L'8 maggio 1945, allorché tacquero le armi in Europa, a Sétif, in Algeria, dei manifestanti musulmani, che festeggiavano la fine della guerra, si scontarono con la gendarmeria locale. Ne nacquero dei tumulti in cui persero la vita 103 pieds noirs e altre centinaia di civili rimasero feriti. La repressione francese non si fece attendere. Benché sia tutt'ora incerto il numero delle vittime, non è lontana dal vero la stima di almeno 6000 algerini uccisi dalle truppe francesi. 1 Cominciava così, nello stesso giorno in cui cessava la guerra nel Vecchio Continente, il tragico capitolo della fine del sistema coloniale, che negli anni seguenti avrebbe visto la Francia impegnarsi, senza alcun profitto, in due guerre, quella di Indocina (terminata con la sconfitta francese a Dien Bien Phu nella primavera del 1954) e quella d'Algeria, cui mise termine Charles De Gaulle nel 1962 con il riconoscimento dell'indipendenza della repubblica d'Algeria.
Anche se era annoverata insieme alla Gran Bretagna tra le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, in realtà la Francia solo nominalmente la si poteva annoverare tra gli Stati vincitori. Al riguardo, non v'è dubbio alcuno che i due Paesi che avevano veramente deciso le sorti della guerra fossero stati due Paesi non europei, ovvero gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Il contributo francese alla sconfitta della Germania era stato poco più che simbolico; tra l'altro, il piccolo esercito francese che aveva combattuto a fianco degli alleati era basato proprio su truppe reclutate in Algeria, Marocco e Tunisia. Assai maggiore invece era stato il contributo della Gran Bretagna alla vittoria, ma anch'essa aveva dovuto basarsi sempre più sui contingenti dei Paesi dell'impero coloniale britannico per combattere contro la Germania (e il Giappone). Ed era ovvio che finita la guerra ne avrebbe dovuto pagare il prezzo. Ma i problemi che la Gran Bretagna doveva affrontare non erano certo solo quelli derivanti dall'impiego massiccio di truppe non britanniche. Infatti, appena finita la guerra in Europa, gli Stati Uniti non esitarono ad interrompere, di punto in bianco, gli aiuti concessi alla Gran Bretagna (tranne quelli per la guerra del Pacifico che continuarono fino al 21 agosto del 1945) in base alla legge “Affitti e Prestiti” del marzo 1941. Londra fu subito costretta ad inviare a Washington una delegazione di cui faceva parte il famoso economista John Maynard Keynes, ma senza ottenere alcun risultato.
Invero, il braccio di ferro tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna era già cominciato a Bretton Woods (nel luglio del 1944). In questa località dello Stato del New Hampshire si era deciso di creare due istituzioni che avrebbero avuto un ruolo chiave nel dopoguerra: il Fondo monetario internazionale (a tutt'oggi il pilastro fondamentale del sistema monetario mondiale) e la Banca internazionale per la ricostruzione e sviluppo. Il vero scopo della conferenza comunque era la creazione di un sistema economico internazionale imperniato sul libero scambio, i cambi fissi e “dollarocentrico”; vale a dire un sistema che, “agganciando” la moneta statunitense all'oro, sostituisse il pool della sterlina (che prevedeva che le entrate in dollari dei Paesi del Commonwealth venissero versate a Londra e fossero convertite in sterline) e sancisse il definitivo riconoscimento degli Stati Uniti come potenza capitalistica predominante. In sostanza, gli Stati Uniti erano diventati i padroni del mondo in termini economici e adesso potevano gettare sul piatto della bilancia l'enorme peso della loro potenza militare ed economica.
Durante la guerra, mentre il Pnl dell'Europa (esclusa l'Unione Sovietica) era diminuito di circa il 25%, quello degli Stati Uniti (in termini reali) era aumentato del 50%. 2 Pressoché in tutti i settori di rilevanza strategica il Paese nordamericano sopravanzava l'Europa e in particolare l'Inghilterra Nel settore della marina mercantile, tradizionale “punto di forza” degli inglesi, nel 1939 gli Stati Uniti avevano appena la metà del tonnellaggio della Gran Bretagna, sei anni dopo il rapporto di forze si era rovesciato. 3 Ancor più significativo forse è che nel 1950 le forze armate degli Stati Uniti potevano contare su 1.380.000 uomini e le spese statunitensi per la difesa ammontavano a 14,5 miliardi di dollari contro i 2,3 miliardi di dollari e 680.000 uomini della Gran Bretagna (la Francia disponeva solo di 590.000 uomini e le spese per la difesa ammontavano a 1,4 miliardi di dollari). 4
Logico allora che lo scontro imperialistico tra Gran Bretagna e Stati Uniti nel 1946-1948 non potesse concludersi che con la sconfitta del Paese europeo. La Gran Bretagna dovette accettare le condizioni imposte dagli Stati Uniti per un nuovo prestito, che prevedevano tra l’altro la ratifica degli accordi di Bretton Woods e la convertibilità della sterlina entro il luglio del 1947 (con conseguenze pesantissime per la bilancia dei pagamenti inglese) e che aggravarono considerevolmente la già precaria situazione socio-economica della Gran Bretagna, che durante il terribile inverno del 1946-1947 aveva dovuto razionare, oltre al pane, la corrente elettrica e perfino sospendere la pubblicazione dei settimanali. Ora la Gran Bretagna fu costretta anche a “gettare la spugna” in Grecia, dato che non poteva più rifornire il proprio corpo di spedizione composto da 16.000 soldati che avevano il compito di appoggiare l’esercito greco contro i partigiani comunisti di Markos. 5 In seguito l’economia inglese riuscì, sia pure lentamente, a risalire la china, ma è indubbio che i costi politici del braccio di ferro con gli Stati Uniti furono salatissimi.
Né migliori, ovviamente, erano le condizioni delle potenze europee sconfitte. Gravissimi erano i danni di guerra, soprattutto per quanto concerne il sistema delle comunicazioni (strade, ferrovie, canali, aeroporti e porti). In Germania (divisa in quattro zone d'occupazione: statunitense, britannica, francese e sovietica) le devastazioni causate dai bombardamenti erano aggravate dallo smantellamento di parecchi impianti industriali nonché dalla penuria di materie prime, tanto che nel 1946 il reddito e la produzione nazionali furono meno di un terzo di quelli del 1938. 6 Anche l'apparato industriale dell'Italia aveva subito colpi durissimi, sebbene i danni di guerra non superassero in media l'8% del valore degli impianti. 7 Del resto, anche le potenzialità della Germania erano notevoli per l'enorme espansione del sistema produttivo tedesco dalla seconda metà degli anni Trenta sino alla fine della guerra. In definitiva, se così è lecito esprimersi, la macchina europea era ancora in buono stato, ma mancavano i mezzi per ripararla e l'energia perché potesse funzionare a pieno regime.
Sotto questo aspetto, benché non vi sia la prova contraria, è innegabile che il piano Marshall sia stato decisivo per la ripresa dell'economia europea. Si deve però prendere in considerazione anche l'altro lato della medaglia. In primo luogo, il piano Marshall era vantaggioso anche per l'economia statunitense. L'eccezionale sviluppo del settore manifatturiero degli Stati Uniti negli anni della Seconda Guerra Mondiale (rispetto al 1939 gli impianti industriali, specialmente a causa degli investimenti statali, erano aumentati di ben il 65%) aveva praticamente eliminato la disoccupazione, ma il mercato nazionale era troppo piccolo per l'apparato produttivo statunitense, né vi erano mercati esteri che potessero acquistare i prodotti statunitensi. Si calcolò quindi che i disoccupati potevano nuovamente salire a sei o sette milioni, ma era a rischio pure il saldo attivo della bilancia di pagamenti (un attivo che nel 1944 era pari a 14,3 miliardi di dollari) che secondo il Dipartimento di Stato non doveva scendere sotto i dieci miliardi dollari. 8 Il piano Marshall non solo risolveva questi problemi ma, grazie alle riserve accumulate per il surplus delle esportazioni, rendeva possibile trasferire risorse ai propri alleati, i quali acquistando in dollari merci statunitensi avrebbero contribuito al rafforzamento del sistema internazionale imperniato sul dollaro. Ma, oltre ad instaurare questo “circolo virtuoso” (per gli Stati Uniti, s'intende), il piano Marshall aveva un evidente significato politico, dacché era ovvio che i Paesi europei sarebbero venuti a dipendere sempre più dal sistema americano (peraltro una parte di questi aiuti sarebbero serviti a “coprire” le spese militari degli alleati degli statunitensi).
Non a caso l’Unione Sovietica, che non aveva alcuna intenzione di modificare i propri piani economici (e quelli dei suoi alleati) per armonizzarli con gli obiettivi del programma americano, denunciò il piano Marshall come una manovra degli Stati Uniti che avrebbe portato i Paesi europei a perdere la propria indipendenza politica. Né Washington faceva mistero che, ridefiniti i rapporti di forza fra Vecchio Continente e Nuovo Mondo, gli Stati Uniti dovevano guidare la “crociata” occidentale contro il comunismo. In effetti, i rapporti con l'Unione Sovietica erano diventati sempre più tesi, tanto che nel giugno del 1948 i generali Clay, Robertson e Koenig introdussero nelle zone della Germania sotto il controllo delle “forze occidentali” una nuova moneta, il deutsche Mark. 9 A questa misura, decisa unilateralmente dagli “occidentali”, l'Unione Sovietica rispose con il blocco di Berlino. Era l'inizio della guerra fredda, che non solo avrebbe portato alla creazione di una Germania Ovest e di una Germania Est, ma avrebbe visto il mondo intero diviso in due blocchi nettamente contrapposti. Nell'aprile del 1949 venne firmato il Patto atlantico (duramente criticato da Mosca che lo riteneva essere pure in flagrante contraddizione con la carta dell'Onu) e nel giugno del 1950 scoppiò la guerra di Corea.
Fu dunque in questo contesto strategico, contraddistinto dall'antagonismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che venne elaborato il piano che mirava a creare un mercato comune europeo per il carbone e l'acciaio, considerato dagli europeisti il primo passo verso la realizzazione di una unione politica dell'Europa. È indubbio comunque che l'istituzione (nel 1951) della Ceca (cui aderirono sei paesi europei: Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia Italia e Germania) stimolasse (anche grazie all'aumento della domanda a causa della guerra di Corea) l'economia europea e in particolare favorisse la siderurgia tedesca che, nonostante la contemporanea espansione della siderurgia italiana e di quella olandese, mantenne intatto il primato nella produzione europea. Nondimeno, era evidente che negli anni Cinquanta l'Europa occidentale era una delle poste in gioco (con ogni probabilità la più importante) tra i due blocchi e che la stessa integrazione europea non poteva non dipendere da tale scontro, tanto è vero che subito dopo l'istituzione della Ceca si pose la questione della difesa europea, ritenuta indispensabile per arrivare ad una vera unione politica dell'Europa.
Dopo lo scoppio della guerra di Corea si era fatta più forte la pressione degli Stati Uniti sulla Francia perché si convincesse della necessità di un riarmo della Germania. Per la strategia della Nato (di cui la Germania ancora non faceva parte), incentrata com'era sul concetto di “difesa avanzata”, era essenziale che la Germania disponesse di un esercito forte ed efficiente. La Ced (ossia la Comunità di difesa europea) doveva comprendere la Germania e naturalmente essere integrata nella Nato. Ciononostante, l'Assemblea nazionale francese nell'agosto del 1954, proprio quando la Francia era traumatizzata per la notizia della caduta di Dien Bien Phu, decise di votare contro il trattato. Il fallimento della Ced dipese sia dal fatto che in Francia era ancora forte il timore di una rinascita della potenza militare (ed economica) tedesca sia dal fatto che molti francesi non vedevano affatto di buon occhio una struttura militare (e quindi inevitabilmente anche politica) sovranazionale. Sicché, mentre il successo della Ceca favorì la nascita del Mercato comune europeo (il trattato istituente il Mec venne firmato dai “Sei” a Roma nel marzo del 1957), il fallimento della Ced convinse non pochi europeisti che per arrivare ad una unione politica europea essenziali sarebbero stati i fattori economici, vale a dire che l'unione politica europea avrebbe dovuto essere la logica conseguenza di una unione economica europea.
Comunque il fatto che gli Stati Uniti appoggiassero il progetto della Ced e vedessero perfino con favore (in un certo senso) l'europeismo non deve destare meraviglia. Da un lato, la crescita economica dell'Europa era necessaria se il “mondo occidentale” doveva vincere la sfida con l'Unione Sovietica; dall'altro, lo scopo degli Stati Uniti e, in generale, dei circoli atlantisti era quello di rendere il sistema europeo (i cosiddetti “Stati uniti d'Europa”) parte costitutiva di quello nordamericano, di modo da arrivare ad un “nuovo ordine mondiale” fondato sulla supremazia degli Stati Uniti. D'altronde, i reali limiti politici dell'Europa occidentale furono chiari a chiunque dopo lo scacco anglo-francese a Suez nel 1956. (Allorché Nasser decise di nazionalizzare del canale di Suez, la Francia e la Gran Bretagna, senza consultare gli Stati Uniti, si accordarono con Israele per un intervento militare; ma, anche se Israele raggiunse tutti i suoi obiettivi, gli anglo-francesi furono costretti a fare una ignominiosa marcia indietro, non solo per la netta opposizione dell'Unione Sovietica, ma anche per quella, altrettanto netta, degli Stati Uniti). 10 D'altra parte, l'anno precedente, esattamente il 6 maggio del 1955, anche la Germania era entrata a far parte della Nato (cui l'Unione Sovietica rispose dando vita al Patto di Varsavia, pochi giorni dopo, cioè il 14 maggio del 1955). A5% tale proposito, l'ambasciatore americano a Parigi poco prima che i francesi facessero fallire la Ced era stato assai chiaro: il riarmo tedesco andava fatto ad ogni costo, poco importava se dentro o fuori la Ced. 11
Le vicende degli anni Cinquanta e ancor più quelle degli anni Sessanta avrebbero indotto parecchi europei (e non solo tra gli atlantisti) a ritenere che all'Europa conveniva non occuparsi di affari internazionali e militari. Tutto sommato (così si pensava), mentre la presenza degli americani in Europa garantiva la sicurezza del Vecchio Continente, il minore impegno degli europei sotto il profilo politico-militare rendeva disponibili molte più risorse per la crescita e lo sviluppo sociale. Perfino molti tra coloro che criticavano la politica imperialista degli Stati Uniti ritenevano che essenziali fossero le questioni economiche e sociali indipendentemente da quelle politico-strategiche, mentre la sinistra “occidentale” diventava sempre più critica nei confronti dei paesi comunisti (soprattutto dopo la fine della guerra del Vietnam) e sempre più disposta a valorizzare l'american way of life. Non tutti i politici europei però erano insensibili ai problemi politico-strategici e (soprattutto) alla questione dell'indipendenza dell'Europa. Certamente non lo era De Gaulle, che aveva maturato invece la convinzione che europeismo e atlantismo non fossero due facce della medesima medaglia, bensì si escludessero a vicenda, poiché la presenza degli Stati Uniti in Europa era incompatibile con la sovranità dei singoli Paesi europei e quindi con l'indipendenza della stessa Europa.
Già nel 1958 De Gaulle aveva proposto ad Eisenhower (che allora era il presidente degli Stati Uniti) di sostituire la direzione statunitense della Nato con una direzione composta dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. 12 Il rifiuto degli americani era scontato e contrari erano pure gli inglesi che, in specie dopo lo scacco di Suez, non volevano rinunciare al ruolo di “alleati privilegiati” degli americani (con i quali, in effetti, gli inglesi hanno più “legami” culturali di quanti ne abbiano con gli “europei continentali”). La risposta negativa di Eisenhower rafforzò il proposito di De Gaulle di andare avanti con il programma atomico militare sperimentale e, nel 1960, dallo stadio sperimentale la Francia passò allo stadio militare vero e proprio con la legge-quadro sulla “force de frappe”. De Gaulle inoltre non accettò la proposta di Kennedy di integrare le forze strategiche europee in quelle americane, cosicché i rapporti tra Francia e Stati Uniti continuarono a peggiorare, al punto che nel 1966 la Francia decise addirittura di abbandonare le organizzazioni militari della Nato e nello stesso anno De Gaulle incontrò i dirigenti sovietici a Mosca. Il comunicato finale annunciò l'istituzione di una commissione franco-sovietica per la cooperazione nel settore economico e in quello scientifico, che prevedeva il lancio di un satellite francese da parte dell'Unione Sovietica. 13 Né De Gaulle lesinò critiche agli Stati Uniti riguardo alla guerra del Vietnam e quando scoppiò la guerra arabo-israeliana del 1967 non esitò neppure a prendere le parti degli arabi.
La politica di De Gaulle però non si limitò a mettere in discussione gli equilibri politici del “mondo bipolare” prendendo posizione contro l'atlantismo (sempre distinguendolo dall'europeismo, tanto da opporsi all'ingresso della Gran Bretagna nel Mec, considerata il “cavallo di Troia” degli Stati Uniti in Europa), contro l'imperialismo statunitense in Asia e contro il “colonialismo” israeliano nel Vicino Oriente. Egli si batté anche contro il sistema “dollarocentrico” fondato sul gold exchange standard. In un famosa conferenza stampa del febbraio 1965 definì tale sistema sorpassato, non solo perché le riserve auree dei “Sei” equivalevano a quelle degli Stati Uniti, ma perché si trattava di un sistema che contribuiva a diffondere l'idea che il dollaro fosse uno strumento imparziale mentre, sottolineava De Gaulle, non era che un mezzo di credito di un unico Stato. Alle parole seguirono i fatti: la Francia si affrettò a convertire in oro tutti i dollari che aveva nelle proprie riserve. L'azione della Francia però era “isolata”, dato che nessuno dei Paesi europei sosteneva la politica estera francese (la stessa Unione Sovietica si comportò con molta cautela), e il confronto tra franco e dollaro era impari, tanto più che la Francia doveva affrontare una difficile situazione interna, che sfociò nella rivolta studentesca del maggio del 1968. In questa situazione, in cui la politica estera francese era pure ostacolata dai legami sempre più forti tra la Germania Federale e gli Stati Uniti, il valore del franco subì due notevoli ribassi (nel luglio e nel novembre del 1968 ), finché nell'agosto del 1969 si arrivò alla svalutazione della moneta francese. 14
D'altra parte, sembrava che le cifre confermassero le critiche di chi riteneva la politica gollista non solo velleitaria ma anche “controproducente” per l'economia europea. Nel periodo 1948-1962 il tasso di crescita della produzione pro capite della Francia (3,4%) - come quello dell'Italia (5,6%) e della Germania Federale (6,8%) - era stato maggiore di quello degli Stati Uniti (1,6%) e nel 1970 la quota del prodotto mondiale lordo della Cee era del 24,3% contro il 23% degli Stati Uniti. 15 Al riparo dello “scudo americano” quindi i Paesi europei crescevano più degli stessi Stati Uniti. Eppure un decennio dopo il “quadro” era cambiato: nel 1983, ad esempio, il Pnl statunitense crebbe del 24% contro lo 0,8 % della Cee (comprendente dieci Paesi, tra cui la Gran Bretagna, entrata nella Cee negli anni Settanta).16 Anche sotto l'aspetto economico allora De Gaulle non aveva visto poi così male, privilegiando un'analisi di tipo politico-strategico. All'inizio degli anni Settanta la crisi del sistema economico internazionale e il declino relativo degli Stati Uniti che, avevano sostenuto costi altissimi per la guerra del Vietnam, non erano più una questione di punti di vista. Gli Stati Uniti, che tra l'altro erano consapevoli che la bilancia commerciale americana ormai si sarebbe caratterizzata per un passivo “strutturale”, seppero comunque sfruttare la loro posizione dominante: “sganciarono” il dollaro dall'oro, rompendo unilateralmente gli accordi di Bretton Woods, e di fatto “agganciarono” la moneta statunitense al petrolio, che poteva essere acquistato solo in dollari. Il forte aumento dei prezzi petroliferi, non disgiunto appunto dalla “mossa strategica” statunitense, 17 ebbe forti ripercussioni negative all'interno dei Paesi della Cee (ad esempio, tra il 1978 e il 1982, il numero delle persone che persero lavoro salì da 5,9 a 10,2 milioni).18 E degno di nota è pure che le enormi spese degli Stati Uniti nel settore militare ebbero decisive “ricadute” nei settori chiave dell'elettronica e dell'informatica.
Negli anni Ottanta, anche alla luce della politica neoliberista di Reagan, si allargava dunque il gap strategico tra Europa e Stati Uniti, mentre anche la socialdemocrazia scandinava era messa “sotto pressione” da parte della oligarchia atlantista, di modo che quest'ultima, allorquando il sistema sovietico implose, non ebbe problemi a ristrutturare la Nato (nonostante la scomparsa del patto di Varsavia) in funzione degli interessi della potenza capitalistica predominante, non essendovi più alcuna forza politica che potesse o volesse opporsi a tale ristrutturazione. Inoltre, grazie anche al fatto che l'intellighenzia (compresi gli intellettuali provenienti dall'area marxista o “paramarxista”) e la sinistra europea erano ormai decisamente favorevoli alla società di mercato, venne drasticamente ridotto l'intervento dei singoli Stati europei nell'economia e “liquidato” un settore pubblico di rilevanza strategica come quello italiano, che pure aveva avuto un ruolo essenziale nella crescita dell'Italia nel secondo dopoguerra. Non pare strano allora che nemmeno la disintegrazione della Iugoslavia (che ha consentito agli Stati Uniti di piantare saldamente le tende nei Balcani) abbia indotto gli europei a porsi seriamente la questione della differenza tra europeismo e atlantismo, al fine di potere svolgere un ruolo geopolitico non subalterno a quello degli americani. D'altro canto, perfino il tentativo (che ormai sembra fallito) di costruire un sistema internazionale di tipo unipolare (tentativo che gli Stati Uniti hanno giustificato con la necessità di combattere il cosiddetto “terrorismo internazionale”) non ha spinto l'Europa a difendere equilibri geopolitici diversi da quelli decisi dalla potenza nordamericana.
Comunque sia, con la caduta del Muro di Berlino si veniva a delineare anche un'altra questione geopolitica, ossia quella della riunificazione della Germania, ritenuta però definitivamente risolta con il Trattato di Maastricht e l'introduzione dell'euro (il cui scopo fondamentale era appunto quello di “ancorare” la Germania all'Atlantico e - almeno così si affermava negli anni Novanta – di rafforzare l'Unione Europea). Al riguardo, non è affatto esagerato sostenere che tale concezione economicistica, che ha portato a mettere il carro (la moneta) davanti ai buoi (la politica), si è invece rivelata disastrosa per l'Europa. Con l'introduzione dell'euro (una sorta di “marco europeo”) non solo si è accentuata la differenza tra Paesi che non sono membri dell'Eurozona e Paesi che ne sono membri, ma si sono viepiù aggravati gli squilibri tra i Paesi dell'Europa Settentrionale e quelli dell'Europa Meridionale. E, quando è scoppiata la crisi finanziaria del 2007-2008, questi ultimi hanno dovuto subire una serie di attacchi da parte dei “mercati”, senza nemmeno potersi difendere, avendo ceduto gran parte della propria sovranità non all'Europa ma alla Bce, ovvero ai “mercati” medesimi. Che cosa significhi questo è noto: povertà, disoccupazione, macelleria sociale, deindustrializzazione, fallimenti a catena, pressione fiscale insostenibile e così via. Un “quadro” reso ancor più drammatico da una redistribuzione della ricchezza verso l'alto, dalle politiche d'austerità e dalla debolezza e inefficienza di classi politiche che si limitano ad eseguire i diktat della troika (Fmi, Bce, Ue) e dei “mercati”. In questa situazione è naturale che si diffonda e si rafforzi l'euroscetticismo, tanto che gli atlantisti hanno già messo le mani avanti, per così dire, proponendo il Tafta (Trans-Atlantic Free Trade Agreement), un accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti che verosimilmente equivarrebbe a mettere una pietra tombale sull'indipendenza dell'Europa. E anche ciò conferma che “questa” Ue non è piovuta dal cielo, ma è la conseguenza di determinati disegni politici e di una “volontà di potenza” che ha nomi, cognomi e perfino soprannomi
Sembra ovvio perciò che l'euro, sebbene si sia rivelato un fallimento, non sia il problema ma parte del problema che si deve risolvere. Anche se vi sono diverse soluzioni “tecniche” per porre rimedio ai mali dell'Eurozona (che non si deve confondere con l'Unione Europea né, a maggior ragione, con l'Europa), 19 fondamentale allora è rendersi conto che l'europeismo criticato dagli euroscettici non è che quell'“euro-atlantismo” che, come aveva capito De Gaulle, nulla ha a che fare con l'europeismo. I limiti anche gravi del nazionalismo di De Gaulle non si possono negare, ma è pur vero che egli è stato l'unico statista europeo del dopoguerra a comprendere, avendo il coraggio di agire di conseguenza, che l'europeismo degli atlantisti avrebbe portato l'Europa ad essere una specie d'appendice degli Stati Uniti. Oggi comunque la questione dell'indipendenza dell'Europa e della sovranità dei singoli Paesi europei si pone in modo diverso, non solo perché non v'è nessun Paese europeo che sia talmente forte da poter fare a meno degli altri, ma perché una vera unione politica europea non può che basarsi su una (relativa) autonomia dei singoli Stati europei, in quanto necessaria “cerniera” tra il centro e la periferia (cioè tra i singoli cittadini o le comunità locali e un centro politico non anti-nazionale ma sovranazionale). Una “cerniera” che naturalmente presuppone la valorizzazione delle differenze tra le aree geopolitiche che caratterizzano l'Europa, in particolare quella baltica e quella mediterranea. In definitiva, è lecito affermare che solo partendo dal riconoscimento della cultura non imperialistica degli Stati extraeuropei e promuovendo un'alternativa multipolare fondata sulla cooperazione tra i diversi poli geopolitici vale ancora la pena di difendere una concezione europeista e impegnarsi per una rifondazione della stessa Unione Europea. In questa prospettiva, tuttavia, è palese che l'alternativa che conta davvero non è tanto quella tra euroscetticismo ed europeismo, quanto piuttosto quella tra (autentico) europeismo ed euro-atlantismo.
NOTE
1. Alistair Horne, A Savage War of Peace. Algeria 1954–1962, New York, The Viking Press, 1977, p. 27.
2. Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989, p. 506.
3. Ernesto Galli della Loggia, Il mondo contemporaneo (1945-1980), Il Mulino, Bologna, 1982, p. 27.
4. Giuseppe Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 53-62.
5. Paul Kennedy, op. cit., p. 507
6. Ivi, p. 502.
7. Valerio Castronovo (a cura di ), Storia dell'economia mondiale. Dalla grande crisi del 1929 ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1982, p. 74.
8. Ivi, pp. 57-58.
9 Jean-Baptiste Duroselle, Storia diplomatica, dal 1919 al 1970, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1972, p. 448.
10. Sull'incontro segreto tra israeliani, francesi e inglesi a Sèvres e sull'intera operazione vedi, ad esempio, Benny Morris, Vittime, Rizzoli, Milano, 2001, pp. 366 e ss.
11. Giuseppe Mammarella, op. cit., p. 234.
12 Jean-Baptiste Duroselle, op. cit., p. 625.
13. Ivi, p. 638.
14. Ivi, p. 641.
15. Paul Kennedy, op. cit., p.590 e p.594.
16. Ivi, p. 642.
17. Si veda William Engdahl, A century of war. Anglo-american oil politics and the new world order, Pluto Press, Londra, 2004.
18. Paul Kennedy, op. cit., p. 643.
19. Si veda, ad esempio, Bruno Amoroso-Jesper Ispersen, L'Europa oltre l'euro. Le ragioni del disastro economico e la ricostruzione del progetto comunitario,Castelvecchi, Roma, 2012.