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La stupidità fa della donna una dea?

di Francesco Lamendola - 03/02/2015

Fonte: Arianna editrice

 
 

C’è una donna, una scrittrice tedesco-argentina, Esther Vilar, figlia di genitori ebrei emigrati nel 1935 dalla Germania in Sud America, che ha fatto un’analisi della condizione femminile diametralmente opposta a quella delle femministe; analisi di una durezza tremenda, feroce, che, se fosse provenuta da un uomo, avrebbe suscitato letteralmente un pandemonio e, come minimo, la richiesta di condanna al rogo del malcapitato.

Per lei, autrice di un libro che fece scalpore, anche perché uscito proprio negli anni della contestazione studentesca e della protesta femminista più esacerbata - precisamente, nel 1971 – la donna, semplicemente, è “stupida”, nel senso letterale di individuo poco intelligente; tutta la sua (pochissima) intelligenza, o piuttosto furbizia, la investe nella fatica di trovare un uomo dal quale farsi mantenere e, in genere, a scapito del quale vivere, parassitandolo più o meno come un’edera selvatica che si avvinghia al fusto d’un pioppo. In ciò, ella sa sfruttare a meraviglia la ricerca, da parte dell’uomo, di un dio, o piuttosto di una dea, davanti a cui prostrarsi, cioè – in pratica – un surrogato della madre, la dea della sua infanzia.

Questo accade perché l’uomo, creatura intelligente, sente l’angoscia della propria libertà e, quindi, della propria responsabilità; sa che dalle sue azioni derivano conseguenze che potrebbero essere imprevedibili e perfino minacciose, per cui cerca quella sicurezza perduta che, nell’infanzia, gli veniva dalla madre, la quale gli diceva cosa fare e cosa non fare. La donna, priva d’intelligenza, non sente l’angoscia della libertà, né quella della responsabilità: è incapace, al contrario dell’uomo, di pensiero astratto, dunque non si rappresenta le conseguenze che le sue azioni potrebbero avere, non ne è inquietata, non soffre di angoscia esistenziale. Aspira solo alla sicurezza, come tutte le creature primitive: che, per lei, coincide con il matrimonio, o comunque con l’unione, con un uomo, che la adori, la protegga, le dia tutta la sicurezza di cui sente il bisogno: una sicurezza concreta, terrestre, che non ha niente a che fare con gli slanci metafisici. Solo l’uomo è attirato da questi ultimi, solo l’uomo sente la nostalgia delle altezze: per questo la filosofia, la letteratura, la scienza, sono pressoché tutte al maschile; la donna non sente alcun bisogno, alcun desiderio, di spingersi oltre la soglia delle sue certezze immediate, delle sue sicurezze animali.

L’uomo, creatura intelligente, è anche profondo: non sospetta per nulla il vuoto che si cela dietro un affascinante sorriso femminile; si immagina che esso sia la promessa di chissà quali misteri, di chissà quali abissi inesplorati e conturbanti. L’uomo sopravvaluta la donna, la mette su un piedistallo, ne fa la sua propria divinità personale: tanto è vero che, se un uomo si lascia sedurre da una religione collettiva, comprese le religioni laiche, come il marxismo o il nazionalismo, egli si emancipa automaticamente dal potere della donna, rimane immune al suo fascino, non si lascia prendere al guinzaglio. La donna esercita un potere solo sugli uomini che sono in cerca di una divinità privata, per placare il loro personale bisogno di sicurezza: e, in generale, l’uomo tende a vedere la donna e a giudicarla secondo il proprio metro, cioè dando per scontato che ella possieda le sue stesse aspirazioni, che senta la sua stessa nostalgia dell’assoluto.

In realtà, la donna non è stupida per natura: lo è diventata, da quando si è resa conto che non valeva la pena di darsi da fare per diventare una persona intimamente realizzata, sviluppando le sue aspirazioni superiori, ma era sufficiente acciuffare un uomo e vivere alle sue spalle, ricattandolo con la sua imprevedibilità e tenendolo in pugno con la lusinga del piacere sessuale. Così la donna è diventata stupida: si è trattato di un processo storico, che ha finito per diventare qualcosa di ereditario: una seconda natura, dalla quale la donna moderna, che pur si crede emancipata o che dice di voler lottare per affrancarsi da una supposta servitù nei confronti del maschio, non ha alcuna intenzione di evadere, perché sta troppo bene così come è adesso: padrona del gioco, un gioco che l’uomo non capisce neppure e nel quale ella ha tutti i vantaggi e non corre alcun rischio.

Come esempio di ciò, Esther Vilar fa l’esempio della donna che, per strada e ovunque, guarda intensamente non gli uomini, dei quali individualmente poco le importa, ma le altre donne: è con loro che si sente perennemente in competizione; e se, per caso, si volta a fissarne una, vuol dire che ha riconosciuto in lei una possibile rivale, cosa che le fa alzare il livello dell’attenzione e della diffidenza, onde prevenire spiacevoli sorprese. Di una cosa sola, infatti, la donna ha paura: delle altre donne, che le possono portare via l’uomo e annullare tutto ciò che ha conquistato con tanta fatica. Dell’uomo, non si preoccupa: lei sa come fare per adescarlo, mentre lui è di facile contentatura: non è per lui che si veste in un certo modo, che si trucca, che si profuma con estrema cura in ogni particolare, ma per le altre donne: per segnalare alle altre donne la propria superiorità e per prevenire ogni possibile attacco.

L’uomo, che non vede la donna per quello che è, ma per quello che immagina, ossia come un essere simile a lui, crede che ella sia impedita, nel raggiungimento delle mete più alte, dalle fatiche domestiche e da altri fattori esterni, magari di tipo sociale: per questo si dà da fare per alleviarla, per emanciparla, per fare in modo che ella abbia del tempo libero da dedicare alla lettura, all’arte, agli interessi culturali: lui vorrebbe una vera compagna e crede che, se ella avesse più tempo a disposizione, sentirebbe il piacere che prova lui per le cose dello spirito, e che potrebbe condividere con lui il suo mondo interiore. Ma è un errore totale: la donna non è una creatura spirituale, ma soltanto materiale: a lei non importa nulla delle cose dello spirito; se si trova a disporre di un maggior tempo libero, lo impiega per dedicare ancora più attenzione alla toelette, all’abbigliamento, alla cura del suo aspetto fisico.

Se queste cose le avesse dette o scritte un uomo, ripetiamo, sarebbe stato bruciato o scorticato vivo; ma le ha messe nero su bianco una donna, e allora la strategia della cultura femminista, all’apparire del libro, è stata completamente diversa: la strategia del silenzio. Ad Esther Vilar la stampa e la televisione hanno dedicato pochissimo spazio e il grosso pubblico non ha mai conosciuto le sue idee; mentre è stato abbondantemente informato di quanto dicevano e scrivevano legioni di femministe, anche se non erano precisamente delle grandi pensatrici. La Vilar, invece, bisogna riconoscere che possiede una intelligenza tagliente come una lama (una eccezione alla regola della stupidità femminile, da lei teorizzata?); e che, anche se alcune delle sue affermazioni sono decisamente esagerate e non sufficientemente argomentate, resta il fatto che le sue tesi avrebbero potuto provocare un proficuo dibattito e consentito di guardare alla cosiddetta questione femminile da un’angolazione originale e anti-conformista. Le stese femministe avrebbero potuto servirsene per ritrovare le ragioni della loro protesta, ma dopo averle passate al vaglio di una serie di obiezioni tutt’altro che banali. Ma questo non è avvenuto e, probabilmente, non avrebbe potuto avvenire, dato che la cultura “progressista” degli anni Settanta (e non solo quella di allora, ma anche quella di oggi) non ha mai brillato per la disponibilità all’autocritica; al contrario, si è sempre sentita non solo intellettualmente, ma anche moralmente superiore a qualunque possibile interlocutore, a qualunque eventuale contraddittorio, preferendo una stretta e ostinata auto-referenzialità al dibattito serio, in cui ci si confronta con le opinioni contrarie su un piano di pari dignità e legittimità.

Scrive, dunque, Esther Vilar a proposito della stupidità femminile e della divinizzazione della donna fatta dall’uomo (in: E. Vilar, «L’uomo ammaestrato»; titolo originale: «Der Driesserte Mann», München, Caan Verlag, 1971; traduzione dal tedesco di Clara Lürig, Milano, Bompiani, 1971, pp.49-53):

 

«Solo gli oppressi possono sentire il bisogno della libertà. Non appena sono liberi – con la premessa che siano abbastanza intelligenti da saper valutare questa libertà con tutte le sue conseguenze – il loro bisogno di libertà si tramuta ben presto nel contrario: si lasciano prendere dal panico e aspirano nuovamente alla sicurezza di legami ben saldi.

Nei primi anni di vita un individuo non è mai libero. Si trova incastro nelle regole degli adulti e dipende completamente da esse, poiché non ha ancora nessuna esperienza nel campo del comportamento sociale. Sviluppa quindi un ardente desiderio di libertà, e alla prima occasione cerca di fuggire dalla sua prigione. Se è STUPIDO – e le donne SONO STUPIDE – quando poi è finalmente libero si sente completamente a suo agio, con la libertà acquistata, e cerca di mantenersela. Uno stupido non pensa in modo astratto, non abbandona il proprio terreno vitale e non conosce quindi la paura esistenziale. Non teme la morte (non riesce a immaginarsela) e non si pone il problema della sua esistenza: tutte le sue azioni ottengono un significato diretto nel’esaudire i propri desideri di benessere, e ciò gli basti. Gli stimoli religiosi gli dono totalmente estranei. Se però una volta gli si presentano, li appaga subito personalmente, perché è caratteristico dei cretini ammirare sfrenatamente la propria persona (se una donna aderisce a una religione, è solo per andare in cielo: il buon Dio è solamente l’uomo che deve renderglielo possibile).

La posizione dell’intelligente (l’uomo) è totalmente diversa. Appena libero si sente infinitamente sollevato, si inebria delle grandiose prospettive della sua indipendenza, ma non appena vuole usare questa libertà, vale a dire non appena vuole decidersi liberamente in questo o quel senso, s’impaurisce: sapendo pensare in modo astratto, sa anche che ogni sua azione nasconde in sé la possibilità di infinite conseguenze, conseguenze che non può prevedere, nonostante la sua intelligenza, e delle quali è completamente responsabile, agendo liberamente.

E con che gioia vi rinuncerebbe, per paura di effetti negativi della sua azione! E poiché questo non è possibile – l’uomo è condannato ad agire – comincia a rimpiangere le regole fisse della sua infanzia, qualcuno che gli dica cosa deve o non deve fare e che ridia un senso alle sue inutili azioni (perché in fondo servono al proprio bisogno di benessere, ma LUI, a che cosa servono?) e che gli tolga questa grossa responsabilità. E allora cerca un dio che rimpiazzi il dio della sua infanzia- sua madre . e al quale lui si possa sottometter incondizionatamente.

Per questo scopo preferirebbe un dio forse più severo, ma anche più giusto, più saggio e onnisciente, come per esempio il dio giudaico, cristiano o maomettano. Ma è intelligente e sa naturalmente che non può esistere un dio del genere e che ogni persona adulta è “per definitionem” il duo di se stesso, e che di conseguenza può appagare il suo “anelito di non-libertà” (il ritorno a uno stato di dipendenza preinfantile gli procura un’intensa gioia) solo con SUE PROPRIE regole, e cerca quindi di scoprire o inventare queste regole (dei).

E inconsciamente lo fa insieme ad altri, fa mettere a verbale, come gli altri, le sue esperienze personali, le confronta con quelle degli altri, vi riconosce quanto hanno in comune,  riassume tutto quanto in regole, sempre con gli altri, escogita così delle leggi per un suo futuro comportamento “ragionevole” (e cioè utile a qualcun altro, ma non a lui) e si sottomette loro di sua spontanea volontà. Questi SISTEMI nascenti vengono continuamente elaborati, e diventano ben presto così complessi che il singolo individuo non riesce più a valutarli e tenerli sotto controllo: diventano autonomi e “divini”. Si deve solamente AVERE FIDUCIA nelle proprie leggi, proprio come si doveva AVER FIDUCIA da bambini privi di esperienza nelle leggi non sempre ragionevoli imposte dai genitori; non le si può controllare, e violarle significa sempre espulsione dalla società e perdita di scurezza. Marxismo, amore del prossimo, razzismo o nazionalismo sono alcuni dei sistemi escogitati, e gli uomini che riescono a soddisfare il proprio stimolo religioso con queste ideologie sono praticamente immuni dalla sottomissione a una sola persona (donna).

Ma la stragrande maggioranza degli uomini si sottomette di preferenza e coscientemente a quelle dee esclusiviste che sono le DONNE (chiamando questa sottomissione AMORE), perché proprio queste contengono le migliori premesse per l’appagamento del loro bisogno religioso: la donna è sempre presente per l’uomo, non ha un proprio stimolo religioso ed è quindi in questo senso realmente “divina”. E poiché lei avanza continue pretese, l’uomo non si sente mai abbandonato da lei, che come dio è onnipresente: Lo rende indipendente da divinità collettive che dovrebbe dividere con concorrenti. Le gli appare degna di fiducia, assomigliando a sua madre, il dio della sua infanzia. Lei dà alla sua inutile vita uno scopo fittizio, perché tutto quello che lui fa, è ora destinato al benessere DELLA DONNA, non al proprio (e più tardi a quello dei figli). Come dea può non solo castigare (privazione della sicurezza) ma anche premiare (godimento sessuale).

Ma le premesse essenziali per la sua divinità sono comunque l’inclinazione al camuffamento e la stupidità. D’altra parte, un sistema deve imporsi ai suoi discepoli con la superiorità del suo sapere o deve confonderli con la sua incomprensibilità. E visto che con la donna la prima possibilità non viene neppure presa in considerazione, lei approfitta della seconda. La sua mascherata la fa apparire estranea e misteriosa, la sua stupidità rende vano ogni tentativo di controllo da parte dell’uomo. Infatti, mentre l’intelligenza si manifesta con azioni comprensibili e logiche, ed è quindi misurabile, calcolabile e controllabile, le azioni degli stupidi sono irragionevoli e non possono essere né previste né controllate. E così le donne, proprio come i papi e i dittatori, si rifugiano sempre dietro una facciata di sfarzo, di eccentrico camuffamento, e a una certa smania di fare il misterioso; il suo potere continua ad aumentare e garantisce all’uomo proprio per questo un appagamento duraturo delle sue aspirazioni religiose.»

 

Sincera, è sincera, Esther Vilar: e dice le cose senza peli sulla lingua e senza alcun riguardo per il salotto buono della cultura progressista, ove regnava – e regna tuttora, imperterrita, come se i suoi errori non le avessero insegnato nulla - la regola ferrea del politicamente corretto.

Certo, si può lamentare che ella tenda a generalizzare eccessivamente; che il suo ragionamento sia subordinato a una cultura psicanalitica di matrice freudiana, la quale dà per scontata, fra l’altro, la svalutazione radicale di qualunque sentimento religioso, visto solo come il surrogato nevrotico dell’autorità paterna o materna; e, inoltre, che su molte cose l’evoluzione della società contemporanea le abbia dato torto, visto il processo di mascolinizzazione della donna in atto, e il n crescente disinteresse di lei per la figura maschile “protettiva”, come si vede nella propensione di molte donne mature, emancipate e di un certo livello culturale, ad instaurare legami più o meno durevoli con uomini giovanissimi, surrogati del figlio (che forse non hanno avuto o che hanno abbandonato, magari come la sessantenne Sibilla Aleramo, quando intrecciò una lunga relazione con il ventenne poeta Franco Matacotta); o, molto più banalmente, giocattoli sessuali usa e getta, in perfetto stile manageriale e consumista.

Pure, ci sembra che nelle tesi provocatorie e paradossali della Vilar vi sia un nocciolo di verità che meriterebbe di essere ripreso e approfondito, magari con animo più pacato e con minore tendenza all’effetto di tipo giornalistico; un fondo inquietante e sgradevole, che, però, interpella nel profondo sia le donne che gli uomini d’oggi.

Tanto per dirne una: è stato osservato che la Nora di «Casa di bambola», di cui si è voluto fare una bandiera della rivolta femminista contro la schiavitù nei confronti del maschio padrone (cosa che avrà fatto rivoltare Ibsen nella tomba), in fondo non cerca affatto l’emancipazione, bensì vuole manifestare il disprezzo per un marito che l’ha delusa e ferita nel suo desiderio di trovare, in lui, una specie di padre forte e autorevole, severo ma “giusto”. Il marito di Nora si è rivelato un debole e un meschino, e per questo ella lo lascia: non perché sia un maschio padrone e oppressivo, ma perché non ha incarnato degnamente la figura paterna, rassicurante e protettiva.

Se andassimo a rileggerci le principali opere che la letteratura moderna e contemporanea, a torto o a ragione, ha rivendicato come altrettanti manifesti della emancipazione femminile, compresi e, anzi, specialmente quelle scritte da donne (da una Erica Jong, per esempio, e da tante altre simili a lei), scopriremmo, non senza qualche sorpresa, che esse contengono più conferme che smentite alla tesi centrale di Esther Vilar. Tuttavia, per ammetterlo, ci vorrebbe una certa dose di coraggio e soprattutto di onestà intellettuale: una merce che non va molto di moda, di questi tempi, sul mercato della cultura di massa…