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I pericoli della “Überscienza”

di Marco Zonetti - 30/09/2014

Fonte: Arianna editrice

 

 

Nel momento in cui fu prodotta la scissione dell’atomo dell’uranio in laboratorio, gli scienziati artefici di questo evento epocale potevano sospettare che, di lì a qualche anno, il fungo della bomba atomica sarebbe divenuto tragico esempio della follia umana? Nella gioia immediata di aver portato l’uomo in reami fino ad allora esplorati soltanto con gli occhi della mente, quegli scienziati potevano anche solo sospettare l’orrore che sarebbe seguito alla loro scoperta?

Oggigiorno, se la scienza e la tecnica, in molti casi, agiscono a favore dell’uomo, rivelano sempre più una propria sfaccettatura inquietante che invece denota una spasmodica corsa a lasciarsi alle spalle l’uomo stesso e ad addentrarsi in ciò che, un tempo, era appannaggio soltanto dei sogni più selvaggi. E spaventosi.

I romanzi distopici come “1984”, “Brave new World” e il suo sequel, ma anche la più recente trilogia di “MaddAddam” della canadese Margaret Atwood più volte candidata al premio Nobel – Jünger aveva sottolineato nel suo mirabile “Al muro del tempo” che il “poeta” fosse il più puro interprete della realtà – ci hanno fornito – in anticipo sui tempi, per l’appunto – una visione apocalittica delle derive di quella che io definirei personalmente - coniando un nuovo termine - la überscienza.

Rifacendomi anche alla dissertazione di Hannah Arendt nel suo brevissimo e magistrale saggio “La conquista dello spazio e la statura dell’uomo”, lo scienziato – anch’egli uomo e quindi legato kantianamente alle proprie “categorie” umane di approccio alla realtà circostante – pare lavorare e manovrare sempre più sospinto dall’insano desiderio di “scoprire” tout court, di “innovare” tout court, di “avventurarsi oltre” tout court senza curarsi della destinazione finale.

Il tutto, nell’inquietante corsa a distaccarsi sempre di più dalla propria umanità, per avvicinarsi a una sorta di chimera demiurgica di manipolazione – e in ultima analisi – di creazione della realtà.

In una delle sue ultime interviste, Indro Montanelli tuonava contro il precipitoso scapicollarsi verso un futuro non importa quale nel totale sprezzo del passato e scavalcando a piè pari il presente, con le sue paurose profezie di sciagura che esso comunica a chi sa – e vuole – interpretarle.  La scienza e la tecnica, nella loro eterna gara contro se stesse, sembrano volersi lasciare alle spalle anche il fisiologico limite umano – ben dimostrato dal principio di indeterminazione di Heisenberg – arrivando financo a sostituirsi a Dio nel manipolare l’essenza stessa della vita, il DNA.

La manipolazione genetica, l’intervento esterno nella fecondazione e nella riproduzione, l’alterazione in laboratorio dello stesso “mistero dell’esistenza umana” nella totale noncuranza degli oggetti di tali sofisticazioni tecniche, ovvero ignari e indifesi esseri umani in nuce, dimostrano in maniera inquietante la brama di varcare ogni barriera eticamente – e umanamente - lecita per raggiungere una sorta di stato di divinità simile, spaventosamente simile, a quello che perseguivano i personaggi dei miti greci, immancabilmente puniti per la loro Hýbris. Oggigiorno la scienza e la tecnica sembrano, infatti, aver inforcato le ali di Icaro e spiccato il volo verso l’abbacinante sole della prosopopea di poter soddisfare ogni capriccio.

Ma nei miti greci mancava un aspetto da non sottovalutare: quello prosaicamente economico.

Nel suo primo lavoro in una serie televisiva, Steven Spielberg raccontò la storia di una donna cieca e facoltosa che ricatta un medico affinché questi compia su di lei un’operazione che le ridarà la vista per poche ore soltanto. Il tutto, sfruttando il dramma di un poveretto indebitato fino al collo e disposto, per poco denaro, a donarle i propri occhi. L’operazione riesce perfettamente, ma il caso vuole che, nelle brevi ore di vista ritrovata, la città sprofondi in un generale black-out che rende la donna – a tutti gli effetti – di nuovo cieca. Quando, alle prime ore del mattino, spunta il sole, la donna vede l’alba per la prima volta e, mentre torna progressivamente alla cecità, nell’alba che svanisce pian piano di fronte ai suoi occhi strappati a un altro grazie al vil denaro e alla connivenza della tecnica, tenderà la mano verso quella luce mielata precipitando dal grattacielo nel quale vive e schiantandosi al suolo.

Il fatto che qualcosa possa effettivamente attuarsi grazie alla tecnica, sembra dirci questa parabola raccontata da Spielberg, non significa necessariamente che sia eticamente corretto. E ciò che non è eticamente corretto può solo portare alla caduta mortale come nel caso di Icaro e della protagonista di cui sopra (non è un caso che sia cieca e per giunta ricca, peraltro).

La tecnica, spesso al servizio dei capricci del denaro e degli interessi di categorie politicamente influenti, e l’agire degli scienziati che non esitano a sostituirsi a Dio arrivando addirittura a manipolare e alterare il nocciolo dell’umanità stessa trascurando proditoriamente i loro connotati (e limiti) umani, non possono che rammentarci l’immagine del fungo della bomba atomica che si staglia all’orizzonte evocata all’inizio, in cui brucia – come  le ali di Icaro – l’uomo stesso e il suo mistero, illuminando le rovine desolate di una realtà spaventosa in cui gli innocenti – anche i bambini non ancora nati, e quindi lo stesso futuro tanto agognato e ricercato dalla “Überscienza” – vengono sacrificati sull’altare di chi vuole farsi divinità… quando invece, molto spesso, l’unico Dio coinvolto direttamente in questo processo è, molto prosaicamente, il “Dio denaro”.