Rimettere la finanza sotto l’economia reale
di Aldo Giannuli - 12/05/2015
Fonte: Aldo Giannuli
A quanto pare, non ci sarà ripresa economica se non usciremo dalla crisi del debito, come osserva Adrien De Tricornot. Questo per diversi ordini di ragioni. In primo luogo perché se la bilancia commerciale continuerà a restare in rosso, il debito pubblico diventerà fatalmente insostenibile: una bilancia commerciale in passivo significa che un paese sta consumando più di quello che produce, per cui i debiti (anche privati) non possono far altro che aumentare. Di conseguenza, si innesca l’effetto “Regina Rossa” (o “tapis roulante contromano”).
Pertanto, è inevitabile ripensare il modello economico, contrastando le concentrazioni oligopolistiche e riportando la manifattura in Occidente.
L’obiezione più frequente, a questa idea, è la non sostenibilità della concorrenza asiatica ed, in parte, latino-americana. Come spesso accade, la cosa è tanto più creduta quanto più ripetuta, sino al punto di sembrare ovvia come il fatto che a mezzogiorno ci sia luce ad a mezzanotte il buio.
Ma esaminiamo un po’ più da vicino l’argomento, partendo da una premessa: se il problema fosse solo questo, esso riguarderebbe tanto la manifattura quanto i servizi, e, se questa concorrenza non fosse battibile, questo significherebbe l’irrecuperabilità del deficit commerciale ed il sicuro fallimento. A quel punto, potremmo starcene seduti in riva al mare ad aspettare che il fato si compia. Per fortuna le cose non stanno così.
I due fattori determinanti nel processo di delocalizzazione industriale sono stati il basso costo del petrolio e il regime alterato dei cambi: uno scenario destinato a modificarsi. Per quanto oggi si sia in una fase di calo dei prezzi energetici (per la verità non priva di turbolenze) la tendenza di lungo periodo è, all’opposto, la loro crescita. A quanto pare, sta finendo il petrolio “facile”, quello che giace più in superficie, e, pertanto, bisogna scendere molto più in giù e cercare sotto i fondali marini, il che significa un considerevole aumento dei prezzi di estrazione. Inoltre, non sembra che la domanda sia destinata a calare, per lo meno in un futuro prevedibile, quanto piuttosto a salire. Si potranno ottenere dei risparmi con tecnologie più efficienti, in parte sviluppare fonti energetiche diverse, ma, nel complesso, i costi probabilmente saliranno.
Inoltre, occorre considerare che, a partire dai tardi anni novanta, si è manifestata una nuova pirateria che, ovviamente, impone ulteriori costi per i noli marittimi fra diretti ed indiretti (scorte armate, assicurazioni, carichi perduti, risarcimenti, sistemi di vigilanza satellitare ecc). Anche se è vero che l’apertura di nuovi canali modificherà sensibilmente le rotte (in particolare, il taglio dell’istmo di Kra permetterà di evitare il terribile stretto di Malacca. Ma torneremo a parlarne) tutto sommato, sembra che i costi dei trasporti marittimi siano destinati a crescere. Riducendo, quindi il margine di profitto sulle esportazioni via mare.
Il secondo fattore è quello dello squilibrio nei cambi monetari. Una situazione che difficilmente potrà durare ancora molto a lungo, senza sfociare in una durissima guerra commerciale, fatta di dazi protezionistici e boicottaggi e, forse, in una guerra punto e basta.
E’ difficile dire quale sarà il punto di caduta di questa tensione, ma è facile prevedere che un qualche riaggiustamento dei cambi ci sarà e andrà nel senso di una rivalutazione delle monete degli emergenti.
D’altra parte, sapreste dirmi che razionalità economica ha che il maggior creditore mondiale abbia una moneta che vale un decimo di quella del maggior debitore mondiale?
Infine: la politica del basso costo del lavoro è anche essa destinata a rientrare parzialmente, soprattutto in Cina, dove, nei prossimi 8-10 anni una considerevole parte dell’attuale forza lavoro uscirà dal mercato e, stante la sostanziale inesistenza del sistema pensionistico cinese, questo significa che ogni famiglia dovrà sostenere un maggiore peso di persone inattive, quel che riesce molto difficile senza una qualche rivalutazione salariale. D’altra parte, già nell’estate del 2010 ci fu un’ondata di scioperi soprattutto nelle aziende giapponesi presenti in Cina, che portò ad apprezzabili aumenti salariali. E comunque, se la Cina vuol continuare a crescere deve dilatare il suo mercato interno.
Certamente questa parte del ragionamento è vera per la Cina ma, almeno per ora, non per l’India, il Vietnam o la Corea del Sud, dove, in effetti, si è parzialmente spostata la produzione industriale dalla Cina. Tuttavia, anche questi spostamenti non avvengono a costo zero e pongono spesso altro tipo di problemi.
Dunque, il quadro sta mutando e le condizioni generali che hanno favorito l’emigrazione della manifattura dai paesi avanzati verso quelli asiatici e latinoamericani si stanno considerevolmente ridimensionando. Tanto è vero che negli Usa abbiamo assistito ad un parziale rientro di aziende manifatturiere.
D’altro canto, è possibile ridare competitività alle industrie europee ed americane anche attraverso una riduzione dei costi di produzione. Ma questo è un punto su cui occorre capirsi. Sin qui parlare di costi di produzione ha significato automaticamente abbassare il “costo del lavoro”, cioè i salari. C’è, un’altro capitolo della questione che viene affrontato molto superficialmente e riguarda le retribuzioni del management. Facciamo l’esempio degli Usa, dove i manager guadagnano 8 vote quello che guadagna un premio Nobel, 28 volte di più del Presidente, 178 volte lo stipendio di un infermiere, 213 volte quello di un poliziotto, 225 volte di un insegnante e 252 volte quello di un vigile del fuoco. Parliamo di stipendi medi, ma ci sono punte che raggiungono la proporzione di 1 a 9.000 fra il top manager e l’ultimo operaio della sua azienda. Peraltro, non si tratta di poche persone perché, ad esempio, l’apparato manageriale di una multinazionale è fatto di molte centinaia di persone. Sarebbe interessante fare un’ inchiesta che ci dicesse quale è il peso percentuale delle retribuzioni manageriali rispetto a quelle del monte salari, azienda per azienda.
Sappiamo che i proventi dirigenziali sono spesso ottenuti attraverso la clausola della shareholder value che non si scarica immediatamente sui costi di produzione, ma è comunque un costo che incide sul bilancio generale ed ha un suo riflesso sulla competitività dell’azienda.
Dunque, un vigoroso taglio di queste retribuzioni potrebbe avere riflessi assolutamente salubri sullo stato delle imprese americane ed europee, in fondo, se un manager non guadagnasse più 250 volte quello che guadagna un suo operaio, ma solo 80 volte, non è che andrebbe in miseria. Sarebbe un interessante esperimento quello di uno sciopero che chieda di diminuire i guadagni del management. Chissà se i sindacati americani ed europei avranno mail il coraggio di farlo.
Tutto ciò considerato, le condizioni per una reindustrializzazione delle nostre economie non appaiono così impossibili come si pensa comunemente.
Il punto è che dobbiamo riabituarci a pensare che una parte del consumo deve essere prodotta localmente e non ha senso una produzione così frammentata, con costi elevatissimi di trasporti e di organizzazione del lavoro. O meglio, un senso lo ha: disperdere la forza lavoro frantumandone la capacità contrattuale per tendere bassi i salari ed inesistenti i diritti. Ma questo non ha a che fare con una razionalità economica più generale.
Per consentire la ripresa di produzioni locali non sarebbe neppure scandalosa la ripresa di dazi moderatamente protezionistici e temporanei (e immaginiamo l’eventuale lettore neo liberista che si starà strappando i capelli inorridito). Ma un contributo può darlo anche l’adozione di monete locali per cui un quinto o un sesto delle retribuzioni poterebbe essere corrisposto in moneta spendibile solo localmente e, dunque, per prodotti locali.
D’altra parte, non è scritto da nessuna parte che tutti dobbiamo produrre le stesse cose: se ci sono già abbastanza auto, blue jeans e macchine edili è abbastanza inutile aprire nuove fabbriche di auto, jeans e macchine edili. Ma questo non vuol dire che non ci siano altre cose da produrre e scambiare. Occorre pensare in termini di una nuova divisione mondiale del lavoro. E ci sono campi nuovi in cui si stanno muovendo appena i primi passi, come la l’ecoindustria. La green economy sta dischiudendo interi settori produttivi nel campo delle energie rinnovabili, del riciclo e dell’ efficienza energetica, dell’energia prodotta dal riciclaggio dei rifiuti. Jeremy Rifkin parla di una terza rivoluzione industriale che sta appena iniziando e che porterà al superamento dell’attuale “economia del carbonio”. Forse è una valutazione eccessiva e dovemmo nutrire aspettative meno ambiziose, ma non c’è dubbio che fra le sue proposte ve ne siano di molto interessanti che possono effettivamente contribuire ad una nuova organizzazione dell’economia reale.
Ci sono poi segnali molto promettenti nel campo della robotica, si parla di una nuova generazione di robot che potrebbe cambiare il nostro stile di vita (anche se, magari occorrerà essere molto attenti agli eventuali effetti controintuitivi). Molto prossimo a questo campo è quello delle nanotecnologie dai più diversi impieghi (e si pensi alla microchirurgia). Accanto a tutto questo, occorre anche prestare attenzione al nuovo artigianato digitale che sta sorgendo.
Ma soprattutto è evidente che il campo dove si giocheranno le sfide principali sarà quello delle innovazioni, che esigono uno stretto rapporto con la ricerca scientifica, un settore in decisa decadenza in Europa ed in Italia in particolare, nel quale è possibile fare molto e ricavare molto.
Come si vede l’ipotesi di un ritorno della manifattura in Occidente è una prospettiva tutt’altro che astratta e che merita di entrare di forza nel dibattito politico. Quello che, però, esige una politica industriale che ormai non esiste da almeno venti anni in Europa (negli Usa è essenzialmente legata al complesso militar industriale). E questo, a sua volta, esige di nuovo lo Stato imprenditore.