Forse abbiamo sottovalutato il problema
di Francesco Lamendola - 14/07/2015
Fonte: Il Corriere delle regioni
Gli attentati terroristici sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, o nella fabbrica vicino a Lione, o nella moschea sciita di Kuwait City, non sono che gli ultimi anelli di una catena che parte da lontano e, purtroppo, è una facile profezia affermare che non saranno gli ultimi, né i più gravi.
Ormai, anche i più lenti a comprendere, dovrebbero aver cominciato ad aprire gli occhi: e, benché viviamo in una cultura dell’effimero, che è nemica della memoria, dovremmo ricordare altri fatti analoghi che si sono verificati negli Stati Uniti, in Spagna, in Gran Bretagna, in Francia, in Russia, per non parlare di quello che, ormai quotidianamente, sta accadendo in Nigeria, in Somalia, in Kenya, in Algeria, in Libia, in Egitto, in Iraq, in Siria, in Pakistan, in Indonesia, nelle Filippine e in altri luoghi ancora.
La realtà di cui anche i più buonisti, i più pacifisti e i più terzomondisti dovrebbero aver preso atto, è che l’Islam – non tutto, certo, ma una buona parte di esso: quella più radicale, che è poi quella più atta ad infiammare le menti e a fare proseliti, ha dichiarato guerra alla civiltà cristiana: non alla civiltà “occidentale” (che non esiste: perché la civiltà europea è altra cosa da quella americana), ma alla civiltà cristiana; e, se le prime vittime sono state le antichissime comunità cristiane residenti nel Nord Africa e nel Medio Oriente, ora le vittime designate sono i cristiani in quanto tali, a cominciare da quelli d’Europa.
Certo, anche i musulmani sciiti, anche gli ebrei, anche i buddisti e gli indù sono visti come nemici dal fondamentalismo sunnita, e, non di rado, colpiti a morte, perfino nei simboli millenari della loro presenza (come i Buddha scolpiti sulle rocce di Bamiyan, in Afghanistan); però i cristiani, in quanto tali, restano l’obiettivo privilegiato. Gli studenti di una corriera sono stati fatti scendere e recitare i versetti del Corano: chi non lo sapeva fare, ed era perciò riconosciuto come cristiano, veniva ucciso; gli altri, sono stati risparmiati. Il messaggio è chiaro, fin troppo – almeno per chi lo vuol capire, per chi non indossa il paraocchi ideologico.
Se è stata dichiarata guerra alla nostra società, in quanto civiltà cristiana – anche se, in effetti, la nostra è una civiltà post-cristiana, se non proprio anti-cristiana: ma questo, i fanatici sunniti non lo sanno, o fingono di non saperlo -, allora dobbiamo difenderci: a meno che la paralisi spirituale che ci affligge da molto tempo non ci abbia tolto anche l’istinto della sopravvivenza, e noi siamo spiritualmente pronti per farci conquistare, sottomettere, sterminare. Il che è possibile. Non si predica il nulla, per decenni, impunemente: la responsabilità che grava sui nostri sedicenti uomini di cultura, nel distruggere le basi stesse della nostra vita spirituale e nel diffondere teorie nichiliste, relativiste e auto-distruttive, al limite del suicidio morale, è immensa.
Insomma, siamo sotto un duplice attacco: materiale e spirituale. Materialmente, siamo minacciati dal terrorismo islamico fin nelle nostre città e nei nostri luoghi di lavoro; spiritualmente, il fondamentalismo islamico si accinge a conquistare quel che resta dell’anima europea: scettica, relativista, indolente, rassegnata. Il tasso di natalità zero è il segno più visibile del nostro disamore verso noi stessi, della nostra perdita di speranza nel futuro, nonché della rottura del patto generazionale: e la nostra società, sempre più vecchia, sempre più stanca e sfiduciata, ma anche sempre più consumista e piena di pretese, di diritti da far valere, veri o presunti, è ormai matura per essere conquistata da altre forze spirituali, a meno che vi sia un soprassalto di consapevolezza proprio all’ultima ora.
Non possiamo aspettarci di essere credibili, se noi, per primi, non crediamo in noi stessi, nei nostri valori, nella nostra tradizione; non possiamo realisticamente aspettarci che altri li rispettino, se noi non lo facciamo; non possiamo pensare di essere il modello universale di una società democratica, tollerante e armoniosa, se non siamo disposti a fare il benché minimo sacrificio per difendere ciò che abbiamo ricevuto dai nostri genitori e per trasmetterlo ai nostri figli (anzi, attraverso le diffuse pratiche abortive, se siamo ben decisi a negare ai nostri figli persino il “diritto” primario tanto caro alla cultura liberale: quello alla vita).
Su questa situazione generale si inserisce la questione dei cosiddetti migranti. Abbiamo voluto considerare il problema sotto un’ottica buonista e progressista, impregnata di filantropismo a buon mercato. Non abbiamo capito che era un problema politico, e che interpellava il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Si tratta di sapere se vogliamo lasciare loro in eredità l’Europa, così come noi l’abbiamo conosciuta, o se vogliamo che essa scompaia in un calderone di popoli, nel quale i nostri figli e nipoti saranno solo una minoranza, forse tollerata, forse perseguitata, comunque non più padrona di decidere il proprio destino.
Qualche migliaio di profughi pongono un problema umanitario; milioni e milioni di profughi, o di supposti tali, pongono un problema politico di lunga durata. Non si può fare della generosità all’ingrosso con quel che non ci appartiene: e il futuro dei nostri figli e nipoti non è cosa che ci appartenga; è qualcosa che noi dovremmo custodire gelosamente e, quando verrà il momento, trasmettere loro intatta, perché possano decidere che farne, in piena libertà. Diversamente, è come se noi scaricassimo sulle spalle dei nostri eredi il peso di un debito di cui essi non hanno colpa, ma che qualcuno esigerà che venga pagato: e lo esigerà da loro, non da noi, che non ci saremo più e che non saremo chiamati a rispondere dei nostri errori.
Oltre a questo, è ormai evidente che, nella massa dei cosiddetti migranti, che in effetti sono degli invasori, e sia pure pacifici, vi sono migliaia e migliaia di terroristi, effettivi o potenziali: e si è visto che perfino fra gli immigrati di terza generazione i gruppi terroristi islamici riescono facilmente a fare proseliti e ad arruolare spietati assassini per colpire la società che li ha accolti, che li ha sfamati, che ha assicurato loro un futuro. Dopo aver constatato fatti del genere, sarebbe sommamente ingenuo aspettarsi ancora della gratitudine: vi sono culture nelle quali essere accolti, sfamati, aiutati non è considerato come un segno di bontà, ma di debolezza: culture nelle quali, davanti ai segnali di debolezza, si alza la posta delle pretese, del desiderio di rivalsa.
Sia chiaro che il fenomeno delle migrazioni dal Sud al Nord della Terra ha avuto origine anche, e in buona misura, dal cieco egoismo di una politica irresponsabile, dal saccheggio operato dalle banche e dalle multinazionali; è altrettanto evidente, tuttavia, che il cittadino medio europeo no porta alcuna responsabilità personale per tutto questo e non è giusto, quindi, che ora lo si voglia far sentire in dovere di “rimediare” all’egoismo dei Paesi benestanti, accogliendo indiscriminatamente chiunque pretenda di essere accolto nella nostra società. Il senso di colpa, sotto il quale lo si vorrebbe schiacciare, non ha ragione di esistere: non più di quanto sarebbe ragionevole che il figlio perbene di un delinquente si debba sentire in colpa per i crimini paterni.
Certo, l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero mutare radicalmente il loro atteggiamento verso l’economia dei Paesi del Sud della Terra; dovrebbero fare pressioni sulle banche e sulle multinazionali affinché desistano dalle loro politiche di usura e di sfruttamento: le stesse, del resto, che stanno massacrando le nostre classi medie, che stanno distruggendo il piccolo risparmio e che stanno portando anche i nostri popoli verso la disoccupazione, la povertà e la perdita di speranza nel futuro. I governi dei Paesi del Nord dovrebbero modificare le loro politiche economiche, resi più sagge dall’esperienza che, davanti a uno sfruttamento selvaggio, i popoli del Sud non trovano altra risorsa che quella di mettersi in movimento per entrare a far parte, ospiti non invitati né desiderati, del nostro mondo.
La globalizzazione, che ci viene presentata come un valore positivo, non è che l’ideologia dei grandi poteri finanziari che si arricchiscono sempre di più, impoverendo l’umanità intera, tanto nei Paesi del Sud che in quelli del Nord: sono quei poteri che dobbiamo considerare come i nostri nemici; e, guarda caso, sono gli stessi che stanno facendo di tutto per distruggere le basi morali della nostra convivenza civile (si veda l’offensiva omosessualista nei programmi educativi scolastici), per farci scordare la nostra tradizione, per renderci analfabeti del nostro passato. Davanti alla minaccia di distruzione della nostra cultura e della nostra civiltà, davanti al progetto di azzeramento della nostra identità, noi dovremmo, semmai, stringere un patto di solidarietà e di collaborazione con i popoli del Sud della Terra, affinché ciascuno di noi si batta, ciascuno in casa propria, per respingere questa offensiva sistematica e questo programma di annientamento culturale e spirituale.
Tuttavia, davanti alla quotidiana invasione del nostro continente da parte di masse incontrollate e incontrollabili di “migranti”, noi abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di difenderci. Le politiche buoniste e progressiste ci hanno portati fin sull’orlo del precipizio: è tempo di svegliarci, finché siamo in tempo, e di reagire. Quel che sta accadendo ai cristiani dell’Africa e dell’Asia dovrebbe metterci in guardia su quel che potrebbe accadere a noi, domani, in casa nostra. E l’ironia di tutto questo è che noi, ma soprattutto i nostri figli, pagheremo per una identità religiosa che ormai non ci appartiene più: pagheremo per essere i figli di una civiltà cristiana, pur avendo ripudiato, e da molto tempo, lo spirito del cristianesimo.
La nostra debolezza, il nostro essere indifesi davanti a forze decise e spietate, che puntano alla nostra conquista e alla nostra distruzione, dipende anche dall’ignavia, dalla viltà e dalla malafede con le quali abbiamo cercato di nascondere, insabbiare, edulcorare il nostro stesso passato. I nostri studenti di liceo e di università non vengono a sapere, dai libri su cui studiano e dai professori che dovrebbero istruirli, che migliaia di cristiani sono stati perseguitati a morte dai giacobini, al tempo della Rivoluzione francese; e che decine di migliaia di cristiani sono stati perseguitati a morte, nel Messico e in Spagna, fra l’inizio del XX secolo e gli anni Trenta; che milioni di cristiani sono stati perseguitati a morte in Unione Sovietica, dal 1917 fino quasi al termine della Guerra Fredda e alla caduta del regime comunista.
Tutte queste vittime sono state uccise da governi europei, o figli della civiltà europea (nel caso del Messico); e la totale ignoranza di tali fatti, da pare nostra, ha creato le condizioni favorevoli perché noi, ora, ci troviamo più che mai inermi e impreparati davanti a una minaccia mortale che ci aggredisce dall’esterno. Non abbiamo voluto vedere che l’odio anticristiano ha le proprie radici nella nostra stessa civiltà; non dovremmo meravigliarci troppo se altre culture ne hanno fatto la propria bandiera, per dare l’assalto alla fortezza Europa. Una fortezza ormai sguarnita, rassegnata, matura per la resa: perché non c’è guarnigione più debole di quella che non conosce il valore della cittadella che è chiamata a difendere.
Ora i governi dell’Unione Europea, e la stessa Unione Europea, stanno cominciando a prendere coscienza del fatto che non si può seguitare con la politica dell’«avanti, c’è posto» e che non basta la buona volontà: «aggiungi un posto a tavola» è cosa che si può fare entro certi limiti oggettivi, oltrepassati i quali si provoca il caos; di fatto, non si possono aggiungere posti a tavola indefinitamente, non si può far finta di non vedere che si tratta di mettere a disposizione decine di milioni di posti e che ciò, oltretutto, cambierebbe per sempre la fisionomia etnica e culturale del nostro continente e metterebbe la parola “fine” alla nostra civiltà.
Tuttavia, le reazioni politiche sono ancora esitanti e dominate da scrupoli buonisti e legalisti. Si vorrebbe introdurre una distinzione fra “profughi”, aventi diritto all’asilo politico, e “migranti economici”, che andrebbero respinti. Non è così semplice. A parte il fatto che la distinzione, in moltissimi casi, è praticamente impossibile, resta il fatto – di cui nessuno parla, perché considerato troppo politicamente scorretto – che il diritto di asilo, stabilito nella Convenzione di Ginevra del 1951 per ragioni di religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale e opinioni politiche, è semplicemente inapplicabile, se si pretende di garantirlo non a singoli individui, ma di estenderlo a popolazioni intere. Se in una quarantina di Paesi del mondo scoppia la guerra, non milioni, ma miliardi di persone avrebbero il “diritto” di ottenere lo status di profughi: il che è palesemente assurdo, Tutti lo vedono e lo capiscono, ma nessuno osa dirlo; e si va avanti con le ipocrisie, con i palliativi e con le mezze misure. Forse che i popoli europei, nell’inferno della Seconda guerra mondiale, pretesero di essere accolti in massa entro i confini degli Stati neutrali, invocando lo stato di necessità che li spingeva a fuggire dalle loro case? Niente affatto: rimasero al loro posto, sotto le bombe, sopportando il freddo e la fame: rimasero per poter ricominciare, a guerra finita, ricostruendo ogni cosa dalle macerie e per offrire una speranza ai loro figli.
Questa è la verità, sfrondata dalla demagogia buonista. Il mondo non è e non potrà mai essere il luogo paradisiaco ove tutti hanno solo dei diritti. Ciascuno deve lottare per difendere ciò che ama…