La demolizione dello Stato sociale
di Danilo Zolo - 09/11/2015
Fonte: Appelloalpopolo
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Molti autori hanno sostenuto e sostengono tuttora che il livello più alto raggiunto in Occidente da un sistema politico nel tentativo di regolare e ridurre la paura è stato senza dubbio il Welfare state o Stato sociale. Si è trattato di uno sviluppo del cosiddetto rule of law o ‘Stato di diritto’: un sistema politico, tipico della modernità europea, impegnato a imporre vincoli giuridici all’esercizio del potere in modo da garantire ai cittadini una serie di diritti soggettivi da far valere sia nei confronti degli altri soggetti, sia nei confronti delle autorità statali. Le libertà fondamentali, l’habeas corpus, la proprietà privata, l’autonomia negoziale, il suffragio universale e in generale i diritti politici sono aspettative e interessi costituzionalmente garantiti che, nella misura in cui sono stati effettivamente sanzionati, hanno prodotto un livello accettabile di sicurezza individuale e collettiva, sia pure con una esplicita o latente discriminazione del genere femminile.
Lo Stato sociale, a partire dagli anni trenta del Novecento, ha tentato di andare oltre lo Stato di diritto garantendo, sia pure in forme che sono state giudicate insufficienti o distorte, i cosiddetti ‘diritti sociali’: il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione e alla salute, un’ampia serie di prestazioni pubbliche di carattere assicurativo, assistenziale e previdenziale. Si può dire che lo Stato sociale si è fatto carico dei rischi – e quindi della paura – strettamente legati all’economia di mercato, fondata su una logica contrattuale e concorrenziale che suppone la diseguaglianza economico-sociale dei soggetti contraenti o concorrenti e la riproduce senza limiti. L’economia di mercato è un potente fattore di paura per i singoli soggetti nonostante il suo eccezionale potenziale produttivo, o forse proprio per questo. Lo Stato sociale, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, ha tentato di limitare i rischi del mercato e di diffondere sicurezza con una serie di misure destinate a compensare attraverso servizi pubblici e prestazioni finanziarie i processi di discriminazione e di emarginazione inevitabilmente connessi con la logica del profitto. In questo senso lo Stato sociale è stato il più efficace tentativo di introdurre nei rapporti di produzione e di distribuzione della ricchezza elementi di giustizia e cioè di eguaglianza sostanziale (non puramente formale).
E tuttavia oggi un’opinione largamente condivisa ritiene che il Welfare state attraversi una crisi molto grave e che al fondo di questa crisi siano i processi di trasformazione economica e politica che vanno sotto il nome di globalizzazione. Autori come Ulrick Beck, David Garland, Loïc Wacquant, Zygmunt Bauman, Robert Castel, Luciano Gallino hanno sottolineato che la globalizzazione per un verso ha celebrato il trionfo planetario dell’economia di mercato, in particolare nelle sue modalità finanziarie. Per un altro verso ha eroso le strutture sociali e politiche di gran parte degli Stati nazionali degradandone la coesione identitaria e comunitaria e limitandone drasticamente la capacità di produrre sicurezza. Altri autori – e sono la maggioranza – aderiscono alla tesi del trade-off, sostenendo che gli investimenti e le politiche assistenziali dello Stato sociale ostacolano la crescita economica. L’onere di un’ampia serie di rischi deve essere perciò posto a carico non dello Stato ma dei singoli cittadini, secondo un approccio orientato a privatizzare la responsabilità del rischio e la metabolizzazione della paura. Questa translazione del rischio vale in particolare per i settori della sanità, dell’istruzione e delle pensioni, nei quali le prestazioni del bilancio pubblico tendono in molti paesi occidentali ad una progressiva restrizione. Anche le politiche di sicurezza urbana – si pensi alle guardie giurate e alle ronde di quartiere – tendono ad essere privatizzate. Nel frattempo la crescente instabilità dei mercati, i cambiamenti demografici, le grandi migrazioni e l’evoluzione dei sistemi produttivi dei paesi più ricchi hanno contribuito a determinare una contrazione delle retribuzioni del lavoro e una diffusa incertezza e instabilità dei rapporti contrattuali, in particolare a carico delle donne lavoratrici. Per le nuove generazioni il lavoro è diventato un bene sempre più scarso, precario, segmentato, insufficientemente retribuito, ‘flessibile’, anche a causa della concorrenza ‘globale’ di paesi caratterizzati da un eccesso di forza-lavoro e da una scarsa protezione dei diritti dei lavoratori. La frammentazione del tessuto sociale che ne deriva sembra minacciare la coesione della società civile, indebolire il senso di appartenenza, indurre apatia politica, alimentare la criminalità e la corruzione, fomentare fondamentalismi e secessionismi di vario tipo, diffondere l’uso delle droghe e dell’alcol fra i giovani più fragili e insicuri. Da qui, da una marea crescente di solitudine e frustrazione, emerge una sconfinata richiesta di protezione e una febbrile esigenza di sicurezza e incolumità che investe i cittadini e le cittadine prescindendo dalla loro posizione sociale, dal loro livello culturale e dalle loro credenze religiose.
Questo scenario di crescente insicurezza, instabilità e turbolenza delle relazioni politiche interne e internazionali è allarmante soprattutto perché mostra quella ‘insufficienza della polis‘ di cui ha parlato Daniel Bell, intendendo l’assenza di un’opinione pubblica internazionale indipendente dagli interessi e dalle strategie delle grandi potenze e perciò adeguata al livello di gravità, complessità e interdipendenza dei problemi politici e giuridici da affrontare. Siamo dunque su un terreno assolutamente estraneo all’idea del diritto come giustizia e della giustizia come eguaglianza.