Caos climatico
di Alberto Castagnola - 28/12/2015
Fonte: Comune info
Premessa
Il 12 dicembre 2015 si è conclusa a Parigi la 21 Conferenza delle Parti e subito è stato un fiorire di commenti che tendevano a sottolineare questo o quell’aspetto dei risultati approvati, diversi a seconda delle posizioni politiche assunte verso questo evento organizzato dall’Onu, oppure secondo le aspettative più o meno deluse di esperti e organismi, istituzionali o di movimento. Alcuni commento sono decisamente troppo drastici oppure fortemente ideologici, altri si limitano a mantenersi sulla superficie dei problemi affrontati. Pochi sono quelli che dagli intensi lavori svolti dalle 195 delegazioni, rappresentanti di paesi oppure di coordinamenti di paesi o di organizzazioni non governative, hanno saputo trarre delle indicazioni per i comportamenti futuri che si devono adottare verso questa complessa e multiforme iniziativa internazionale.
Quanto segue non aspira ad essere una lettura completa e scevra di errori (pochi riescono a padroneggiare le logiche delle burocrazie internazionali!), però tende, per molti punti essenziali dei documenti approvati, a chiarire le premesse e la reale portata delle scelte fatte, in una prospettiva dal basso, cioè sottolineando quanto i movimenti per l’ambiente dovrebbero fare nei prossimi mesi ed anni per esercitare sui governi le pressioni necessarie – da oggi sempre più essenziali – affinché vengano realmente bloccate le emissioni nocive per l’ecosfera e vengano ristabiliti gli equilibri planetari. Più che di una analisi critica si tratta quindi di uno strumento di lavoro, che spero sarà apprezzato da un numero rapidamente crescente di gruppi e di persone.
Commenti
Tra parentesi, i punti del Testo della Conferenza delle Parti e gli articoli dell’Accordo di Parigi riportati nel suo Annesso.
1. (Decima premessa della Conferenza e articolo 2 dell’Accordo approvato). Nella prima si riconosce in modo molto preoccupato l’urgente necessità di affrontare la distanza tra gli impegni per ridurre le emissioni indicati dai governi con scadenza 2020 e le tendenze delle emissioni globali, rispetto alla necessità di non superare i 2 gradi centigradi del riscaldamento planetario e anzi di cercare di portarlo a un grado e mezzo sempre in relazione ai livelli preindustriali. Nel secondo testo, uguale indicazione ma si aggiunge che “ciò dovrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti del cambiamento climatico” . A questi contenuti è stato attribuita una attenzione massima, e giustamente, in quanto stabiliscono in modo inequivocabile la portata del fenomeno globale in atto e degli interventi necessari che i singoli governi devono realizzare. Tuttavia non si può dimenticare che l’Ipcc nel suo quinto rapporto (fatto proprio dall’Onu in una recente assemblea), chiedeva che si realizzassero cospicui investimenti per incidere sulla riduzione delle emissioni negli anni 2015-2020, (e un anno è già passato), condizione essenziale perché gli ulteriori interventi modificassero realmente il clima. Come si vedrà più avanti, non si prevede di rispettare questa tempistica e quindi il valore dei due testi ne risulta non poco svuotato. Anche la frase dell’articolo 2 che parla di ridurre i rischi e non di eliminazione del fenomeno, rappresenta una dizione forse realistica ma poco incoraggiante. Ancora, l’Accordo, nello stesso articolo, auspica che le misure da adottare non minaccino la produzione di alimenti (per paura di veder ridurre il gasolio per i macchinari dell’agricoltura meccanizzata?) e di garantire sufficienti risorse finanziarie per realizzare gli interventi necessari, ma nel contempo di far scomparire la povertà, obiettivo ovviamente condivisibile ma che potrebbe risultare non perseguibile specie nella fase di transizione verso una economia energetica non dannosa per il pianeta.
2. (Punto 17 del testo della Conferenza). Emerge un dato importante. Al 1° di ottobre risultavano aver presentato i rispettivi documenti con impegni e prospettive nazionali 160 paesi; una rapida analisi mostrava che malgrado gli interventi previsti le emissioni di gas serra avrebbero superato il limite proposto, raggiungendo i 2,7 gradi. Successive analisi, non ufficiali e che non specificavano il numero dei paesi adempienti, che avevano circolato prima dell’inizio dei lavori, indicavano un 3-3,5 gradi. Un commento pubblicato dopo la conclusione dei lavori da Global Footprint Network indicava cifre comprese fra i 3 e i 7 gradi. Si tratta di cifre di massima ma sono viste con preoccupazione anche dagli estensori del testo della Conferenza. E forse ancora qualcuno dei grandi inquinatori mancava ancora all’appello. Il grado di consapevolezza di molti governi lasciava quindi molto a desiderare.
3. (Punto 2 della Conferenza e articolo 20 e 21 dell’Accordo). L’accordo sarà disponibile per le firme e le ratifiche dal 22 aprile 2016 al 21 aprile 2017 ed entrerà in vigore trenta giorni dopo che almeno 55 Parti della Conferenza, che insieme rappresentino almeno il 55 per cento delle emissioni di gas serra, abbiano firmato. Queste scadenze che allungano ulteriormente i tempi sono forse inevitabili a livello della megastruttura dell’Onu, però è molto difficile prevedere una “corsa” alla firma dei maggiori paesi inquinatori, spinti dal desiderio di affrontare il problema del clima, e inoltre le mancate firme al Protocollo di Kyoto, in particolare quella degli Stati Uniti, sono un ricordo non certo cancellato e un evento drammatico che potrebbe ripetersi. Questo rischio è forse uno dei motivi per cui il negoziato ha evitato di suscitare conflitti aperti e prese di posizione governative difficilmente recuperabili nei prossimi mesi.
4. Leggendo i 140 punti del documento approvato dalla Conferenza delle parti (al quale è allegato il testo dell’Accordo vero e proprio), chi si aspettava un piano massiccio di interventi volti ad iniziare a ridurre le emissioni in tempi molto brevi, può rimanere molto deluso. In realtà c’è un passaggio formale, ma non di poca importanza: il testo dell’Accordo deve prima essere firmato o ratificato da tutti i paesi finora coinvolti e anzi potrebbero firmare anche paesi che non partecipano alla Conferenza delle Parti o altri coordinamenti di paesi che preferiscono partecipare come reti e non come singoli governi. Questa procedura potrebbe essere accelerata se una larga maggioranza dei paesi coinvolti si precipitassero a firmare, ma invece si prevede di lasciare aperta la possibilità di adesione per oltre un anno. Quindi due parti del documento della Cop dedicano una parte consistente dei punti trattati al proseguimento e al potenziamento degli interventi di adattamento e di mitigazione già decisi a Cancun, che però erano largamente volontari e di fatto non dovevano tenere presenti degli obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni, cioè non venivano valutati in base alla loro capacità di incidere sul riscaldamento globale. In sostanza si continua una fase di transizione, non negativa in linea di principio, ma che non teneva sufficientemente conto di una crisi climatica in fase di accelerazione.
Quindi in pratica il documento prevede che questo tipo di intervento continui fino al 2020, affidato alla buona volontà di singoli governi e soltanto con risorse modeste, non in grado di incidere sui principali fenomeni del riscaldamento globale, ma solo di evitare danni incontrollabili e alcuni effetti più gravi.
A Parigi, quindi, – non riuscendo a mettere tutti d’accordo su obiettivi vincolanti – si è deciso di avviare un processo meno traumatico: si sono raccolti gli impegni spontaneamente decisi dai singoli governi, e si è scelta la strada di una loro graduale correzione e il limite è stato spostato al 2020, quando è previsto di rimodulare i rispettivi impegni. Ovviamente il problema è che in tal modo non si è tenuto conto delle indicazioni pressanti e duramente realistiche dell’Ipcc (l’organismo altamente scientifico dello stesso Onu). Scorrendo i testi ufficiali si può però notare che in realtà si sono anche fatte alcune operazioni che dovranno essere valutate a fondo nei termini più realistici possibili.
5. L’organismo internazionale da un lato ha messo a disposizione dei paesi membri degli organismi tecnici che potrebbero contribuire ad assumere impegni più incisivi i paesi più disponibili e quelli non in grado – per scarsa disponibilità di risorse, per gravi problemi sociali, per alto livello di inquinamento industriale, per insufficiente livello tecnologico, per dimensioni o per maggiore esposizione alle prime conseguenze dei mutamenti climatici – di affrontare in modo adeguato la crisi ambientale globale. L’Onu ha messo a disposizione del nuovo accordo i quattro organismi che già lavoravano per la Cop (Sussidiary Body for Scientific and Technological Advise, Green Climate Fund, Global Environment Facility, Standing Committee on Finance) ed ha anche deciso di crearne altri due (Committee on Capacity Building e Capacity- building Initiative for Transparency). I nomi sono citati più volte nei documenti, ma non è facile capire la loro consistenza funzionale. Potrebbero essere dei piccoli nuclei di funzionari amministrativi, in pratica dei passacarte, solo in grado di alimentare delle procedure burocratiche e l’Onu è stato spesso criticato per motivi di questo genere. In realtà servirebbero degli organismi con tecnici e scienziati di alto livello, in grado di consigliare tutti i governi e di esercitare consistenti spinte sui processi decisionali nazionali. Questo aspetto dovrà essere molto approfondito prima di dare giudizi definitivi sull’intera vicenda.
6. L’altro aspetto sul quale vorrei attirare l’attenzione riguarda le scadenze dell’insieme delle procedure previste. In allegato ho messo un quadro di impegni, verifiche, controlli e scadenze che – salvo errori e omissioni – sembrano delineare un processo che seppure partito in un rischiosissimo ritardo, potrebbe forse dare dei risultati (anche perché l’intensificarsi e l’aggravarsi degli eventi climatici potrebbe imprimere finalmente dei ritmi ben diversi e ispirati ad una maggiore consapevolezza). In sintesi, si può rilevare la presenza di molti rapporti annuali, la previsione di molti contributi a livello tecnico-scientifico, provenienti da più organismi interni, il tentativo di richiedere apporti anche da istituzioni esterne all’Onu, mentre le scadenze seppur quinquennali, potrebbero costituire un momento di sintesi e di salto di qualità. I singoli governi dovrebbero quindi essere continuamente stimolati a sottoporre a valutazioni internazionali i loro progressi o ritardi, e le loro strategie sempre aggiornate per il clima.
Ovviamente, anche in questo caso, tutto questo complesso meccanismo si può trasformare in un incubo burocratico, fatto di comunicazioni formali o incoerenti, che circolano a vari livelli, senza trasformarsi mai in processi decisionali e attività concrete dei governi, inseriti in un quadro integrato e coerente planetario. I prossimi mesi saranno importanti da questo punto di vista.
7. Ultimo punto, forse una delle omissioni più importanti, riguarda i finanziamenti. Pochi accenni, piuttosto vaghi, alle fonti di finanziamento di tutto il processo, che sembrano rimandare alle sedi di bilancio delle Nazioni Unite (Articolo 9 dell’Accordo).
Considerazioni
Al termine di queste analisi, ancora parziali e non sufficientemente approfondite, ci sembra necessario formulare delle considerazioni complessive sull’intero evento, sul quale si erano accumulate molte aspettative, forse eccessive perché non tenevano conto della gravità della situazione politico-economica mondiale, della complessità della crisi climatica e della sostanziale inadeguatezza delle Nazioni Unite come gestore di situazioni così nuove e di difficile comprensione. La divaricazione delle posizioni tra paesi industrializzati e quelli ancora immersi nel cosiddetto sottosviluppo ormai da molti decenni; la difficoltà oggettiva di affrontare in modo unitario processi di transizione destinati a prolungarsi nel tempo e che invece richiederebbero interventi urgenti e massicci; il permanere di tanti altri problemi (citiamo da un lato, la fame, la povertà, i movimenti migratori forzati; dall’altro tutti gli altri meccanismi di danno ambientale (ricordiamo solo la crisi idrica, la sparizione di tante specie animali, l’inquinamento degli oceani, l’inurbamento eccessivo), per i quali il cambiamento clima è insieme causa scatenante e fattore di più rapido peggioramento; la debolezza di tanti governi sia al Nord che nei tanti Sud. Tutti questi fattori devono aver indotto le Nazioni Unite ad usare la massima cautela e a cercare invece di avviare dei processi di portata globale nella speranza di poterli accelerare e moltiplicare nei tempi più brevi possibili. In altre parole, di fronte ad una serie di schieramenti contrapposti su aspetti specifici molto importanti (ad esempio le questioni finanziarie), si sta cercando di portare a casa un Trattato firmato da tutti (o da una larghissima maggioranza di paesi) e poi di avviare dei processi sempre più cogenti anche se diluiti nel tempo. C’è solo da sperare che il pianeta rispetti le esigenze politiche di popolazioni poco consapevoli.
Mi sembra anche opportuno evidenziare il fatto che il sistema capitalistico oggi dominante sta ancora cercando – come ha fatto tante volte in passato – di promuovere delle trasformazioni per lui indolori, anzi che spesso comportano nuove opportunità di rilancio (ad esempio nel crescente campo della cosiddetta “green economy”, tutte forme mascherate di ricerca del profitto), delle mutazioni che magari spostano i luoghi dove si ottengono risultati positivi, ma che nel loro insieme non incidono sulla natura e le logiche profonde del sistema. La crisi climatica, dobbiamo esserne coscienti, ha assunto dimensioni e caratteristiche tali da richiedere ben altri cambiamenti, di logiche e di meccanismi, e il tentativo di imporre questi cambiamenti (necessari e urgenti) mobilitando tutti i governi, non può che trovare opposizioni a tutti i livelli.
Se questo è vero, un forte senso di realismo dovrebbe portare tutte le organizzazioni di base, isolate o comprese in movimenti più ampi, ad assumersi particolari responsabilità per l’immediato futuro. Tutti coloro che almeno negli ultimi due decenni hanno denunciato il progredire e l’accentuarsi delle crisi planetarie – e, diciamolo, vedono oggi confermate ed accettate ai massimi livelli le loro analisi e previsioni tante volte ignorate o derise – devono da adesso in poi assumersi responsabilmente il ruolo di sollecitatori e critici degli impegni e delle scelte concrete ed efficaci di tutti i governi, oggi finalmente messi di fronte a dei compiti non più trascurabili, pena un aumento delle sofferenze umane e dei costi economici in misura rapidamente insostenibili e con alti livelli di rischio per la biosfera. Il lavoro da svolgere è chiaramente immane, ma decisamente inevitabile. I prossimi mesi devono vedere nuove forme di impegno e di coordinamento, dovremo immaginarci metodi di pressione e di lotta che costringano i governi (e non solo quelli dei governi di appartenenza degli attivisti e delle associazioni) a impegnarsi a fondo e a moltiplicare i loro sforzi senza alcun indugio. Almeno tre linee immediate di lavoro emergono dai commenti precedenti:
a) le ratifiche dell’Accordo devono essere esercitate nel più breve tempo possibile (e ogni sottrazione o ritardo deve essere contestato in qualunque luogo si verifichi);
b) gli impegni assunti in ogni documento presentato dai governi devono essere fatti subito oggetto di analisi approfondite e di critiche motivate da parte dei movimenti ambientalisti, senza preoccupazioni formali o autolimitazioni di comodo, perché sono in gioco meccanismi che agiscono in ogni parte della biosfera senza distinzioni di frontiere e di regimi, di livelli di reddito o di collocazioni politiche;
c) le iniziative di base che costituiscono le migliori opposizioni a tutti i danni ambientali devono essere fatte conoscere a scala internazionale, imitate e moltiplicate sistematicamente paese per paese, e i vantaggi per le popolazioni degli interventi più corretti ed efficaci devono essere fatti emergere e diventare parte dei modelli alternativi di società e di relazioni.
ALLEGATI