Rai: la favola del servizio pubblico
di Aldo Giannuli - 09/11/2015
Fonte: Aldo Giannuli
Ogni qual volta si tocca il tasto della Rai, invariabilmente, il partito pro ente di stato inalbera l’argomento del “servizio pubblico” che, in quanto tale, deve essere garantito dallo Stato. Stanno proprio così le cose?
In primo luogo, forse non è inutile ricordare chela Rai nasce dalle ceneri dell’Eiar, istituita dal regime fascista che le attribuì il monopolio del servizio pubblico delle emissioni radiofoniche e, nel 1935 la pose alle dirette dipendenze del Ministero della Stampa e della Propaganda. Un’origine non proprio democratica, se vogliamo. Comunque, anche altri paesi (come l’Inghilterra) adottarono la soluzione dell’ente di stato, nel presupposto della natura di servizio pubblico che le attività radiofoniche (e poi televisive) avrebbero dovuto avere: fornire informazione, svolgere ruolo di educazione civica, di canale di comunicazione della politica con la società, promuovere la formazione culturale del popolo ecc. In questo quadro, trasmissioni di intrattenimento (film, avvenimenti sportivi, varietà, musica leggera ecc.) erano visti come elemento accessorio del servizio e, semmai, erano favoriti spettacoli di elevato livello artistico come spettacoli teatrali, concerti di musica classica, opere liriche, film d’autore ecc.
In effetti, al suo sorgere, la Televisione italiana ebbe un palinsesto nel quale la maggior parte era occupata dalle trasmissioni di informazione (telegiornale, servizi speciali, trasmissioni di inchiesta ecc.), di tipo politico (tribune politiche, elettorali e sindacali ecc) ed educativo-culturali (dalla popolarissima “Non è mai troppo tardi” al super sofisticato –e noiosissimo- “Approdo”, dalle rievocazioni storiche alle “risposte del prof. Cutolo”). A queste trasmissioni dovremmo aggiungere quelle di tipo religioso (da “padre Mariano” alla messa domenicale) o di categoria (ad esempio la “tv dell’agricoltore”). E questa è la parte che possiamo considerare vero e proprio servizio pubblico che occupava circa un po’ più del 50% dell’orario delle trasmissioni, cui si sommavano le non poche ore dedicate a quelle di alto profilo culturale (prosa, musica classica ecc.). Dunque alla parte di intrattenimento in senso stretto (compresa la tv dei ragazzi) restava fra un terzo ed un quarto dell’orario con l’eccezione dei periodo estivo, durante il quale la parte di intrattenimento prevaleva, soprattutto grazie alle repliche.
Una Tv a forte vocazione pedagogica, se vogliamo, un po’ bacchettona e noiosa, che però produsse anche grandi spettacoli.
Certamente un modello oggi improponibile, se non attraverso l’ipotesi di una rete specializzata: L’assenza di alternative permetteva di imporre il prodotto televisivo qualsiasi fosse il suo tasso di afflizione. Le cose iniziarono a cambiare con la comparsa del secondo canale (1962) che, permettendo di scegliere fra una trasmissione più impegnata ed una più leggera, spingeva regolarmente la maggioranza a scegliere la seconda. Comparvero le prime forme di contaminazione fra argomenti “seri” e forme “leggere” (ad esempio i talk show o trasmissioni di “comicità intelligente” come “L’altra domenica”) e, nel complesso, il livello culturale e di “servizio” della Tv restò abbastanza alto sino a tutti gli anni settanta. Le cose mutarono rapidamente con la comparsa delle Tv commerciali, che ebbero diffusione più che regionale a partire dagli ultimissimi anni settanta. A metà anni ottanta si era già formato il gruppo mediaset-fininvest, con le sue tre reti che divenne il vero parametro di confronto della Rai Tv. L’esigenza di contendere l’audience al gruppo avversario, spinse a modellare la Tv sui desideri delle fasce di ascoltatori che passano più tempo davanti alla Tv: pensionati e casalinghe che, peraltro, sono anche le fasce meno colte e più conservatrici. La Rai fece sparire la parte di alta qualità (prosa, concerti, film d’autore) ridusse ai minimi termini, la parte più politica sostituendola con i talk show talk show (ormai di sempre minor successo), le trasmissioni di inchiesta scarseggiano, mentre è molto cresciuto l’intrattenimento soprattutto attraverso l’espansione dello spazio dello sport e le telenovelas o simili.
Nel complesso, oggi Mediaset e Rai sono una il clone dell’altra ed i relativi palinsesti sono sostanzialmente intercambiabili.
Ed allora, in queste condizioni, che senso ha parlare di servizio pubblico? Perché la Rai sarebbe servizio pubblico e la Mediaset no? Per la proprietà? La proprietà pubblica dovrebbe garantire una maggiore obiettività dell’informazione e che non si facciano gli interessi di alcun partito politico o di gruppo industriale o finanziario. Molto bene, ma chi si sente di affermare che l’informazione Rai sia più corretta di quella Mediaset? Di fatto, la Rai (e non da oggi) offre una informazione allineata alla parte politica di governo, o mi sbaglio? Ed anche la selezione del personale, dai film agli originali televisivi ai conduttori ed ai cominci, non di rado indulge a preferire uomini di spettacolo politicamente allineati. Certo non sempre e offrendo anche giornalisti ed artisti di grande qualità, ma , se è per questo, anche in Mediaset non sono mancati giornalisti e artisti “non allineati” come ad esempio Leo Gullotta (che era simpatizzante di Rifondazione Comunista) o Mentana (che ha sempre fatto il suo mestiere con correttezza). Ed allora?
Dunque se vogliamo parlare dell’emittenza radio televisiva in Italia partiamo da un dato: il servizio pubblico non esiste più ed è solo un mantra senza senso. Esiste una Tv privata ed una ugualmente provata che è posseduta dai partiti, e in prevalenza quelli di governo. Possiamo dirci almeno questa verità?