I legami dei sauditi con il terrorismo
di Daniel Lazare - 23/11/2015
Fonte: Aurora sito
Esclusiva: mentre Washington dedica molto rumore e furore alle richieste di una guerra più ampia in Siria e la necessità di allontanare i rifugiati siriani, democratici e repubblicani evitano la domanda più difficile: come affrontare l’Arabia Saudita sul suo finanziamento occulto di Stato islamico e al Qaida, scrive Daniel Lazare.Come lo SIIL finanzia le sue operazioni? Questa è la questione chiave mente la guerra all’organizzazione terroristica passa a un nuovo livello dopo le atrocità di Parigi. Ma la risposta dei media mainstream è parte del problema. La risposta concessa, da molti capi politici e vari “esperti del terrorismo”, è che lo SIIL (noto anche come Stato islamico e Daash) finanzi le proprie attività con attività illecite come contrabbando di antichità, sequestro di persona a scopo di estorsione, rapine di banche e traffico di greggio dai giacimenti di petrolio che controlla nel nord della Siria e d’Iraq. La linea, doverosamente ripetuta a pappagallo da The New York Times a The Wall Street Journal e The Guardian, è solo politicamente conveniente. Se lo SIIL fosse veramente autosufficiente, essenzialmente sarebbe contenuto. Se fosse così, tutte le potenze occidentali una volta bloccato l’auto-proclamato califfato, dovrebbero solo inviare F-18 e Mirage 2000 per raderlo al suolo con le bombe intelligenti. Questa è la filosofia che ispira le sfortunate osservazioni del presidente Barack Obama del 12 novembre, quando il conduttore dell’ABC George Stephanopoulos gli chiese se lo SIIL si stava rafforzano, Obama rispose che semplicemente non era così: “Ciò che è vero è che, fin dall’inizio, il nostro obiettivo è stato primo contenerlo, e l’abbiamo contenuto. Non è avanzato in Iraq. E in Siria come è entrato, se ne andrà. Ma non si vede questa marcia continua dello SIIL sul campo. Ciò che non possiamo fare ancora è decapitare completamente le loro strutture di comando e controllo. Abbiamo fatto qualche progresso nel tentativo di ridurre il flusso di combattenti stranieri“. Contenerlo e decapitarlo, ecco l’essenza della strategia degli Stati Uniti. Quindi, più l’amministrazione Obama cerca di contenere militarmente lo SIIL, più si dice che è anche autosufficiente economicamente. Ma cosa succederebbe se non lo fosse? In realtà, ci sono tutte le ragioni d’essere scettici sulla posizione degli Stati Uniti, e non solo perché i capi statunitensi sostengono senza successo da quasi due decenni la lotta al terrorismo islamico, ma anche perché è passato da alcune cellule sparse a un vasto movimento che si estende dalla Nigeria al Bangladesh.
Esagerando le cifre
Quindi partiamo dal passato. L’anno scorso, NBC News riferiva col fiato sospeso che lo SIIL gestiva un contrabbando da 7 miliardi di dollari per finanziare le sue operazioni. “Pezzi di storia senza prezzo strappati da scavi illeciti o rubati dai musei sono diventati uno dei quattro beni più comuni, accanto a droga, armi ed esseri umani, trafficati da contrabbandieri“, dichiarava. Ma il totale di 7 miliardi di dollari è dubbio se si considera che il mercato dell’arte contemporanea, naturalmente legale, ammonta a soli 2 miliardi di dollari. I mercati neri ci sono, ma è impossibile misurarli per il semplice motivo che i partecipanti si disperdono come topi non appena le luci si accendono. Il ruolo dello SIIL, inoltre, è doppiamente difficile dato che opera sotto una copertura profonda. Ma sappiamo un po’ di cose, una delle quali è che le antichità non si muovono facilmente come, ad esempio, il mais o il grano. Al contrario, gli acquirenti sono relativamente pochi e distanti tra loro, sono necessarie valutazioni e la contrattazione è standard. Con così tanta polizia a curiosare in giro, gli acquirenti sono particolarmente cauti per farsi scoprire a finanziare lo SIIL. Così il ruolo delle antichità sembrerebbe essere non più che accessorio. Lo stesso vale per le rapine in banca. Anche se lo SIIL è ampiamente ritenuto aver sottratto 400 milioni quando occupò Mosul, nel nord dell’Iraq, nel luglio 2014, il Financial Times parlò della più grande rapina “mai successa”. “Parliamo alle banche di lì sempre”, citava un funzionario bancario iracheno. “Siamo stati informati che tutte erano custodite dalle loro guardie e che nulla fu tolto dalle locali banche, nemmeno un pezzo di carta“. Il rapimento a scopo di estorsione sembra ancor meno redditizio per l’economia del territorio controllato dallo SIIL che collassa. Idem per la fiscalità locale. Mentre le vendite illegali di petrolio possono svolgere un ruolo importante, probabilmente non sono così redditizie come si crede. Supponendo fossero piani fino all’orlo, le 116 autocisterne che gli aerei statunitensi hanno distrutto il 16 novembre avrebbero contenuto un centinaio di barili di greggio ognuna, che ai prezzi attuali, lo SIIL sarebbe stato fortunato a vendere per 30 dollari al barile. Pertanto, il danno al “tesoro” dello Stato Islamico è relativamente minore, 350mila dollari circa. Inoltre, lo SIIL è ormai un’enorme operazione. Stime indicano il numero di militanti da 20000 a 31500 (secondo la CIA nel settembre 2014) fino a 200000, anche se 100000 sembra più plausibile. Costoro guadagnerebbero comunque da 350 a 800 dollari al mese. Sono numeri molto imprecisi, ma per lo meno suggeriscono un’organizzazione con un budget mensile di decine di milioni di dollari. Così i proventi di cento e rotti camion di petrolio non spiegano come lo SIIL si finanzi. Né la speculazione sulla vendita di antichità. Quindi, se lo Stato islamico non riceve la maggior parte dei fondi da tali fonti, da dove proviene il denaro?
La connessione saudita
La risposta politicamente sconveniente è dall’estero, vale a dire, da altre parti del Medio Oriente, dove i giacimenti di petrolio non sono marginali come nel nord della Siria e in Iraq, ma piuttosto ricchi e produttivi; dove le raffinerie sono avanzate e il petrolio viaggia nelle tubature anziché in camion. E’ anche un mercato in cui la corruzione è massiccia, i controlli finanziari scarsi e le simpatie ideologiche per SIIL e al-Qaida forti. Ciò significa dagli Stati arabi del Golfo, Quwayt, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita; Paesi dalle enormi riserve di ricchezza nonostante il crollo del 50 per cento del prezzo del petrolio. Gli Stati del Golfo sono politicamente autocratici, sunniti estremisti e, inoltre, bloccati in un brutto vicolo cieco ideologico. Nel mondo, i sunniti sono quattro volte gli sciiti. Ma nelle otto nazioni del Golfo Persico, la situazione è invertita, gli sciiti superano i sunniti di quasi due a uno. Più il mondo diventa teocratico, e la teocrazia è una tendenza non solo nel mondo musulmano, ma in India, Israele e persino Stati Uniti se certi repubblicani si affermano, più il settarismo s’intensifica. Nella sua forma più semplice, il conflitto tra sunniti e sciiti è una guerra di successione tra i seguaci di Maometto, morto nel settimo secolo. Quando una parte ha sempre più controllo politico in nome dell’Islam, il più vulnerabile dall’altra parte viene accusato di avere pretese al potere sempre meno legittime. La famiglia reale saudita, che si spaccia “custode delle due moschee sante” di Mecca e Medina, è particolarmente sensibile a tali accuse, se non altro perché la sua posizione politica sembra sempre più precaria. È per questo che si è gettata nella crociata anti-sciita dallo Yemen al Bahrayn e alla Siria. Mentre Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia condannano Bashar al-Assad come dittatore, non è il motivo per cui i ribelli sunniti combattono per rovesciarlo. Lo fanno, invece, perché è un alawita, una forma di sciismo, ramo dell’Islam che i petro-sceicchi di Riyadh considerano una sfida alla loro stessa esistenza. La guerra civile è raramente moderata, e come la lotta contro Assad s’intensifica, il potere tra i ribelli passa a forze sunnite sempre più militanti, fino ad al-Qaida e al rivale ancora più aggressivo SIIL. In altre parole, lo Stato islamico non è interno e autosufficiente, ma prodotto e beneficiario di forze più grandi, in sostanza un esercito paramilitare di ascari degli sceicchi del Golfo. La prova dell’ampio sostegno regionale è abbondante anche se la stampa, come il New York Times, fa di tutto per ignorarlo. Alcuni dei punti salienti della rotta del denaro:
– In una nota diplomatica del 2009 resa pubblica da Wikileaks, l’allora segretaria di Stato Hillary Clinton dichiarò che “i donatori sauditi costituiscono la principale fonte di finanziamento dei gruppi terroristici sunniti nel mondo“. (Al discorso aggressivo presso il Council on Foreign Relations, Clinton, ora la favorita alla nomination presidenziale democratica, concentrava i piani di escalation militare, tra cui l’invasione della Siria per “imporre la no-fly zone” e creare ciò che chiamava “zona di sicurezza”. Ma aggiungeva un breve ed esasperato riferimento alla realtà finanziaria, dicendo: “una volta per tutte, sauditi, qatarioti ed altri devono impedire ai loro cittadini di finanziare direttamente le organizzazioni estremiste come pure scuole e moschee nel mondo che radicalizzano troppi i giovani“).
– Un rapporto dell’agosto 2012 della Defense Intelligence Agency afferma che al-Qaida, salafiti e Fratellanza musulmana dominano il movimento ribelle in Siria e che loro obiettivo è creare un “principato salafita in Siria orientale“, dove ora c’è il califfato dello Stato islamico.
– L’articolo del Times di due mesi prima secondo cui la CIA collabora con i Fratelli musulmani per inviare via canale turco-saudita-qatariota armi ai ribelli sunniti in Siria.
– La notevole ammissione del vicepresidente Joe Biden alla Kennedy School di Harvard nell’ottobre 2014, secondo cui “sauditi, emirati, ecc… erano così decisi ad abbattere Assad ed essenzialmente a scatenare la guerra tra sunniti e sciiti… (che) hanno speso centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi per tutti coloro che combattono contro Assad, tranne che coloro che rifornivano erano al-Nusra e al-Qaida“.
– L’editoriale del Times del mese scorso che lamentava come sauditi, quwaytiani e qatarioti continuino a finanziare lo Stato islamico.
– Infine, in un articolo in prima pagina, il Times tardivamente riconosceva il devastante rapporto della DIA, solo sei mesi dopo essere stato pubblicato dal gruppo di osservazione conservatore Judicial Watch. Ma anche allora, il giornalista Ian Fisher riusciva ad evitare la parte più importante, e cioè che la roccaforte salafita che i sunniti cercano di creare è “esattamente ciò che le potenze che supportano l’opposizione“, cioè occidente, Stati del Golfo e Turchia, “vogliono per isolare il regime siriano“. Asserendo che ci sono “molte filiere colpevoli” della debacle, Fisher riusciva a criticare tutti tranne la propria testata.
Chiacchiere sui soldi
Perché dire la verità è così difficile? Grande parte della risposta è il denaro. Perché Stati Uniti, Francia e le altre potenze occidentali dipendono dagli Stati del Golfo per il petrolio e li vedono g come un mercato sempre più importante per le armi ad alta tecnologia. Proprio il mese scorso, il Pentagono ha annunciato di vendere ai sauditi 4 navi da combattimento litoranee realizzate dalla Lockheed per 11,25 miliardi di dollari, mentre la scorsa settimana appariva la notizia che vendeva ai sauditi 1,29 miliardi di bombe intelligenti prodotte da Boeing e Raytheon in sostituzione di quelle sganciate sullo Yemen nella crociata contro gli sciiti huthi. Gli USA riforniscono quindi i sauditi di bombe con cui radono al suolo quartieri yemeniti, creando rifugiati e, nel frattempo, rafforzando “al-Qaida nella Penisola Araba” in modo che gli Stati Uniti possano inviarvi droni per eliminare un paio di alqaidisti. Ognuno ci guadagna, fabbricanti d’armi, politici del Pentagono e di Washington, i Clinton che beneficiano della generosità saudita, ed anche al-Qaida che, mentre può perdere qualcuno, vede il proprio potere crescere. Far notare i soldi che da Arabia Saudita e altri Stati del Golfo finiscono ai gruppi responsabili della carneficina a Parigi, metterebbe a rischio tale mutuo rapporto vantaggioso. Mettere a repentaglio tale redditizio ciclo del denaro è una cosa che Washington non può sopportare, motivo per cui l’amministrazione Obama preferisce fare credere che lo SIIL sia autosufficiente e che possa essere paralizzato da azioni militari come bombardare un convoglio di autocisterne di petrolio. Mentre in Europa esplode la xenofobia, il vero problema non sono gli arabi o l’Islam, ma lo “speciale” rapporto Usa-Arabia Saudita, che sarebbe ancora più sacro del rapporto con Israele. È un’alleanza che pretende che gli Stati Uniti non vedano, sentano o parlino male del principale partner arabo. Quindi, Washington copre la vera causa degli orrori che vanno dal World Trade Center al Bataclan e alla guerra civile siriana.
Finché tale rapporto “speciale” USA-Arabia Saudita Saudita continua, i cadaveri continueranno ad accumularsi.Daniel Lazare è autore di diversi libri tra cui La Repubblica congelata: come la Costituzione paralizza la democrazia (Harcourt Brace).
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora