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Fuga dall’eterno presente per ritrovare la speranza

di Marcello Veneziani - 19/11/2014

Fonte: Il Giornale

Marcello Veneziani


Il domani non genera sogni ma soltanto paura. E pare che la società tecnocratica sia definitiva. Ma un altro mondo è (ancora) possibile

  

Il futuro è da anni un amabile ricordo del passato. È finito da un pezzo. Sparito ormai da tempo dalle aspettative pubbliche e private, non genera speranze né progetti a lungo raggio, solo paura. Col futuro è scomparso ogni orizzonte d’attesa che superi l’imminente, le utopie si sono rattrappite e accartocciate su se stesse, le promesse d’eternità durano lo spazio di un mattino.

Il Novecento fu il secolo che più divorò l’avvenire; ogni suo progetto, ideologico e tecnologico, politico e sociale era proiettato nel futuro. L’americanismo come il socialismo, la rivoluzione tecno-scientifica come la rivoluzione comunista, furono pervasi dall’irruzione del futuro. Perfino il movimento considerato più «reazionario» del Novecento, il fascismo, fu intriso di futurismo, mito dell’uomo nuovo e fiducia baldanzosa nell’avvenire. Ma da tre decenni il futuro è sparito, ha prevalso l’idea che non ci siano alternative al presente, che non siano ipotizzabili percorsi diversi o addirittura fuoruscite dal modello globale. E anche nella sfera privata, il carpe diem , il vivere alla giornata, la pesca delle occasioni transitorie, hanno frantumato e poi inghiottito ogni prospettiva di futuro.

È per questa assenza di futuro che rimbalza agli occhi il titolo di un libro, Il futuro è nostro di Diego Fusaro (Bompiani, pagg. 614, euro 15), in così radicale contrasto con la dittatura del presente. Fusaro è un giovane filosofo che si professa anti-intellettuale per rimarcare la distanza tra il libero pensatore e il pifferaio ideologico, organico al Partito. È un marxista atipico, un ideal-materialista, che si richiama alla linea Hegel Marx Gentile e Gramsci, e nei suoi riferimenti trovano posto Benjamin e Heidegger, Pasolini ed Evola, Pietro Barcellona e Alain de Benoist, e soprattutto Costanzo Preve, di cui è stato allievo e a cui è dedicato il libro. Il suo antagonista è il Pensiero Unico, l’Americanismo e il Capitalesimo, per dirla nei suoi termini; critica il dominio della tecnica e della finanza, il dio mercato e l’euro, reputa superati l’antifascismo e l’anticomunismo, il mito del progresso e la retorica del ’68, e oltrepassa la linea che divideva destra e sinistra.

Molti di quei temi furono anche i nostri; in un libro all’indomani della caduta del Muro, tentai un Processo all’occidente confutando l’idea che la storia fosse arrivata al capolinea, che dunque il futuro dovesse essere solo la ripetizione del presente, e che il modello vincente, unico e globale, fosse l’ id quo maius cogitari nequit , come diceva Sant’Anselmo di Dio, ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore. Fusaro immagina sintesi ardite come quella tra cosmopolitismo di derivazione marxiana e sovranità degli Stati nazionali (non disdegna nemmeno lo Stato etico) e immagina un comunitarismo cosmopolitico, come Roberto Esposito, che a me pare una contraddizione in termini. Il pendant del cosmopolitismo è l’individualismo e mi pare impensabile una comunità che non implichi una predilezione verso chi avvertiamo più vicino (il familiare, l’amico, il concittadino, il compatriota, il collega). Il passaggio dal comunismo al comunitarismo implica l’inevitabile passaggio da una visione materialistica incentrata sull’economia a una visione spirituale dei legami sociali.

Il suo idealismo ha un nemico metafisico e psicologico, il fatalismo, che pregiudica il futuro e la volontà di progettarlo. Ma è un idealismo tutto versato nell’azione, seguendo la lezione di Gentile e di Gramsci: filosofia dell’Atto e filosofia della prassi convergono nella filosofia dell’azione che fonderà la città futura. E anche qui sorge il dubbio che ribadendo il primato dell’agire, Fusaro resti dentro il mondo che critica e vuol superare: in fondo l’utilitarismo angloamericano, il capitalismo tecnocratico, la civiltà faustiana si fondano, come il marxismo e il nazionalismo, sul primato dell’agire, del fare, del mutare. Per capovolgere Marx dovremmo invece dire: finora abbiamo trasformato il mondo, ora proviamo a capirlo. Primato del conoscere sull’agire. Vediamo ormai da anni la disfatta dei modelli culturali, economici, politici e sociali fondati sul primato dell’agire proiettato nel futuro. E allora il tema che resta, fuori della dialettica hegeliana e marxista e delle filosofie dell’azione, è come ridar senso e prospettiva al futuro. Già, come si recupera quel che Kant chiamava «l’attesa ponderata del futuro»?

Primo, disattivando la modalità in automatico, ossia liberandoci dalla convinzione che siamo dentro un processo irreversibile, che prescinde dalla volontà, un programma tecnico che non consente deviazioni o rovesciamenti. Secondo, pensando in positivo che il futuro abbia più sbocchi, restituendo alla realtà il senso della possibilità e della pluralità degli esiti, liberandoci da ogni determinismo. Terzo, ritenendo che ci siano altri mondi, altri paradigmi e altri scenari oltre quello della tecnica e del mercato finanziario. Quarto, non esaurendo le aspettative nella dimensione singola, privata e individuale, ma aprendoci alla relazione, alla connessione, alla comunità. Quinto, annodando tra le generazioni passate, presenti e future un patto e una linea di continuità, stabilendo ponti e collegamenti, memorie e progetti. Il futuro si rianima se si attivano questi punti nodali.

La formula conclusiva che usa Fusaro – ma che è famigliare a chi ha frequentato la Rivoluzione conservatrice – è la nostalgia del futuro. Espressione compiuta perché indica la circolarità del tempo, la necessità di congiungere la memoria del passato all’attesa del futuro e di restituire alla continuità tra le generazioni il senso più vivo di una tradizione che viene da lontano e si sporge nel futuro. Come ha dimostrato la storia del Novecento, il futuro senza tradizione si perde nella notte del presente: ogni tentativo di vivere il futuro cancellando l’origine ha trascinato anche il futuro nella morte della storia. Chi uccide i propri padri è destinato a sopprimere i propri figli, o a farsi uccidere da loro, per una perversa tradizione. Il futuro è la tradizione nella versione ventura, è il suo domani. Ogni nuovo inizio è un ritorno all’origine. Ma la tradizione ora è ferita, sgualcita, tradita e ne vanno ridefiniti i contorni, il lessico, i significati. E non può riconoscersi nella linea marx-hegeliana, tra dialettica, prassi e storicità.

Intanto, conforta notare in una società immersa, sommersa nel presente, tracce sorgive e aurorali, segni di gravidanza, cenni di futuro. Dopo di noi non verrà il diluvio, ma ci sarà il futuro degli altri. Non fummo i primi, non saremo gli ultimi. Sì, il futuro è nostro, come dice Fusaro, ma è anche oltre di noi.