L’altro genocidio della Turchia moderna: quello dei greci del Ponto
di Francesco Lamendola - 01/05/2017
Fonte: Il Corriere delle regioni
Da molti anni sono in corso delle trattative fra Bruxelles ed Ankara per discutere i tempi e i modi di una eventuale adesione della Turchia all’Unione europea. Questa politica assurda, da parte degli europei, sta creando le condizioni per una “invasione” del nostro continente da parte di oltre ottanta milioni di turchi, i quali, divenuti cittadini europei, potrebbero stabilirsi a loro piacimento, e in qualsiasi quantità, nel Paese o nella città che volessero, provocando immani sconvolgimenti economici e sociali e, verosimilmente, un drammatico abbassamento del costo del lavoro, che colpirebbe in primo luogo i lavoratori europei, spazzati via dalla concorrenza dei lavoratori turchi, disposti a lavorare per dei salari molto più bassi. La stessa identità culturale e spirituale dell’Europa verrebbe totalmente sovvertita, con una rapida islamizzazione, dovuta anche all’alto tasso d’incremento demografico delle famiglie turche: strategia peraltro pubblicamente annunciata dal presidente Erdogan, il quale, nel calor bianco dello scontro diplomatico con i Paesi Bassi, rei di aver annullato il comizio elettorale di un ministro turco in quel Paese, ha esortato le donne islamiche a fare almeno cinque figli per sommergere l’Europa e, così, conquistarla senza colpo ferire, cosa che i Turchi, storicamente, hanno tentato di fare per secoli, con le armi in pugno, venendo però sempre sconfitti e respinti: sul mare, a Lepanto, nel 1571; per terra, a Vienna, due volte: nel 1529 e nel 1683.
Vi sono però anche ragioni politiche, storiche e morali, oltre a quelle economiche, culturali e religiose, che permettono di definire assurda l’ipotesi di un ingresso della Turchia, grande Paese islamico, in una Europa formatasi nella tradizione cristiana, anche se a quella tradizione ella ora ha voltato le spalle, e anche se gran parte delle sue classi dirigenti, e la maggioranza degli intellettuali, odiano il cristianesimo e stanno attuando una politica di laicizzazione e di secolarizzazione esasperata, tale da cancellare ogni segno visibile della presenza e della stessa memoria cristiana. In primo luogo, la Turchia è un Paese assai poco democratico, dove gli oppositori del governo fanno una brutta fine e dove persino il reato di opinione viene punito con la massima severità. L’estrema brutalità con cui è stato represso il tentativo di colpo di Stato contro il presidente Erdogan, nel luglio 2016 – ammesso che un tale tentativo sia mai stato fatto, e non si sia trattato, piuttosto, di una messa in scena per poter colpire ed eliminare preventivamente qualsiasi opposizione – ha mostrato al mondo il vero volto di quel regime, anche se i fari delle agenzie di stampa internazionali sono stati spenti subito dopo e nessuno sa bene che fine abbiano fatto le migliaia di persone arrestate, imprigionate e torturate, con l’accusa di aver partecipato al golpe.
Peraltro, non si tratta solo di questo: il problema non è solo che la Tirchia è un Paese che non applica, al suo interno, le regole della democrazia, o le manipola a piacimento; il problema è anche che la Turchia è uno Stato militarista, aggressivo e nemico della pace, che più volte ha dimostrato una straordinaria ferocia nel corso del XX secolo, e che costituisce tuttora un elemento di squilibrio geopolitico nel Vicino Oriente. Si pensi alla repressione del movimento curdo e alle losche manovre turche in Siria; né si dimentichi che l’invasione turca di Cipro, nel 1974 - azione illegale condotta nel pieno disprezzo delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, per “proteggere” il 20% di popolazione turco-cipriota, occupando il 50% del territorio -, ha creato su quell’isola una situazione di guerra fredda di cui non si parla mai, ma che non ha nulla d invidiare a quella delle due Coree. Si consideri, inoltre, che la Turchia ha dimostrato di non essere assolutamente capace di fare i conti con il proprio passato e di assumersi le proprie responsabilità storiche.
È inevitabile fare un confronto fra la Germania, la quale, a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, seppe fare mea culpa per il genocidio degli ebrei e concretizzare il suo pentimento con forme di risarcimento morale materiale alle vittime, e la Turchia, la quale non vuol nemmeno sentir pronunciare la parola “genocidio” a proposito degli armeni nel 1915, tanto è vero che, se un cittadino turco si permette di farlo, rischia la denuncia e la galera per oltraggio allo Stato. Il genocidio degli armeni, peraltro (fatto conoscere al mondo anche per mezzo di opere letterarie come il romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh, del 1933), fu concepito, voluto e attuato dal partito dei Giovani Turchi durante la Prima guerra mondiale, e precisamente dal “triumvirato” costituito da Enver, Gemal e Talaat, tre sinistri personaggi che erano andati al potere con la “rivoluzione” – in effetti, un colpo di Stato - partita dall’armata di Salonicco nel 1908. Niente genocidio, dunque, ma solo uno spiacevole “effetto collaterale” della politica di trasferimenti forzati voluta dal governo per ragioni di sicurezza militare: questa la versione tuttora sostenuta dalla Turchia, a oltre un secolo di distanza dai fatti, caso forse unico di negazionismo radicale nella storia della diplomazia mondiale contemporanea. Eppure 30 Paesi di tutto il mondo, fra i quali anche l’Italia, hanno preso ufficialmente posizione in merito e smentito la versione turca, ribadendo che quello degli armeni fu un genocidio vero e proprio, e non una specie di massacro involontario; un genocidio nel corso del quale perirono, presumibilmente - questa la cifra più accreditata fra gli storici – non meno di un milione e 200.000 persone, forse anche di più (l’ipotesi peggiore arriva fino a due milioni di vittime).
Eppure, quello non fu il solo genocidio perpetrati dalla Turchia nei primi decenni del Novecento. Ce ne fu un altro, del quale si è parlato assai meno, benché esso sia rimasto impresso nella memoria del popolo greco, tanto che ogni anno, il 19 maggio, in Grecia e fra le comunità greche sparse nel mondo, lo si commemora ufficialmente (dal 1994): quello dei greci del Ponto, cioè i discendenti delle antichissime colonie elleniche stabilitesi sulle coste meridionali del Mar Nero, lungo la penisola anatolica. Si trattava di un comunità fiorente, che contava almeno 700.000 persone, senza contare i greci stabilitisi, anch’essi da tempo immemorabile, nella sezione occidentale dell’Anatolia, lungo le coste del Mar Egeo, e soprattutto nella città di Smirne e nei suoi dintorni. E anche questi greci della Ionia subirono un genocidio, che, se considerato come un caso a sé, risulta essere ben il terzo genocidio perpetrato dalla Turchia nell’arco di meno di un decennio (nel corso di quest’ultimo, il metropolita ortodosso Crisostomo, che aveva rifiutato di fuggire da Smirne, su una nave, con l’esercito greco in ritirata, venne sgozzato dalla folla turca e le orecchie, il naso e le mani gli venero mozzati come macabro trofeo, mentre da 10 a 100.000 greci e armeni viventi in città persero la vita nell’incendio e nelle violenze indiscriminate). Il genocidio dei greci del Ponto fu condotto fra il 1914 e il 1923: iniziato dagli stessi Giovani Turchi che condussero anche il genocidio contro gli armeni, fu proseguito dal governo di Mustafa Kemal Ataürk, il generale che depose l’ultimo sultano, nel 1922, e venne eletto presidente della nuova Repubblica turca, nel 1923. E poiché Kemal Ataürk è considerato una figura eroica e intoccabile nella mitologia nazionalista turca, ne consegue che verso il genocidio dei greci del Ponto l’atteggiamento turco è ancor più rigorosamente negazionista, se possibile, di quanto non lo sia nei confronti di quello armeno. A livello internazionale, esso è attualmente riconosciuto come tale da un certo numero di Stati degli Stati Uniti, quelli dove la presenza di cittadini di origine greca è più numerosa, anche se non dagli Stati Uniti come nazione.
Così l’ha rievocato la giornalista e scrittrice Maria Tatsos (nell’articolo Quel genocidio dimenticato, sulla rivista Mondo e missione, fondazione P.I.M.E., Milano, giugno/luglio 2015, pp. 22-24):
La metà di questa antichissima comunità greca è stata massacrata fra il 1914 e il 1921 dai turchi e i superstiti sono stati costretti ad andarsene con quanto potevano portare in mano, lasciando le loro case. All’inizio del Novecento, i greci del Ponto erano circa 700.000 persone, sparse lungo la costa settentrionale turca affacciata sul mar Nero in città dalla stria millenaria, come Sinope, Trebisonda, Kerasounta, Samsounta, Amasia fino a Batum, nell’odierna Georgia. Mio nonno Nikolaos e mia nonna Eratò, con il loro primogenito Christos di pochi mesi, furono tra i circa 350 mila scampati all’eccidio, che nel 1923 raggiunsero la Grecia via mare, in un esodo di cui nessuno n famiglia ha mai voluto parlare. Alcuni greci del Ponto emigrarono negli Stati Uniti, in Canada e in Australia, dando luogo a una diaspora che ancora – alla terza e quarta generazione – conserva con orgoglio le sue radici. […]
Con lo scoppio ella Prima guerra mondiale, un decreto del sultano ordina a tutti gli uomini del Ponto dai 18 ai 50 anni di mettersi a disposizione del’esercito. Molti finiscono negli “amele taburu” – battaglioni dislocati in zone desertiche – dove sono costretti a svolgere lavori pesanti a ritmi massacranti fino alla morte per fame e sete. Intanto, molti villaggi greci vengono svuotati: donne e bambini, costretti a marciare verso l’interno dell’Anatolia, muoiono lungo il tragitto per lo sfinimento. Le vittime del Poto rientrano nella contabilità di un vasto massacro pianificato della popolazione cristiana: dal 1914 al 1923 tre milioni e mezzo di armeni, greci e assiri perderanno la vita. In alcune zone, i greci del Ponto tentarono di organizzare una resistenza armata, in attesa di un aiuto greco e russo che non arrivò mai. A Santa, sulle montagne al confine con la provincia di Trebisonda, il comandante Euklidos Kourtidis riesce persino a sconfigger el’esercito turco nel settembre 1921. L’orologio della storia si era ormai fermato: la millenaria presenza greca nel Ponto era destinata a finire. Con il trattato di Losanna del 1922, Grecia e Turchia accettano di “scambiare” le rispettive minoranze etniche. Il martirio delle popolazioni continua: chi riesce a sopravvivere alla fame, alle malattie e alle difficoltà di un viaggio allucinante, a piedi o ammassati sulle navi, nel 1923 mette piede in una Grecia poco attrezzata ad accogliere un milione e mezzo di profughi. Il primo ministro Venizelos, desideroso di intessere buoni rapporti con la Turchia di Atatürk, glissa sulla questione dei nuovi arrivati.
“Per anni, ai profughi è stata imposta una ‘perdita della memoria’ da parte dello Stato greco”, commenta Vlassis Agtzidis, storico ed esperto delle vicende dei greci del Ponto. “Dopo la Seconda guerra mondiale, la guerra civile e gli anni della dittatura, hanno impedito la libertà di espressione. Si è tornati a parlare liberamente di quanto è accaduto solo negli anni Ottanta”. […]
Molti greci del Ponto, in quel lontano 1923, scelsero di non partire. Tra patria e religione, scelsero la terra e si convertirono all’islam. C’è chi parla di 300 mila persone, forse di più, solo lungo il Mar Nero. Sono trascorsi quasi cent’anni, ma i loro discendenti conservano il ricordo della doppia identità: cittadini turchi, greci nel cuore e nelle tradizioni. Non più cristiani, purtroppo: questa era la condizione non trasgredibile per restare.
Questa era la condizione non trasgredibile per restare: da ciò si vede come la Turchia contemporanea abbia sempre usato l’islam come lo strumento fondamentale per assimilare le minoranze, quelle che non era ancora riuscita a distruggere fisicamente: armeni, greci e assiri. I tre genocidi sono dunque accomunati da una identica matrice: quella religiosa. Questi popoli vennero perseguitati a morte perché cristiani, più ancora che per ragioni politiche, strategiche e militari: la Turchia volle risolvere una volta per tutte la questione della uniformità religiosa al proprio interno, facendo sparire le minoranze cristiane che esistevano da sempre sul suo territorio. Bisogna infatti tener presente che tali minoranze non erano giunte in Turchia successivamente alla fondazione dello Stato turco; al contrario, esse erano ciò che rimaneva della popolazioni preesistenti, che erano tutte cristiane, e greche nella grande maggioranza, prima dell’arrivo del popolo turco dalle steppe dell’Asia centrale, allorché l’Impero bizantino lottava per la propria sopravvivenza: l’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI Paleologo, cadde eroicamente, la spada in pugno, combattendo sulle mura di Costantinopoli in quel fatale 29 maggio 1453 che vide la conquista turca della capitale, abbandonata al suo destino dagli altri Stati cristiani d’Europa. E questa, probabilmente, è la vera ragione psicologica per cui i vari governi turchi che si sono succeduti dal 1923, cioè dalla nascita della Repubblica di Atatürk, fino ad oggi, sono così contrari a riconoscere la verità di quanto accadde negli anni fra il 1914 e il 1923. Ammettere quei genocidi equivarrebbe ad ammettere la politica di pulizia etnica con cui la Turchia ha cercato di far sparire il ricordo di come essa è nata: distruggendo il più antico Stato cristiano d’Europa. Ed è paradossale che, ora, voglia essere accolta come membro a pari titolo in questa stessa Europa, falsificando quel passato che è anche nostro…