Apollo custode delle mura, perdona Bergoglio perché non sa quel che dice
di Adriano Scianca - 18/04/2016
Fonte: Il Primato Nazionale
E quindi davvero Papa Francesco, nella sua marchetta all’invasione in quel di Lesbo, ha affermato che “la Grecia è culla di civiltà e si vede che continua a dare un esempio di umanità”? Davvero Bergoglio è convinto che esista una linea di continuità tra il pensiero e le pratiche degli Antichi Greci e il pensiero e le pratiche della “accoglienza”? Se proprio dovete profanare ogni spazio, umiliare ogni nazione, violare ogni confine, quanto meno chiamate come testi a carico civiltà a voi più congeniali e lasciate stare l’Ellade, le cui città restano affidate alla triplice cura di Apollo, che in un’iscrizione ritrovata ad Atene è detto Prostaterios, Apotropaios e Agyieus. Ovvero di Dio che si attesta sulle mura a chiuderne gli accessi dall’interno (Prostaterios, “colui che sta davanti”), che si schiera all’esterno delle stesse respingendo ogni eventuale elemento allogeno (Apotropaios, “colui che respinge”), che tutela, infine, le vie, gli incroci stradali e persino le porte di ogni singola abitazione (Agyieus, “signore delle strade”).
Che c’entra la civiltà degli Elleni, devota a Zeus Horios, protettore dei confini, con il mondo liscio e senza increspature, in cui merci, uomini e capitali scivolano ovunque, secondo le auree leggi della domanda e dell’offerta, senza incontrare ostacolo alcuno? Quella generica “civiltà” cui la Grecia avrebbe fatto da “culla” ha forse a che fare con Platone? Allora sarà il caso di ripassare qualche passaggio, come il seguente: «Prima legge sia quella di Zeus, dio dei confini, e reciti così: nessuno rimuova i confini della terra, né se è di un vicino che è suo concittadino, né se è di uno straniero di uno stato confinante, nel caso in cui abbia acquistato un terreno ai confini dello stato, pensando che questo vorrebbe dire muovere veramente ciò che non si può muovere. Chiunque preferisca tentare di muovere la pietra più grande, ma che non costituisca un confine, piuttosto che una piccola pietruzza che delimita l’inimicizia e l’ostilità stabilita dai giuramenti degli Dei: e dell’uno è testimone Zeus protettore di chi è della stessa tribù (Zeùs omòfulos), dell’altro quello protettore degli stranieri (xénios), i quali si risvegliano con le guerre più feroci».
Per gli Spartani, varcare un confine era un atto talmente poco neutrale che, ogni volta che uscivano dalla loro polis, celebravano un apposito sacrificio, detto diabateria, per scongiurare i pericoli sempre in agguato ogni volta che ci si allontana dalla patria. Ma gli Spartani, si sa, erano dei selvaggi proto-nazisti. Chissà cosa avrebbero pensato nella democratica Atene, allora, della cittadinanza universale e del fatto che nessun uomo è clandestino. Gli Ateniesi, che ritenevano addirittura di essere nati dal loro stesso terreno, e non per metafora, ma i quanto figli di un génos che aveva il suo capostipite in un semidio sorto dalla terra. Quando celebravano i loro soldati caduti in guerra, ad Atene inscenavano un rito pubblico in cui un membro eminente della polis aveva il compito di lodare la città stessa e i suoi abitanti in quanto, dice Lisia, «non abitavano una terra straniera dopo averne cacciato altri ed essersi raccolti da ogni dove, come molti, ma, autoctoni, ebbero la stessa terra come madre patria». Iperide, dal canto suo, affermava che «parlando degli Ateniesi, la loro autoctonia, la loro comune origine, garantisce l’insuperata bontà della stirpe». Ecco cos’era la tanto celebrata democrazia ateniese: l’autocoscienza politica di una comunità etnicamente omogenea e che su tale “purezza” fondava la sua superiorità.
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Ed è sempre il mito dell’autoctonia che giustifica la “stretta” sulla cittadinanza, voluta dalla legge di Pericle del 451/50, che limitava l’accesso al corpo dei cittadini di pieno diritto ai soli figli di padre e madre ateniese. «Un solo génos, quindi, ma di razza pura. Un génos a misura di città, dal quale tutti i membri ereditano allo stesso titolo la nobiltà propria alle famiglie aristocratiche», chiosa Nicole Loraux. Licurgo, nell’orazione Contro Leocrate cita inoltre un frammento dell’Eretteo di Euripide, dove si oppone la polis “di fatto” alla polis “di nome”: chi arriva in una città da fuori e vi si stabilisce sarà forse un cittadino per la legge, ma non sarà mai riconosciuto come tale di fatto, poiché non inserito nella filiazione dell’autoctonia.
E questa sarebbe la “civiltà” da chiamare a testimone per introdurre lo ius soli? A noi sembra che da quell’origine discenda tutt’altro ethos. Ed è semmai chi si oppone all’invasione che sarebbe nel pieno diritto di attingere a quella civiltà, vergando magari sulle proprie insegne di battaglia questi versi di Eschilo: «Figli dell’Ellade, avanti! Liberate la patria, liberate i vostri figli, le donne, i templi dei nostri Dèi, i sepolcri dei nostri antenati».