Immigrazione: altre foto, stesse finalità
di Luciano Fuschini - 28/09/2015
Fonte: Il Ribelle
Dopo Aylan, altri bambini sono annegati senza l’onore di una foto. In compenso, ora circola nel mondo l’immagine di una bimbetta siriana che gattona davanti a poliziotti appoggiati agli scudi.
La foto di Aylan e quella della bimbetta esprimono situazioni e simbolismi diversi, quasi opposti, ma rispondono allo stesso fine.
Le diversità sono evidenti. Aylan è un piccolo cadavere prono davanti a quel mare che ha una doppia valenza simbolica: è via verso un Altrove, quell’avvenire migliore che doveva attendere il bambino, ma è anche barriera, ostacolo, abisso da superare in una prova in cui si mette a repentaglio la vita. E quel volto riverso al suolo, lambito dall’onda, è l’immagine di una speranza stroncata sul nascere, di un progetto di vita tragicamente spezzato.
La bambina che zampetta a quattro gambe ha il volto alzato, proteso verso l’avvenire che è al di là dello sbarramento di polizia. Ma quello sbarramento non ha nulla di minaccioso. I poliziotti sono rilassati, appoggiati ai loro scudi. Alcuni di loro sorridono alla nuova vita che si protende fiduciosa verso un futuro.
Situazioni diverse per un fine identico: suscitare un’ondata di simpatia nei confronti di masse migranti che non hanno l’aspetto inquietante dell’invasione dietro la quale si potrebbero scorgere calcoli affaristici o progetti politici o propositi di islamizzazione dell’Europa, bensì sono costituite da famigliole che chiedono solo un altro futuro per i loro figli.
La realtà è che l’effetto propagandistico ottenuto con la foto di Aylan è già svanito. Gli umori della massa indotti artificiosamente non hanno vita lunga. L’iconografia propagandistica produce effetti duraturi quando stimola i sentimenti profondi delle moltitudini e il sentimento profondo è di paura, di ostilità, di avversione. Gli “accoglienti”, le “suorine catto-progressiste”, elaborano ideologicamente la loro scelta, ma la concettualizzazione ha un sentore di falsità agli occhi dei più.
I governi lo hanno immediatamente percepito. I “buoni”, Merkel (quella stessa però che poco prima aveva fatto piangere la ragazzina palestinese), il governo croato, che si erano indignati davanti al cattivo di turno, nella persona di Orban, capo del governo ungherese, hanno rapidamente rovesciato il tono dei loro commenti. La Germania è disposta ad accogliere solo siriani per l’industria automobilistica tedesca, che dal loro impiego, che abbasserà ulteriormente i salari di operai e tecnici, ricaverà profitti ancora più grandi e vantaggi concorrenziali (ma questo non si può dire alle masse). La Croazia, da parte sua, ora imita i cattivoni ungheresi chiudendo le frontiere e schierando l’esercito.
Dietro queste incongruenze e questi rapidi voltafaccia, c’è il calcolo politico-elettoralistico che cavalca gli umori mutanti, ma c’è anche l’incapacità di gestire una situazione obiettivamente difficile.
C’è chi ricorda che alla fine della seconda guerra mondiale quindici milioni di persone si spostarono dalle loro terre, per limitarci al caso europeo. Ma erano minoranze nazionali trovatesi esposte a causa dei confini che erano mutati. Per esempio erano tedeschi espulsi da terre diventate polacche o russe. Erano profughi che appartenevano comunque a uno stesso orizzonte culturale e religioso rispetto ad altri popoli europei e che ad ogni modo andavano a ricongiungersi alle loro nazionalità.
Anche l’Italia conobbe il fenomeno, coi nostri connazionali che fuggirono dalle regioni diventate jugoslave.
Niente da spartire con le attuali migrazioni di masse portatrici di culture, costumi, lingue, religioni non assimilabili a quelle dei popoli presso i quali chiedono, o pretendono, asilo.
Non regge neppure l’obiezione di chi ricorda che Turchia, Libano e Giordania ospitano milioni di iracheni e siriani in fuga dalla guerra. Quei fuggiaschi sono paragonabili ai nostri “sfollati” durante il secondo conflitto mondiale, quando tanti cercavano rifugio nelle campagne per sfuggire ai bombardamenti aerei che si accanivano sulle città. Molti di loro erano e sono rifugiati temporanei, che attendono il ritorno alla normalità per rientrare nei loro paesi, non sono milioni di uomini e donne che cercano fortuna all’estero per crearsi una nuova vita.
Del resto anche Turchia, Libano e Giordania stentano a gestire il problema, tanto è vero che ora lo riversano sull’Europa.
La situazione è dunque obiettivamente difficile e proprio perché tale esigerebbe un ceto politico europeo all’altezza dei tempi. Abbiamo invece dei pupazzi ciarlieri e senza spina dorsale. Anche per questo i loro discorsi della mattina sono incoerenti con quelli della sera.
Il “qui lo dico e qui lo nego” è la regola dei politicanti. Cercansi statisti, disperatamente.