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“L’Isis? Si combatte con strategia e attività diplomatica”

di Alain de Benoist - 04/01/2016

Fonte: Barbadillo


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Alain de Benoist

Alain de Benoist

Signor Alain de Benoist, François Hollande ha promesso, durante una visita agli Invalides, di “fare di tutto per distruggere l’esercito di fanatici Isis”. E’ l’inizio?

E’ solo un atteggiamento esteriore. Dopo essersi rifiutato di bombardare le posizioni dello Stato Islamico per oltre un anno, per concentrarsi sull’aiuto da dare agli oppositori di Bashar Assad, il capo di Stato ha deciso solo di intensificare i nostri attacchi. Ma gli attacchi aerei non hanno mai consentito di vincere una guerra, soprattutto se effettuati da cacciabombardieri che hanno le maggiori difficoltà nel colpire obiettivi in movimento e nemici particolarmente capaci di mimetizzarsi e disperdersi nella popolazione (non siamo così ingenui da credere che i nostri attacchi interessino solo i jihadisti!). Attualmente ci sono dai venti ai trenta attacchi al giorno su un territorio grande quanto la Gran Bretagna, ossia circa 8.300 attacchi dall’inizio dei bombardamenti. Gli attacchi effettuati dai nostri aerei costituiscono solo il 4 per cento del totale. Nel migliore dei casi, hanno permesso di distruggere l’1 per cento della forza armata totale di Daech. Siamo lontani dalla previsione.

Chi dice guerra dice anche sforzo bellico. Ora, da anni i bilanci militari sono i parenti poveri della spesa pubblica. Giunti al di sotto della soglia di sufficienza, non permettono più di garantire le nostre missioni in un mondo che diviene sempre più pericoloso. Parallelamente, migliaia di militari, che potrebbero essere impiegati meglio altrove, sono stati trasformati in vigilanti di strada (le operazioni Sentinel e Vigipirate mobilitano l’equivalente di due brigate, quando noi ne abbiamo in totale dodici). Come ha detto il colonnello Michel Goya, “è sempre difficile impegnare molte braccia quando non si hanno più braccia”.

Che cosa bisognerebbe fare?

Tutti sanno che non si può evitare all’infinito di inviare truppe di terra. Ma nessuno per ora si decide. Citiamo ancora il colonnello Goya: “Non c’è battaglia detta asimmetrica e resistenza spesso vittoriosa del ‘piccolo’ sul ‘forte’ fintanto che quest’ultimo teme di andare a combattere sul campo del primo […] Se non si vogliono perdite, non si avviano operazioni militari”.

Accertarsi di sigillare la frontiera con la Turchia, oggi inesistente, sarebbe uno dei primi obiettivi da raggiungere. La Turchia svolge infatti un gioco irresponsabile. Tutto ciò che gli interessa è di danneggiare Assad e di impedire la nascita di uno stato curdo indipendente. Aiuta Daech direttamente o indirettamente, e la finanzia acquistando il suo petrolio. Non ha esitato ad abbattere un aereo russo perché bombardava dei convogli che trasportavano petrolio, e gli Stati Uniti hanno dato il proprio appoggio a questa aggressione di una gravità senza precedenti, solamente perché i turchi sono membri della Nato.

Ciò pone la questione dei nostri rapporti con la Nato, dei quali il generale Vincent Desportes non esita a dire che è diventata una “minaccia per la sicurezza degli europei” e uno “strumento di deresponsabilizzazione strategica” che “ci priva dei mezzi per vincere le guerre e costituisce il migliore ostacolo alla costruzione di una difesa comune europea indipendente”. Al contrario, ciò dovrebbe portarci, senza secondi fini, a collaborare con tutti i nemici dei nostri nemici, a cominciare dalla Russia, dalla Siria e dall’Iran. Ma siamo senza illusioni: tutti gli specialisti sanno che questa guerra non può che essere un’impresa a lungo termine, che durerà almeno dieci o venti anni.

Supponendo che gli Occidentali – il termine è usato di proposito – abbiano la capacità tecnologica di vincere la guerra contro il terrorismo, poi come potranno vincere una pace duratura?

Parlare di “guerra contro il terrorismo” (o “contro il fanatismo”), come fanno gli Americani, è solo un modo indiretto per non dare un nome al nemico. Il nostro nemico non è il terrorismo. Il nostro nemico sono coloro che usano il terrorismo contro di noi – e che noi abbiamo più terrorizzato finora più di quanto abbiano fatto loro. Si ha la tendenza, oggi, di presentare gli interventi militari come “operazioni di polizia”. Significa dimenticare che c’è una differenza essenziale tra le une e le altre, perché la guerra intende conseguire la pace con la vittoria, mentre la polizia persegue una missione senza fine (non si fa la pace con i delinquenti). Rifiutare lo status di nemici a coloro che si combattono è impegnarsi in ostilità che non finiranno mai.

Lottare contro lo Stato islamico comporta affrontare le cause primarie della sua forza, che non sono militari e neanche religiose, ma fondamentalmente politiche. E’ inutile sopprimere lo Stato islamico, se non si sa con che cosa sostituirlo. Immaginare che le cose riprenderanno il loro corso normale una volta che si saranno fatti sparire i “fanatici” e gli “psicopatici” è sognare. Ciò richiede un’intensa attività diplomatica, nazionale e soprattutto regionale. In ultima analisi, sarà necessaria una grande conferenza internazionale, che dovrà senza dubbio prendere in considerazione la necessità di ridisegnare le frontiere. Ma nell’immediato, bisognerebbe sapere di più dello Stato islamico, e domandarsi – la questione è stata recentemente posta da Xavier Raufer (docente, scrittore, criminologo, esperto di terrorismo, ndt) – come è possibile che i suoi principali leader non sono precisamente degli islamisti, ma molto spesso ex quadri dell’esercito di Saddam Hussein.

Intervista di Nicolas Gauthier

[da bvoltaire.fr  – Traduzione dal francese di Manlio Triggiani]