Dall'Iraq alla Palestina
di Franco Cardini - Giorgio Da Gai - 30/09/2014
Fonte: Eurasia
Per capire il presente bisogna conoscere il passato.
Per capire il presente bisogna conoscere il passato. Questo vale anche per il Medio Oriente, una regione resa instabile: dal fanatismo islamista, dal neocolonialismo occidentale e dall’irrisolta questione palestinese. In questa intervista fatta in luglio a San Marino, lo storico Franco Cardini ci spiega le ragioni di conflitti nati nel secolo scorso e che l’attuale situazione geopolitica ha inasprito.
Da Gai. L’attuale situazione irachena non è solo il frutto della fallimentare politica statunitense ma anche di un’insensata politica coloniale del secolo scorso. In Asia e in Africa, gli inglesi unirono in un unico “Stato” popoli diversi e in conflitto tra loro. Anche in Europa l’errore fu ripetuto con la moderna Jugoslavia e tutti sappiamo come andò a finire. I “nodi” arrivano al “pettine” è questo che insegna la storia?
Cardini. In parte sì e il suo riferimento agli errori del colonialismo cade a proposito. L’Iraq come altri Stati moderni dell’Asia e dell’Africa, furono creati dalle potenze coloniali europee, in modo arbitrario e insensato, senza tenere conto delle diverse parti etniche e religiose e degli eventuali conflitti che potevano sorgere.
All’inizio del Novecento la Gran Bretagna e la Francia avevano come obiettivo quello di sollevare gli arabi contro i turchi (nemici dell’Inghilterra, della Francia e della Russia e alleati dell’Impero asburgico e della Germania) con la promessa di una grande patria araba unita e indipendente governato da una dinastia locale che unisse tutte le genti arabe dalla Siria e dalla Mesopotamia fino alla penisola arabica e all’Egitto.
Con l’appoggio dei francesi e soprattutto inglesi, nel 1916 il “custode dei Luoghi Santi”, lo sharif (con tale titolo, che letteralmente significa “nobile”, si qualificano i membri delle famiglie discendenti dal Profeta) Hussein ibn Ali della dinastia degli hashemiti diede vita alla “rivolta del deserto” (1916 – 1918) e riuscì a sconfiggere le truppe ottomane. La lotta di liberazione araba dal gioco turco sarà raccontata dal colonnello inglese Thomas E. Lawrence, (Lawrence d’Arabia) nel libro: “I sette pilastri della saggezza”.
Gli accordi franco-inglesi di “Sykes-Picot” (1916) non tennero alcun conto delle promesse fatte allo sharif Hussein e stabilirono che alla fine della guerra il Vicino Oriente sarebbe stato ripartito in due distinte zone d’influenza: Al Regno Unito fu assegnato il controllo delle zone comprendenti approssimativamente la Giordania, l’Iraq e una piccola area intorno ad Haifa. Alla Francia fu assegnato il controllo della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria e il Libano, mentre l’Arabia sarebbe divenuta una monarchia sotto la famiglia wahabita dei sauditi.
Il trattato di Sanremo dell’aprile 1920 confermava gli accordi “Sykes-Picot” e avviava una serie di complesse manovre diplomatiche che avrebbero assegnato la Palestina a un “mandato” britannico e dalle quali sarebbe nato il moderno Iraq, un”papocchio” creato dagli inglesi sulle ceneri dell’Impero ottomano, unendo in uno stesso “Stato”, “nazioni” diverse tra loro (curdi, sciiti e sunniti). Dopo il 1945, anno dell’indipendenza, a impedirne la disgregazione furono i regimi militari, come quello di Saddam Hussein. Quest’ultimo era senza dubbio una dittatura, ma come tutti i regimi baathisti (una sintesi di socialismo e di nazionalismo arabo N.d.A.) aveva il merito di assicurare alla popolazione condizioni di vita dignitose, garantiva la libertà di fede religiosa e impediva che il Paese scivolasse nell’anarchia o divenisse ostaggio del fanatismo islamista. L’invasione statunitense (marzo – maggio 2003) fece cadere il regime di Saddam e il Paese divenne vittima dell’anarchia e del fanatismo religioso.
L’Iraq, Paese a maggioranza sunnita è governato da un esecutivo di sciita, (governo Nuri al Maliki) filo-iraniano, ma ostile alla guerriglia sunnita, composta dai fedeli del deposto dittatore e dai movimenti jihaidisti. Gli Stati Uniti appoggiano l’attuale governo sciita, perché non mette in discussione i loro interessi in Iraq, un Paese geograficamente strategico: sia per le riserve petrolifere, sia per la posizione geografica (le basi militari per controllare l’Asia centrale e il Golfo Persico). I curdi, forti dell’appoggio statunitense e delle risorse petrolifere presenti nel loro territorio, hanno approfittato della situazione d’instabilità che si è venuta a creare, per costituire un proprio Stato, indipendente, di fatto, anche se non di diritto.
Da Gai. L’opinione pubblica internazionale è stata colta di sorpresa dal successo militare degli islamisti in Iraq, che ora possono contare su un loro “Stato”, il califfato dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, (ISIL) I governi dell’Arabia Saudita e del Qatar, sono i principali sostenitori del terrorismo islamista e dei movimenti islamisti, dai Fratelli Mussulmani (Qatar) ai Salafiti (Arabia Saudita). Il fine di dette organizzazioni e movimenti è imporre un modello di Islam dispotico e dogmatico, di modello wahabita. Gli Stati Uniti insieme a Gran Bretagna e Francia, appoggiano le monarchie del Golfo Persico per ragioni di ordine politico ed economico; utilizzavano il terrorismo islamista di matrice sunnita, per abbattere le nazioni che ostacolano i loro interessi geopolitici ed economici (Libia, Siria, Iran, ecc.). Quali sono le sue considerazioni?
Cardini. La notizia della “restaurazione del califfato” nell’area di confine tra Siria e Iraq, da parte dei cosiddetti mujahidin (guerrieri impegnati in uno sforzo gradito a Dio) quelli che di solito i media definiscono i “jihadisti”, dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire “l’umma”, la comunità musulmana nel suo complesso. Il sedicente califfo, dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha rilevato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “democrazia” e gli altri “pseudo valori” che l’Occidente proclama.
Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e la Turchia per la Siria, hanno pesanti responsabilità nella nascita del “califfato” e nella diffusione del terrorismo jihadista in generale. Questi Paesi: isolando l’Iran, eliminando Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia e cercando di abbattere Assad in Siria, hanno di fatto favorito l’ascesa degli gli islamisti, che forti del sostegno delle ricche monarchie del Golfo, trovano pochi ostacoli alla loro avanzata.
Arabia Saudita e Qatar pur sostenendo i terroristi dell’ISIL non prendono sul serio la creazione del Califfato e del loro sedicente califfo, le ragioni sono facilmente intuibili: il Califfato fa riferimento a una realtà storica, forse irripetibile viste le profonde divisioni che l’Islam; inoltre, l’autorità politica e religiosa del nuovo califfo, non è riconosciuta dall’intero mondo sunnita.
Da Gai. Sciiti contro Sunniti, una guerra di religione per noi difficile da comprendere, ma ancora attuale, potrebbe riassumere brevemente l’origine di tale conflitto?
Cardini. In Iraq e in tutto il Medio Oriente, è in atto uno scontro tra le due principali correnti dell’Islam, gli sciiti e i sunniti. Uno scontro dove forti interessi politici ed economici si legano ad antiche divisioni etniche e religiose (arabi contro curdi, sciiti contro sunniti, la persecuzione dei cristiani caldei, arabi contro persiani). L’aspetto etnico – religioso è spesso sottovaluto in Occidente dove prevalgono, materialismo e utilitarismo; ma nel mondo arabo-mussulmano, le divisioni etnico – religiose sono state e sono ancora il motore della storia, e lo erano anche in Europa fino al secolo scorso: pensiamo al ruolo della religione nel Medioevo o il mito della “razza” e della “nazione” nell’Ottocento e nel Novecento.
L’Islam come il Cristianesimo è caratterizzato da profonde divisioni, la principale è quella tra sciiti e sunniti. Nel 632, alla morte del Profeta che per un decennio aveva guidato gli arabi convertiti all’Islam secondo modalità di capo di un consiglio federale di tribù, in termini che ricordano molto quelli del governo di Mosè descritto nell’Esodo, i suoi compagni stabilirono di eleggere un “khalîfa”, cioè un successore alla guida dell’umma, la comunità musulmana. Il califfo raccoglieva in sé i poteri esecutivi e giudiziari: non quelli legislativi, poiché la legge nell’Islam riposa sull’insegnamento coranico. L’elezione di questa guida politica e spirituale non impedì il sorgere di conflitti e di divisioni culminati con la scissione di Ali, cugino e genero del Profeta, che fondò la shî’a, il “partito”. Nacque così lo sciismo, la “confessione” dell’Islam che si oppose a quella ortodossa, detta “sunnita” (da sunna, “regola”, condotta”).
I sunniti riconoscono come fonti canoniche della fede sia il Corano sia la somma dei detti e dei fatti del Profeta tramandati in raccolte, detti “hadith”, gli sciiti accettano solo il Corano al quale nel tempo hanno aggiunto gli insegnamenti dei loro îmam (guide carismatiche), da Ali stesso in poi.
Da Gai. La Palestina è un altro fronte caldo, un conflitto che ha radici lontane e la storia recente ha aggravato la situazione. Da un lato Hamas, che ha costruito nelle zone controllate, una città sotterranea (depositi di armi e di munizioni, ospedali, rifugi, postazioni di fuoco, tunnel di collegamento con l’Egitto o gli insediamenti ebraici) che utilizza per colpire Israele, usando la popolazione palestinese come scudo; dall’altro Israele, che risponde all’offensiva di Hamas con tutto il suo potenziale distruttivo e le conseguenze si vedono, oltre milleseicento morti tra i palestinesi, in maggioranza civili.
Cardini. La radice della crisi israeliano-palestinese sta nella questione sionista. Nel 1862 il rabbino Zevì Hirsch Kalischer costituì un movimento politico-religioso che concepiva la restaurazione messianica (una patria per il popolo ebraico), non come un evento esclusivamente miracoloso, affidato alla volontà divina; ma anche come un evento politico, affidato alla volontà del popolo ebraico, alla sua lotta e alla sua determinazione. Gli ebrei dispersi in tutto il mondo dovevano rientrare in quella che fu la Terra Promessa, cioè in Palestina, (Eretz Israel per gli ebrei).
I primi pionieri ebrei in Palestina furono accolti in genere abbastanza bene. Tuttavia già dal 1891 i notabili arabi del Paese avevano rivolto al governo ottomano un appello affinché impedisse agli ebrei un ingresso indiscriminato e il conseguente acquisto di terre. La Palestina non era una terra “disabitata” per gente senza terra, ma una terra abitata e i suoi abitanti (gli arabi) non volevano cederla ai nuovi venuti.
Nel 1918, gli inglesi presero il controllo della Palestina, che l’impero ottomano aveva conquistato nel 1517 sconfiggendo i mamelucchi, e s’impegnarono a crearvi una patria per gli Ebrei. Questo impegno fu ratificato dal mandato che la Gran Bretagna ricevette nel 1922 dalla Società delle Nazioni.
Gli inglesi non tennero fede alla loro promessa e in Palestina la situazione divenne sempre più difficile da controllare: negli Anni Venti iniziarono gli scontri tra arabi e ebrei e quest’ultimi si organizzarono in formazioni paramilitari (l’Arghun e la Banda Stern) colpendo indistintamente arabi e inglesi; dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’afflusso di ebrei in Palestina cresceva di giorno in giorno.
Il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò un piano che suggeriva la spartizione della Palestina e la fondazione di due stati distinti (uno ebraico e l’altro arabo), destinando la città di Gerusalemme e i luoghi santi a un’amministrazione internazionale. I Paesi arabi rifiutarono tale soluzione che avrebbe impedito l’emergere di un conflitto non ancora concluso.
Nel 1948, l’Inghilterra rinunziò al mandato e in conseguenza di questo vuoto di potere, il 14 maggio del 1948 il Consiglio Nazionale Ebraico in Palestina proclamò la nascita dello Stato d’Israele. La Lega Araba attaccò Israele con il fine di cancellare il nuovo Stato, ma gli israeliani vinsero la guerra (grazie all’appoggio delle loro potenti lobby e alla disperazione di un popolo che lottava per evitare un nuovo “Olocausto” N.d.A.). Con la vittoria israeliana iniziò l’esodo di massa dei palestinesi dalla loro terra, proseguito anche negli anni successivi. Quasi 800.000 palestinesi lasciarono le loro case e furono costretti a rifugiarsi nei Paesi arabi vicini; tra questi “esiliati”, nel 1964 nacque l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat.
Nel 1967, con la guerra dei sei giorni, Israele si impossessò della Cisgiordania e di Gaza, le parti della Palestina che il piano ONU del 1947 aveva destinato alla creazione di uno stato palestinese. L’area conquistata sarà denominata “Territori occupati” e Israele per consolidarne la conquista, impiegherà i propri cittadini in una massiccia opera colonizzazione.
Il problema del ritorno degli arabi allora cacciati o dei loro discendenti, oppure del risarcimento delle terre e dei beni da essi abbandonati dal 1948, sta alla base delle attuali difficoltà nel raggiungere una pace soddisfacente. Una pace resa difficile: dalle provocazioni e dagli atti di efferata violenza, compiuti da ambo; dall’indifferenza del mondo arabo verso il dramma palestinese. Per risolvere il problema palestinese, sarebbe bastato che la ricca e poco popolosa Arabia Saudita, avesse offerto ai palestinesi della “diaspora”, una parte minima del suo deserto, dotandolo delle moderne tecniche d’irrigazione.
Con l’ingresso di Hamas la causa palestinese si è andata progressivamente musulmanizzando: con il risultato di pressioni e di persecuzioni ai danni dei cristiani palestinesi, che sempre più si sentono a doppio titolo stranieri nella loro patria: come arabi cacciati o discriminati dagli israeliani e come cristiani considerati dai loro compatrioti musulmani sospetti perché i fedeli di Cristo vengono sempre più guardati, nel mondo orientale, come filo-occidentali. Una tragedia nella tragedia, che rischia di mettere in crisi la sopravvivenza dell’antica cristianità araba.
Le vittime civili dell’offensiva israeliana sono la conseguenza della tattica di Hamas che spesso si fa scudo dei civili per lanciare i suoi attacchi allo Stato israeliano e alle sue truppe. Lo scopo è di costringere Israele a una risposta molto dura che crei numerose vittime tra la popolazione palestinese, in questo modo l’indignazione del mondo arabo e dell’opinione pubblica internazionale dovrebbe rimettere in moto la questione palestinese.
La risposta israeliana è sproporzionata: i razzi di Hamas, che il sistema missilistico israeliano facilmente neutralizza, non possono essere paragonati ai bombardamenti israeliani, che fanno strage tra la popolazione palestinese; non a caso, il numero di vittime palestinesi supera di molto quelle israeliane e tra le prime la maggioranza sono civili, bambini in particolare. I governi e l’opinione pubblica di Stati Uniti ed Europa, tollerano il comportamento di Israele per vari motivi: Israele è il più fedele alleato degli Stati Uniti nella regione, la lobby israeliana è molto forte in America e gli europei provano ancora un enorme senso di colpa per l’Olocausto. Senza il dramma della “Shoah”: forse Israele nemmeno esisterebbe e i crimini compiuti da quest’ultimo verso i palestinesi, desterebbero l’indignazione dell’intera comunità internazionale.