A proposito della parola “negro”
di Enrico Galoppini - 02/11/2016
Fonte: Il Discrimine
Il mio professore di Storia dell’Africa sosteneva che “negro”, di per sé, non è una parola offensiva (come invece vorrebbero far credere gli “antirazzisti”), e che anzi gli africanisti (cioè gli studiosi d’Africa) possono tranquillamente, ed ‘in pace’ con la loro coscienza, continuare ad usarlo, anziché l’ipocrita “di colore” (o la variante “nero” specularmente opposta a “bianco”).
Ricordo a tutti i custodi della ‘morale linguistica’ che fu proprio Léopold Senghor, uno dei “padri dell’Africa indipendente”, a scrivere molto sul concetto di “négritude” – che poi divenne un movimento letterario, culturale e politico – attribuendole un valore positivo, identitario, che puntava ad affrancare i popoli “dalla pelle nera” da un senso d’inferiorità inoculato in secoli di razzismo e schiavismo (che non è una cosa che si possa negare, anche se, per ciò che riguarda i principali profittatori dell’operazione, andrebbe fatta chiarezza rispetto alla vulgata dominante tesa ad incolpare in toto “i bianchi”). La “negritudine”, rivendicata orgogliosamente dall’omonima corrente di pensiero, più culturale che politica, rivendicava l’identità e la cultura “negre”, in contrapposizione specialmente con la Francia, dato che questo movimento d’idee nacque dal genio di pensatori africani francofoni.
Se vogliamo, questa rivendicazione era anche il rifiuto dell’assimilazione culturale tanto cara alla Francia (che poi s’è visto dove ha portato…); il rifiuto dell’immagine del “negretto” alla Zio Tom, servizievole, ubbidiente, da considerare persino “buono”, ma fondamentalmente incapace di concepire una qualsivoglia “civiltà”. Un tentativo non campato in aria e denso di speranze (erano gli anni della “decolonizzazione”), ma fondamentalmente fallito, non certo per tare congenite dei “negri”, quanto per gli esiti della “decolonizzazione” stessa, che in realtà era un nuovo colonialismo camuffato, con tutto quel che il colonialismo, quando si risolve in mero sfruttamento, si porta dietro.
Le responsabilità delle classi dirigenti locali nel fallimento della “rinascita dell’Africa” sono evidenti, così come l’abbrutimento sociale derivante da secoli di predazione e discriminazione, tuttavia chiunque, se onesto intellettualmente, può giudicare la nobiltà di un’ideale come quello della négritude (o della condotta politica di un Sankara) rispetto all’ennesima turlupinatura a danno dei “negri” che consiste nell’indurli ad una “migrazione” in Europa nella quale essi svolgono più che altro il ruolo di comprimari a sostegno di un ‘film’ scritto da altri (banchieri, chiese, “sinistrati” e professionisti dell’“accoglienza”).
Uscendo dallo stretto ambito dell’Africa francofona, va rilevato inoltre che nella lingua inglese “nigger” è stato adottato orgogliosamente dagli “afro-americani” militanti, ma con un intento più polemico e “di battaglia” rispetto a quello di un Senghor: si usa il termine spregiativo del “nemico” ribaltandolo di segno, ma non c’è molta elaborazione culturale se non una rabbia tremenda (che si può anche comprendere) scandita simbolicamente dai rapper più “incazzati”.
Per togliere la parola “negro” dall’inferno linguistico nel quale è stata precipitata, vale infine la pena di rammentare che Nigeria e Niger prendono il loro nome proprio dal Latino niger (che aveva anche valenza di “infausto”, “tenebroso”, “funereo” ecc.), così come la Mauritania. Mica si sono chiamati – che so – “State of Coloured People“!
Ovviamente della parola “negro” si può fare, come molte altre parole che non hanno una connotazione di base negativa, tutti gli usi che se ne vuole. Si pensi alla parola “ebreo” (o “rabbino”), che può esser usata come sinonimo di “avaro” e “spilorcio”, anche se oggidì si tende ad evitare questo uso per non apparire “antisemiti”. E, per stare nel’attualità, si pensi all’impeto col quale il “lumbard” inveisce all’indirizzo degli “islamici” (al posto di “musulmani”), concentrandovi tutto quel che a suo dire si contrappone, in un’antitesi non conciliabile, alla “civiltà occidentale” e alle sue “tradizioni”.