivo Indipendentista Lombardo” che s’indirizza al presidente Maroni (ma ch’è probabilmente stato in realtà ispirato dal destinatario di esso). L’esergo del documento è siglato da una frase di Gianfranco Miglio: “Con il consenso della gente si può fare di tutto: cambiare il governo, sostituire la bandiera, unirsi a un altro paese, formarne uno nuovo”.
Parole sante. Ma non precise. Nessuno meglio di un fine studioso delle istituzioni e della politica come Miglio sapeva che la parola “gente” è bella, ma a livello appunto istituzionale e giuridico non vuol dir nulla: la “gente” può cambiar tutto, nella realtà delle cose, magari con al furia del vento e della lava. Ma finché ci atteniamo a istituzioni e a strumenti ordinari essa può fare qualunque cosa solo a patto di possedere i necessari requisiti: se ad esempio è “popolo sovrano”; e quando lo sia di uno stato che si fonda sull’unità e sull’indivisibilità, le cose si complicano eccome. Oggi, è abbastanza comune che gruppi sociopoliticamente e geopoliticamente compatti e coesi, o che hanno motivi magari storici per ritenersi tali, si denominino “nazioni”. Ma anche questo termine è usato con molta libertà e sovente con arbitraria leggerezza. Oggi una “nazione”, per dirsi tale, non può che sollecitare il riconoscimento del consesso internazionale che le nazioni, appunto, unisce, e alle quali è almeno formalmente e teoricamente in grado di riconoscere personalità e quindi doveri e diritti a livello internazionale.
Il fatto è tuttavia che i movimenti registrati, e non sottovalutabili, in molte regioni storiche della nostra Europa, sono in realtà il sintomo credo inequivocabile di qualcosa di profondo che sta avvenendo. Siamo alla fine dell’era degli “stati nazionali” aperta con la Rivoluzione francese e caratterizzata dalla pretesa ideologicamente giustificata – ma obiettivamente arbitraria – che a ognuna delle “nazioni” del continente (stiamo parlando ovviamente dell’Europa) dovesse essere automaticamente attribuita sovranità politica e che a ciascuna di esse dovesse corrispondere uno specifico stato. Le “nazioni”, a loro volta, erano quelle che politici e philosophes del Settecento avevano elaborato e riconosciuto come tali.
Ora, i due princìpi paralleli e sovente coincidenti (cosa che in geometria sarebbe un ossimoro) della “sovranità di ciascuna nazione” e dell’”autodeterminazione dei popoli”, che hanno dato avvìo in tutta Europa alla follìa nazionalista ora creando nuovi soggetti politici – come il “Secondo Reich” germanico – sulle ceneri di antiche e venerabli realtà micronazionali superate o dimenticate o rinnegate o cancellate -, ora causando la rovina di ben consolidati sistemi statuali plurinazionali come l’impero austriaco poi austrungarico e aprendo così la strada alla rovina fratricida della “guerra dei Trent’Anni” 1914-1945, hanno superato a stento la seconda guerra mondiale, sono stati de facto messi da parte dai trattati di Yalta e hanno finora continuato a vivacchiare all’ombra di quell’Unione Europea che si è rivelata nel tempo ben altra cosa da quella che personaggi come De Gasperi, Adenauer e Schuman speravano fino a ridursi – quale oggi la vediamo – a Eurolandia da una parte, a supporto della NATO dall’altra.
Chi scrive non è né antieuropeista né “euroscettico”. Al contrario, è un europeista convinto. E proprio come tale si rifiuta di gettare le armi. Quello dell’unità europea resta un nobilissimo ideale; e oggi, sul piano politico, un’Europa forte e unita resta una necessità in un mondo nel quale ormai tutto sta venendo rimesso in discussione, lo stesso equilibrio garantito dalla “superpotenza” unilaterale statunitense è tramontato mentre tutto quel che è “pubblico” e “comunitario” viene fatto oggetto d’una forsennata ma anche lucida e pianificata aggressione, allo scopo di cancellare qualunque ostacolo al trionfo delle oligarchie finanziarie ed economiche le quali dominano tecnologia e ricerca scientifica, si muovono verso la concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochi centri privilegiati e intendono ridurre all’impotenza tutto il restante genere umano. Questo, sia chiaro a tutti, è il grande avversario e il tremendo nemico da battere.
L’Europa di Bruxelles e di Strasburgo, l’Europa che stravolgendosi in Eurolandia ci ha consegnato legati mani e piedi alla lobby di finanzieri che gestiscono secondo i loro privati interessi la moneta comune mentre – anche ammesso che sia un gigante economico, come molti ancora affermano – è comunque un nanerottolo politico, un criceto diplomatico e un verme militare (poiché gli eserciti europei, coordinati dalla e nella NATO, sono in realtà controllati dall’ex-superpotenza statunitense e ne eseguono la volontà o la non-volontà politica) è stata, nella più benevola delle ipotesi, una falsa partenza per i nostri orizzonti unitari europeistici. E difatti, in oltre mezzo secolo, non si è creato alcuno spirito identitario europeo, alcuna cultura comunitaria, alcuna coscienza civica nella quale i ventisette paesi dell’Unione possano riconoscersi.
Ripartiamo quindi da zero. L’Europa della convenzione tra stati-nazione e tar i loro governi ha fallito. Ma si può costruire un’Europa “dei popoli”? “Delle nazioni”? “Delle comunità”? Quali “popoli”, quali “nazioni”, quali “comunità”, dal momento che appunto quelle uscite dalla formulazione degli “stati nazionali” (a parte semmai proprio la gran Bretagna, che ha una storia a parte) vengono oggi rimessi in discussione nella loro stessa natura? Quando lo scellerato Woodrow Wilson, nel nome dell’autodeterminazione dei popoli, assoggettò croati, sloveni, bosniaci e montenegrini ai serbi alla faccia dei loro rispettivi e pur conclamati diritti, a quale principio autodeterminativo s’ispirò? Quando si permise alla giovane repubblica turca d’ignorare le istanze indipendentistiche tanto curde quanto armene perché Mustafa Kemal non voleva accedervi e le potenze vincitrici della prima guerra mondiale volevano punire i curdi per essere rimasti fedeli al loro sultano ch’era anche il loro califfo mentre degli armeni praticamente tutti si disinteressarono, a quale principio si obbedì? Quando per far risorgere dalle sue ceneri la Polonia si misero a tacere le voci nazionali di galiziani, ruteni e podolici, o creando ilmostriciattolo cecoslovacco si passò sopra ai diritti dei moravi e dei tedeschi dei Sudeti, a quale principio di autodeterminazione dei popoli ci s’ispirò? Eppure, quando si proclamò che la nazione italiana – la quale culturalmente è antichissima, quanto al sua autocoscienza, ma politicamente era divisa in differenti stati - doveva per forza diventare “una e indivisibile” a somiglianza della Francia del Novantadue, e in forza di ciò si negò dignità a stati che a loro volta disponevano di lunga tradizione, autocoscienza istituzionale, consenso popolare oltre che di una configurazione istituzionale solida – e un Gioberti, un Cattaneo, avevano loro riconosciuto tutto ciò e ne avevano tenuto conto nei loro progetti federali -, non si calpestarono forse realtà storiche e diritti acquisiti e riconosciuti nel nome di un apriori ideologico?
Nel crepuscolo degli “stati nazionali” ormai rimessi in definitiva e presumibilmente irreversibile discussione, la pretesa di servirsene ancora per fondare sulle loro esclusive basi una solida unità continentale europea appare ormai inadeguata politicamente e superata storicamente. Bisogna inventarsi un’Europa diversa, che si doti di un governo federale o – forse più coerentemente con la sua storia - confederale che sia, al quale cedere effettivamente quanta sovranità sia necessaria per farlo funzionare (non la sovranità che tacitamente abbiamo ceduto agli USA e alla NATO consentendo loro di impiantare decine di basi militari sui nostri territori che servono non solo alla sua politica aggressiva, ma anche a controllarci) partendo da una base che non sia più, o che non sia più esclusivamente, lo stato-nazione.
D’altronde, non possiamo però nemmeno tacere i pericoli di un trend di questo tipo. Dalla Lombardia alle Isole Shetland, l’indipendenza di nuove “nazioni” e di nuovi più o meno piccoli “stati-nazione” indipendenti da quelli che la storia ha fagocitato nel tempo fa gola agli aspiranti cittadini di essi anche perché in questo modo si pensa che le ricchezze o le risorse proprie, anziché finir a sostenere le aree più povere dell’area governata dallo stato dal quale ci si vuol liberare o nel quale ci si sente a disagio ad appartenere, resteranno nelle tasche dei nuovi soggetti politici. La Scozia, impoverita e in crisi economica, non aspira certo primariamente a ciò. Ma la ricca Lombardia nei confronti dell’Italia lo vorrebbe; come un quarto di secolo fa lo voleva la Croazia nei confronti della Yugoslavia; e così lo vorrebbe la Catalogna nei confronti della Spagna. Ma attenzione alla ricchezza non accompagnata da solide istituzioni politiche. Noi non viviamo solo il tempo dell’eclisse dello “stato-nazione”, bensì anche quello dell’eclisse dello stato tout court. Nato come realtà assoluta, vale a dire superiorem non recognoscens verso l’alto e teso alla cancellazione dei “corpi intermedi” verso il basso in modo da ridurre gli individui alla nudità e all’impotenza nei confronti del suo volere, oggi lo stato – nemesi storica? – si vede a sua volta confinato al livello di “corpo intermedio”, esattamente come quelle corporazioni o confraternite distrutte nel XVIII secolo dallo stato moderno che intendeva dar l’impressione al suddito (poi promosso cittadino) di liberarlo, mentre lo sottoponeva in realtà al suo arbitrio. Oggi, il trend liberal-liberistico vorrebbe “liberarci” dallo scomodo “corpo intermedio” che è lo stato: specie da quel costosissimo ingombro che è il welfare state, in modo da sottoporci meglio all’intensivo sfruttamento di apposite società di vampiri specie nei campi dell’istruzione, della salute, della sicurezza e dei trasporti (cioè esattamente in quegli àmbiti che lo stato moderno stesso riteneva in genere, sia pure con molte variabili, suo esclusivo monopolio da gestire pubblicamente per la salvaguardia di tutti, in modo da salvaguardare a ciascuno, a cominciare dai più fragili, un minimo indispensabile di libertà e di dignità: si pensi allo stesso capitolo 34 della Carta europea, là dove si parla del diritto a “un’esistenza dignitosa”.
In ciò, una volta soddisfatti i voti che i vari padroni “del vapore” e delle “ferriere” auspicano nei nostri confronti (e già la progressiva cancellazione dei diritti dei lavoratori con l’alibi della “ripresa” e della “flessibilità” ha azzerato le conquista sociali di un secolo e mezzo e sta facendoci regredire verso i tempi del “sciur parùn” e del capitalismo selvaggio), noi cittadini saremmo finalmente liberi di contrattare con le lobbies il nostro presente e il nostro futuro, il costo del nostro lavoro e dell’istruzione dei nostri figli, la nostra salute e la nostra sicurezza. In altri termini, saremmo schiavi del turbocapitalismo e dei suoi padroni. E attenti, voi che sognate il “piccolo-è-bello” di futuri stati che per adesso sono solo regioni o macroregioni. Magari la conseguita indipendenza vi renderà la piena disponibilità della ricchezza che producete e che ora va a coprire deficit e bisogni che non sono vostri, ma chi vi salverà dallo sfruttamento intensivo di quanti, approfittando della vostra limitata entità demografica e territoriale, vi si precipiterà addosso per vendervi tecnologia soprattutto nei campi della sicurezza e della salute?
Insomma, siamo davanti a una scelta. O continuare con quest’Unione Europea burocratica, rapace, “austera” a danno dei popoli e a beneficio di banche e di lobbies o cominciare a cambiarla. Il rovesciarla sarebbe impossibile se non in coincidenza con una crisi generale di portata tale da non augurare a nessuno. Non resta che modificarla gradualmente ma progressivamente e razionalmente: dare anzitutto voce istituzionale alle presenze, alle istanze e alle tradizioni popolari (per esempio: come diceva il grande Franz-Joseph Strauss, creare in Germania ch’è già un paese federale serio le condizioni affinché, a livello non già storico bensì politico, economico e fiscale, essere bavarese sia per i bavaresi più decisivo e importante che essere tedesco); recuperare quanto più sia possibile storia, idiomi e tradizioni locali e regionali nella convinzione che l’autentica unità europea si attua non nel grigiore dell’omologazione giacobina bensì nell’orgogliosa, consapevole tutela di tutte le diversità; proporre istituzioni comunitarie che siano in grado di dar voce, nel campo propriamente legislativo ed esecutivo, a forze non più racchiuse nella camicia di forza dei vecchi stati nazionali; favorire all’interno dei partiti e delle istituzioni politiche un’autentica circolazione di idee e di persone in grado di far sì che tutta l’Europa sia presente a livello di autocoscienza e d’informazione a ciascun europeo, consentendogli di restare se stesso e al tempo stesso di acquisire una prospettiva continentale.
L’Europa è una “patria”. Ma anche questa parola, in italiano, è ambigua. Per esprimere in modo adeguato quel ch’essa significa, in tedesco esistono tre parole: Heimat, il “focolare intimo e segreto”, che per ciascuno di noi è nemmeno la sua città (se essa è troppo grande) ma addirittura il quartiere, il villaggio, la famiglia, con il suo argot, il suo “lessico familiare”, le sue consuetudini; Vaterland, la patria corrispondente al popolo-nazione al quale ciascuno di noi si sente collegato sul piano storico, civile e istituzionale; Grossvaterland, la grande realtà sovranazionale che sintetizza il “minimo denominatore comune” nel quale un certo numero di “comunità”, “popoli” e “nazioni” possano riconoscersi e alla luce del quale sia possibile progettare istituzioni comunitarie e vita sociale condivisibili. Per quanto mi riguarda, il mio Heimat è certo la Toscana, ma forse addirittura la sola Firenze o il “rione” d’Oltrarno nel quale sono nato; il mio Vaterland è l’Italia, per quanto ritenga che l’unitarismo centralistico scelto tra 1859 e 1870 per unificarne le istituzioni sia stato contrario alla realtà policentrica della sua storia e sia quindi corretto cercar di sostituirlo con istituzioni federali; il mio Grossvaterland è l’Europa, un termine che fino a circa la metà del Seicento è servito solo a connotare un “continente”, una delle tre parti nelle quali i geografi greci e quindi latini suddividevano le terre emerse, ma che gradualmente tra IX e v secolo circa si è andata affermando anzitutto come centro della Cristianità occidentale (primo nucleo del quale era quindi la pars occidentis nella quale l’imperatore Teodosio aveva alla fine del IV secolo organizzato l’unità amministrativa retta da un imperatore e destinata a quella parte del mondo circummediterraneo romano che gravitava sulla penisola italica e sul bacino ovest del mare nostrum, e dove la koinè permanente era più latina che greca), poi identificato – specie dagli umanisti del Quattrocento, in contrapposizione all’Asia anteriore dominata dagli ottomani – come il continente cristiano per eccellenza e per definizione (il Christeneit oder Europa di Novalis), infine – con i trattati di Westfalia e dei Piorenei del 1648-59, mentre sotto i colpi della Riforma, della Controriforma e di quella ch’è stata definita la “crisi della coscienza europea” e l’avvìo del processo di secolarizzazione – Europa tout court, territorio nel quale dopo il macello della guerra dei Trent’Anni doveva vigere quella che John Locke aveva definito mutua inter christianos tolerantia. Alla fine del XX secolo, caduto il Sipario di Ferro, quella realtà storica che dal 1945 in poi si era agevolmente adattata al diktat delle grandi potenze che la limitavano al “mondo libero” occidentale, contrapposto al blocco di altri paesi non meno europei (sapete concepire un’Europa Berlino, senza Praga, senza Cracovia?) ma fin lì obbligati ad afferire al “blocco socialista” incardinato sul Patto di varsavia, dovette ridefinirsi secondo quelli che papa Giovanni Paolo II chiamava “i due polmoni d’Europa”, tra l’altro tenendo conto della pur problematica eredità ortodosso-bizantina comunemente accettata da greci e da slavi.
La falsa Europa nata circa settant’anni fa da iniziative a carattere soprattutto economiche non è mai riuscita, se non a causa di approssimazioni e di malintesi, a divenire una realtà civica effettiva e condivisa. La sua sovranità militare, quella che si era proposto di cerare con la Comunità Europea di Difesa (CED), è fallita: al suo posto le forze militari europee sono inquadrate nella NATO, vale a dire egemonizzate da una potenza straniera: ciò fa dell’Europa, con qualche mezza eccezione per Francia e Inghilterra, un continente gli stati del quale sono privi di sovranità militare (pertanto anche diplomatica e indirettamente politica) e soggetti a un controllo capillare che di fatto equivale a un’occupazione.
Salvo un vero e proprio cataclisma politico internazionale, sarà cosa ardua e lunga riuscir a rimuovere questa realtà sostituendola con una più dignitosa e decorosa per noi. La strada sarà lunga: ma il primo passo da fare, ancora lontano, consiste nel radicare nei cittadini europei la consapevolezza di come oggi stiano le cose e di farla divenire di pubblico dominio, oggetto di quotidiana discussione a livello di media. Ed è dalla scuola e dall’insegnamento della storia che bisogna cominciare: se lo avessimo fatto negli Anni Cinquanta, allorché le prime istituzioni comunitarie furono varate, adesso avremmo mezzo miliardo di cittadini coscienti della loro situazione e dei loro problemi.
Giacché così non è stato, occorre ricominciare da subito, partendo da zero. L’Europa-Modernità, l’Europa-Occidente, ha decollato nel secolo XVI esattamente da quando, con la Riforma, si avviava il suo processo di secolarizzazione: e la sua storia è stata quella del progressivo dominio degli altri continenti, della progressiva globalizzazione. Tale lunga fase, durata mezzo millennio, è durata fino ad oggi, e negli ultimi decenni è stata gestita dagli Stati Uniti d’America. Oggi il trend va invertendosi: e i popoli degli altri continenti, magari a loro volta occidentalizzati oppure tornati alle loro tardizioni o a qualcosa che somiglia loro ma che è inquinato da un selvaggio senso di rivincita (lo “jihadismo” musulmano, per esempio) ci assediano chiedendoci conto della nostre egemonia e pretendendo risarcimento per l’egemonia che troppo a lungo abbiamo esercitato nei loro confronti.
Non hanno ragione. Hanno però molte ragioni, delle quali non dobbiamo non tener conto. Nei loro confronti, l’Europa – ch’è ormai altra cosa rispetto all’Occidente individualista e turbocapitalista figlio dell’americanizzazione e delle lobbies – deve con pacata e consapevole fierezza rivendicare la pars costruens del messaggio che essa, sia pur inquinandolo con la prepotenza colonialista ch’era rispetto ad esso in contraddizione, aveva loro trasmesso: il messaggio nato e cresciuto all’interno della sia pur imperfetta sequenza cristianesimo-umanesimo-illuminismo. Il messaggio del grande umanesimo del De pace fidei, del De hominis dignitate, della Querela pacis. Il messaggio di Nicola Cusano, di Erasmo da Rotterdam, di Tommaso Moro. Il messaggio dell’eccellenza, della libertà e della dignità del genere umano. I ragazzi della nuova Europa, di quella che nonostante la fatiscente costruzione “europeistica” di oggi o, domani, sulle rovine di essa, dobbiamo da subito cominciare a costruire poggia su questa grande “eredità immateriale” della quale dobbiamo diventar consapevoli. La nuova Europa, liberatasi dalla grettezza delle storie nazionali e dal vecchiume postnazionalistico ancor oggi malinconicamente residuale (come si vede ormai nella già avviate “celebrazioni” dell’annus terribilis 1914), dovrà considerare parte perspicua dei suoi valori il messaggio di fratellanza e di solidarietà che scaturisce non già dal cosmopolitismo, bensì dall’universalismo dell’incontro tra Verbo cristiano, istituzioni giuridiche romane e dinamiche acculturative delle gentes “barbariche” – celtiche, greco-illiriche, germaniche, slave, baltiche uraloaltaiche, arabo-berbere - le quali, dalla Tarda Romanità alla fine del medioevo hanno contribuito alla costruzione di una civiltà nella quale il solidarismo interno, lo spirito di ricerca e di avventura e l’affettuosa, cordiale curiosità per “l’Altro-da-Sé” hanno fondato costituivano i segni caratteristici, i caratteri originali e la sostanza più intima.
Tale eredità è stata senza dubbio trasmessa agli altri popoli e agli altri continenti inquinata dalla violenza della conquista e dall’egoismo della volontà di potenza, ma ciò non ne cancella l’originario significato altamente positivo. Alla luce di tutto ciò, e nel dialogo proficuo del resto del mondo che ha bisogno di ritrovare un centro equilibratore della sua esistenza, è necessario costruire una nuova Europa libera, comunitaria, solidale, che non venga meno ai suoi ideali e alle sue tradizioni (incluso il dovere di solidarietà e di assistenza per i più deboli, da qualunque parte del mondo provengano) e che al tempo stesso imponga rispetto.
Dalla primitiva fondazione di quelli che avrebbero dovuto essere gli Stati Uniti d’Europa che sembravano attuare un’antica suggestione kantiana sono passati quasi settant’anni. E sono passati praticamente invano: è stato un tempo perduto, perché abbiamo pensato ad arricchirci ma non a creare autentici cittadini europei (e abbiamo fallito anche sul piano dell’arricchimento). E’ tempo d’invertire la rotta e di riprendere da zero il cammino iniziato. Dai giovanissimi, dalla scuola, da quel che avrebbe dovuto fare il Progetto Erasmus che a sua volta è stato di recente tradito e stravolto nell’ennesimo carrozzone a esclusivo vantaggio delle banche. Ci vorrà tempo: e chissà se ne abbiamo abbastanza. Eppure, non c’è alternativa.