La vera resistenza? Contro ingiustizie sociali e nuovi totalitarismi
di Franco Cardini - 29/04/2015
Fonte: Franco Cardini
Le due parole Resistenza e Liberazione, entrambe scritte con la maiuscola che nella lingua italiana si conviene ai nomi propri, si collegano senza dubbio ai significati che in essa vengono assunti dai corrispondenti nomi comuni “resistenza” e “liberazione”, ma da essi vanno distinte in quanto indicano due complessi fenomeni molto specifici e centrali nella storia del XX secolo. La Resistenza è la serie di atti sociali, politici e militari che, tra 1939 e 1945, scandì il drammatico processo di opposizione all’egemonia del nazionalsocialismo sull’Europa e alla conquista, all’occupazione e al controllo da quello su questa imposti attraverso le forze armate germaniche e quelle dei paesi alleati del Terzo Reich nonché attraverso l’azione dei reparti militari e paramilitari organizzati dalle forze politiche impegnate invece a sostenere la compagine hitleriana o a collaborare con essa. La Liberazione indica, insieme, l’esito della seconda guerra mondiale e il culmine del processo resistenziale.
E’ evidente che quelle due parole, che sono in sé anche definizioni, non possono venir correttamente intese che nei loro rispettivi contesti: che non sono generici, bensì specifici. La storia è piena di episodi di resistenza, da parte di gruppi umani o di popoli, nei confronti di altri popoli o di eserciti che si sono configurati come invasori dei territori altrui; e anche di episodi di liberazione, sia da regimi politici interni considerati ingiusti o tirannici, sia da forze armate straniere. I concetti di libertà, d’indipendenza e di sovranità sono pertanto comuni e connaturati a qualunque movimento di “resistenza” e a qualunque evento inteso e vissuto come “liberazione”. Di solito, e per evidenti motivi, si tratta di termini e di significati per loro natura soggettivi e relativi.
Fra ’39 e ’45, quindi, in tutta Europa si resisté al nazifascismo e si finì con il liberarsene. Non furono né una battaglia né una vittoria soltanto militari, dal momento che quella guerra era combattuta non tanto fra nazioni – e in questo senso essa rappresentava la prosecuzione della prima guerra mondiale, conclusa con la falsa e ingiusta pace di Versailles – quanto fra contrapposte ideologie, inconciliabili visioni del mondo. Il nazismo, che presentava rispetto al fascismo forti analogie sul piano dell’antidemocrazia e dell’antindividualismo, riuscì ad attrarre quel movimento che pur gli era stato modello nella sfera di una nuova dimensione ad esso originariamente estranea: quella del razzismo e dell’antisemitismo. Se Hitler fosse riuscito vincitore dal conflitto scatenato nel ’39, quanto meno in Europa sarebbe stato imposto ai popoli un modello sociobiologico ispirato a una gerarchia di valori fondata sul primato assoluto dello stato sull’individuo e sul primato delle razze “superiori” (un concetto pseudoscientifico che tuttavia fin dall’Ottocento aveva fatto molti progressi e si era affermato anche nel mondo dell’accademia e della ricerca).
E’ stato contro il totalitarismo politico e il materialismo biologico che la Resistenza è stata condotta e che la Liberazione si è affermata. Ciò va detto in quanto necessario, ma non è tuttavia sufficiente: in quanto la lotta tra nazifascismo e varie forme di antifascismo (almeno due: quella liberale e quella socialista, ciascuna di esse con varie diversità e articolazioni) si è andata intrecciando in alcuni paesi alla lotta di liberazione nazionale dall’occupazione straniera, mentre in altri essa ha assunto il carattere drammatico dell’obbligo, spesso lacerante, a una scelta tra il lealismo nei confronti del governo del proprio paese e l’adesione alla propria coscienza che imponeva di lottare contro i princìpi da esso propugnati. Molti italiani e molti tedeschi dovettero sostenere un dissidio durissimo tra la loro coscienza cristiana, o liberale, o socialista, o semplicemente umanitaria, e quello che l’opinione pubblica del loro pese e l’educazione ricevuta indicava loro come il “dovere” verso la “patria”, il “servizio” alla “nazione”. Fu molto amaro dover accettare che la via verso la libertà individuale e collettiva coincidesse con quello che si presentava – agli occhi altrui, ma spesso anche ai propri – come un “tradimento”, e che liberarsi volesse dire combattere dei concittadini, veder soccombere la propria patria e addirittura accettarne e auspicarne la sconfitta. Anche in paesi differenti da Italia e Germania, del resto, esistevano forze politiche e intellettuali che avevano accettato il fascismo e il nazismo e che si trovarono per questo nel ruolo dei “collaboratori” – un termine che divenne presto sinonimo di “traditori” -, a loro volta lacerati tra fedeltà alle proprie idee e fedeltà al proprio popolo in quella che fu anche una vera e propria guerra civile.
Assunte come valori fondanti della società uscita dalla seconda guerra mondiale, Resistenza e Liberazione hanno pertanto configurato una società che respinge senza possibilità di appello la visione fascista e soprattutto nazista del mondo. Il che peraltro introduce molti problemi e non è scevro di contraddizioni: premesso che l’ideologia fascista era liberticida, può un regime antifascista vietarne la professione senza entrare in contraddizione con i suoi stessi princìpi? E può ammetterne, sia pure ipoteticamente, un’evoluzione compatibile con la democrazia? Ma, ancora, di quale democrazia si parla? Di quella rappresentativa liberale, rispettosa di tutte le idee e fondata sulla pur e semplice uguaglianza degli individui dinanzi alla legge? O di quella socialista, che respinge le forme di democrazia istituzionale che non implichino anche una democrazia sociale ed economica? Ma tutto ciò non riconduce forse alla drammatica inconciliabilità tra libertà e giustizia, quando entrambe vengono portate al loro estremo limite? E non dovrà quindi comportare per forza di cose nuove lotte, nuove Resistenze, nuove Liberazioni?
Infatti, Resistenza e Liberazione non furono sufficienti a pacificare il mondo. Nacque immediatamente la “guerra fredda”, espressione di blocchi geopolitici contrapposti ma anche di classi sociali fra loro nemiche. Si sono intanto fatti avanti, fino a salire al proscenio, nuovi popoli e nuove società, portatori di nuove esigenze e di nuove istanze alla luce delle quali noialtri occidentali ci siamo resi conto della contraddizione insita nella Modernità e nel sistema colonialistico che ne costituiva il supporto in quanto fornitore di materie prime e di forza-lavoro. Pur pretendendo e magari credendo in buona fede di seminare fuori dell’Occidente le buone sementi della libertà e dell’uguaglianza, noi vi abbiamo impiantato sistemi ispirati allo sfruttamento e alla tirannia; e li abbiamo sostenuti in quanto ciò corrispondeva ai nostri interessi. Sotto questo profilo, è amaro dover ammettere che l’odio contro il totalitarismo è tra noi generalizzato e diffuso in quanto esso ha introiettato nell’Occidente metodi di governo e di repressione ch’erano già stati sperimentati nel resto del mondo da potenze che pur si dicevano liberali o socialiste.
E allora, La Resistenza e la Liberazione non finiscono mai. Sono ancora in atto, contro soggetti diversi da quelli che ne furono obiettivo settanta-ottant’anni or sono. La battaglia per la libertà e la dignità di tutto il genere umano stava alla base i quegli ideali secondo i quali ci si oppose allora a una tirannia che aveva pur prodotto risultati non sempre negativi sul piano civico, culturale e sociale. Queste contraddizioni sono ancora vive. Il nemico è ancora là, con altri vesti e sotto differenti bandiere. La lotta non è finita.