Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Famiglia: la crisi è antropologica, non solo economica

Famiglia: la crisi è antropologica, non solo economica

di Giuliano Guzzo - 10/01/2016

Fonte: Shutterstock


Se pensiamo di contrastare economicamente una crisi che è antropologica, combattiamo contro i mulini a vento. I dati di Francia, Germania e Finlandia

famiglia-bambini-shutterstock_96137972

Tratto dal blog di Giuliano Guzzo Premessa: la famiglia, in Italia, non solo non è sostenuta, ma è fiscalmente vampirizzata. È per la verità cosa arcinota, ma è bene ribadirlo subito affinché nessuno pensi che chi scrive prenda sottogamba un problema tanto importante e così ostinatamente ignorato dalla politica. Detto questo, però, da sociologo non posso non dissentire da quanti – e sono molti, oramai, anche ai vertici dell’associazionismo cattolico – sono convinti che introducendo il quoziente familiare e con un welfare migliore, rispetto al calo dei matrimoni e della natalità – due problemi l’uno legato all’altro -, parecchio se non tutto, nel panorama odierno, migliorerebbe. Il mio dissenso da questo tipo di considerazioni è motivato da più elementi.

Il primo, molto banalmente, è quello che si può senza esitazione definire un dato di realtà: gli aiuti economici non bastano. Un esempio lampante è quello francese: lì il quoziente familiare esiste già dal remoto 1945 e la natalità sfiora appena il tasso di sostituzione (1,97 figli per donna, nel 2013), risultato senza dubbio migliore di quello italiano ma comunque non certo sufficiente a far parlare di una primavera demografica e probabilmente – ma non si può dire con certezza, dato che non disponiamo di dati sulla fertilità per origine degli abitanti – dovuto al contributo di cittadini stranieri o comunque di origine non strettamente francese. Ad ogni modo il caso della Francia non è isolato.

Si pensi, per esempio, alla Germania, la locomotiva economica d’Europa: il Paese elargisce aiuti sostanziosi alle famiglie, gli stipendi in media sono più alti, hanno una disoccupazione inferiore alla nostra ed altre circostanze favorevoli che però non schiodano i tedeschi da un tasso di fertilità cimiteriale pari, udite udite, ad appena 1,3. Oppure si prenda la brillante Finlandia dove dal 1938 alle donne in attesa di partorire arriva un “pacco neonatale” contenente di tutto (vestitini, copertina, un completino pesante, cuffiette, calzini, un set di lenzuola, uno per l’igiene del bambino completo di spazzolino da denti e forbicine per le unghie, materasso e bavaglino) e che, spesso, è pure la prima culla dei figli.

Eppure, nonostante tutto questo, anche laggiù, in Finlandia, la denatalità non solo esiste come problema, ma peggiora: si è difatti passati dalle 10,8 nascite ogni 1.000 abitanti del 2001 alle 10,45 del 2006 fino alle 10,36 del 2012. Un ulteriore elemento che porta a sconsigliare di leggere la crisi della famiglia in termini economici – per quanto questi abbiano un loro peso – è l’esperienza italiana, che evidenzia molto chiaramente il ruolo anzitutto della componente culturale della crisi della famiglia. Un esempio è il divorzio, confermato com’è noto con il referendum del 1974: pochi anni dopo i matrimoni lasciarono sul terreno un quinto, le nascite addirittura un quarto della loro consistenza.

Una ulteriore perplessità di fondo nel collegamento fra crisi della famiglia – intesa come calo dei matrimoni e della natalità – e crisi economica e mancanza di attenzioni economiche sorge in me dal fatto che, così ragionando, si considera l’essere umano puramente in un’ottica materialista, mentre invece la persona umana è qualcosa il cui splendore – e i cui bisogni – vanno molto oltre. Da questo punto di vista, altri elementi ci vengono dal fatto che, come evidenziato i dati Istat 2005, nelle Isole e al Sud i giovani si sposano prima di aver compiuto 29 anni mentre invece al Centro e soprattutto al Nord, dove mediamente le condizioni economiche sono migliori, dopo i 30; se fossero economia e precariato a fare la differenza, i numeri avrebbero dovuto essere opposti.

A contrastare il peso dell’elemento economico invece sulla natalità ci sono invece gli alti tassi di fertilità di persone appartenenti a determinate fedi religiose. Si pensi a quanti si riconoscono nella religione islamica: vivono, in Occidente, la nostra stessa condizione di crisi economica eppure si prevede che i musulmani si riprodurranno a velocità doppia rispetto al resto della popolazione e nel 2030 rappresenteranno il 26,4% della popolazione del pianeta; oppure, guardando agli Stati Uniti, si pensi alla comunità Amish, considerata la religione in massima espansione in tutta l’America: costoro crescono a ritmo vertiginoso non grazie alle conversioni, ma semplicemente perché le famiglie hanno molti figli che rimangono all’interno della comunità.

Questo cosa significa? Che la politica italiana può continuare – come fa ormai bellamente da decenni – ad ignorare la famiglia? Che il quoziente familiare non conta nulla? Che è sbagliato sostenere la natalità? Tutto il contrario: la “cellula fondamentale della società” va sostenuta! Se però pensiamo di contrastare economicamente una crisi che è antropologica e che ha nel successo culturale di istituti quali il divorzio e l’aborto, entrati saldamente nella mentalità comune, un punto di grande forza, combattiamo contro i mulini a vento. Non perché, lo ripeto, sia giusto che il fisco continui a bastonare la famiglia, ma perché la famiglia – proprio perché è fondamentale per la società dell’Italia come dell’Europa – ha diritto a molto di più di semplici, per quanto sostanziosi, contributi economici.