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Controstoria del liberalismo (intervista a Domenico Losurdo)

di redazionale - 29/10/2006


1) Il suo libro “Controstoria del liberalismo” rivela che molti dei padri fondatori del pensiero
liberale ammettevano nei loro scritti la schiavitù. E che anzi se ne servivano. Si tratta di aspetti
poco noti della letteratura liberale, e tuttavia molto ben attestati. Ora, perché questa
rivelazione costituirebbe un motivo di imbarazzo per il pensiero liberale, tanto da
rappresentarne una “controstoria”? Lo senz'altro se si fa riferimento ad un astoria apologetica.
Ma in un senso più profondo, più legato alla realtà, perché le tesi sostenute da alcuni
pensatori liberali colpirebbero il liberalismo in quanto tale? In che senso, la sua è una
controstoria del liberalismo e non una controstoria della biografia intellettuale di alcuni
pensatori liberali?
Non si tratta di «biografia intellettuale». Chi vuole può considerare una faccenda privata, priva
di rilevanza filosofica, il coinvolgimento di Locke nella tratta degli schiavi neri. Ma chi è
interessato ad interpretare correttamente il pensiero del padre del liberalismo non può
ignorare la tesi da lui enunciata nel secondo Trattato sul governo, secondo cui ci sono uomini
«per legge di natura soggetti al dominio assoluto e al potere incondizionato dei loro padroni».
E¹ in un altro testo classico della tradizione liberale (On Liberty di John Stuart Mill) che
possiamo leggere la tesi secondo cui «il dispotismo è una forma legittima di governo quando si
ha a che fare con barbari», con una «razza» da considerare «minorenne», tenuta pertanto
all¹«obbedienza assoluta» nei confronti dei suoi signori. Ed è la Democrazia in America ad
affermare che l’America era, per decreto della «Provvidenza», una «culla vuota», in attesa
della «grande nazione», destinata a sterminare gli abitanti originari! Né può essere assimilata
ad una vicenda privata la contrapposizione, che attraversa profondamente la Costituzione degli
Stati Uniti, tra «persone libere» (i bianchi) e il «resto della popolazione» (gli schiavi neri); in
ogni caso non erano di questa opinione i militanti abolizionisti che bruciavano pubblicamente
una Costituzione da loro bollata come un «accordo con l¹Inferno» e un «patto con la Morte».
Infine, va ben al di là della «biografia intellettuale» degli statisti e dei teorici liberali la reale
configurazione della società da loro plasmata o da loro celebrata: per trentadue dei primi
trentasei anni di vita degli Stati Uniti ad occupare il posto di Presidente sono proprietari di
schiavi. Né si tratta di vicende remote nel tempo. Per citare un eminente storico statunitense
(Fredrickson), «gli sforzi per preservare la “purezza della razza” nel Sud degli Stati Uniti
anticipavano alcuni aspetti della persecuzione scatenata dal regime nazista contro gli ebrei
negli anni trenta del Novecento»; anzi «la definizione nazista di un ebreo non fu mai così rigida
come la norma definita "the one drop rule", prevalente nella classificazione dei neri nelle leggi
sulla purezza della razza nel sud degli Stati Uniti».
Oggi persino la grande stampa di informazione comincia a parlare dei«crimini del liberalismo
applicato» (Ernesto Ferrero su «La Stampa» del 13 gennaio). Si tratta già di una formulazione
riduttiva per il fatto che il «dominio assoluto», il «potere incondizionato», il «dispotismo»,
l'«obbedienza assoluta», il razzismo (per dirla con Disraeli, la razza è «la chiave della storia»,
«tutto è razza e non c'è altra verità» e la «grandezza» di una razza «risulta dalla sua
organizzazione fisica») trovano la loro consacrazione già a livello teorico. Il «liberalismo
applicato» va comunque ben al di là della «biografia intellettuale». Chi si ostina a rimuovere le
terribili clausole d¹esclusione presenti nelle società liberali e spesso esplicitamente teorizzate
dai classici della tradizione liberale è un effetti un cultore non già della storiografia profana
bensì dell’agiografia.
2) Lei esclude che non sia una circostanza privata, priva di rilevanza filosofica, il fatto che
Locke ammettesse la schiavitù. Ma dov’è la rilevanza filosofica? Per non rimanere nella
negazione, dovremmo andare al nodo del liberalismo inteso come dottrina politica. La tesi
può di essere rovesciata, ed essere svolta non più da Locke verso il liberalismo, ma dal
liberalismo verso Locke e verso la sua posizione favorevole alla schiavitù. E allora lei dovrebbe
dimostrare che il liberalismo conduce - per ragioni che qualificano il liberalismo -, a posizioni

come quelle di Locke sulla schiavitù? Questo per escludere che Locke non fosse in
contraddizione con il liberalismo. I filosofi, ma non solo i filosofi, possono non essere sempre
interpreti coerenti delle teorie che pure hanno concepito. Non parliamo poi dei presidenti, dei
politici. Basta pensare al nostro Presidente del consiglio che si autodefinisce “liberale” (e di
liberale non ha nulla). Insomma, Locke (uno per tutti) è in contraddizione con il liberalismo,
oppure è perfettamente liberale, quando è sostenitore dello schiavitù? La cosa paradossale è
che la sua controstoria del liberalismo potrebbe essere presa per l’opera di un liberale: per
una critica al prete in nome del Vangelo. Oppure è una critica del Vangelo? Lei titola il capitolo
IV così : “Erano liberali l’Inghilterra e gli Stati Uniti del Sette dell’Ottocento?” . Poco più avanti,
concludendo la descrizione di società in cui la schiavitù ha grande spazio, torna a chiedersi: “ E
allora come definire il regime politico delle società che stiamo analizzando? Siamo in presenza
di una società liberale? (p. 103). Ecco, le giro la sua stessa domanda. Sono società liberali
quelle che praticano la schiavitù? È liberale il Locke schiavista? E l’«altro» Locke che cos’è?
Sono una «degenerazione» del cristianesimo le persecuzioni a cui procede la Chiesa
costantiniana già al suo costituirsi? Sono una «degenerazione» della Riforma (e del principio
della libertà del cristiano solennemente affermata da Lutero) i regimi che poi si affermano sul
terreno del protestantesimo? Procedendo su questa linea, Cromwell è un «degenerato» rispetto
ai protagonisti della rivoluzione puritana, il Terrore giacobino è una «degenerazione» delle idee
del 1789, così come il regime instaurato da Stalin (e prima ancora da Lenin) è una
«degenerazione» degli ideali di emancipazione della rivoluzione d’Ottobre e del marxismo.
«Degenerazione» rispetto al Corano e alla dottrina di Maometto è anche l’odierno
fondamentalismo islamico? In coerenza con questa impostazione, chi vuole può considerare
una degenerazione del «liberalismo» la schiavizzazione e l’annientamento dei popoli coloniali
messi in atto dall’Occidente liberale. Risultato: scompare la storia reale e profana, per essere
sostituita dalla storia della sciagurata e misteriosa «degenerazione» di dottrine a priori
innalzate nell’empireo della purezza e della santità . Nell’analizzare un qualsiasi movimento
storico, preferisco attenermi alla storia reale e profana (con le sue tensioni teoriche e politiche,
i suoi conflitti, le sue contraddizioni e le sue svolte). Come chiarisce il mio libro, sia sul piano
della teoria che della pratica politico-sociale il liberalismo è sorto come celebrazione non della
libertà universale ma di una comunità dei liberi ben determinata. In questo senso le clausole
d’esclusione (a danno dei popoli coloniali, dei servi della metropoli ecc.)
sono costitutive di questo movimento ideologico e politico. Esse sono state superate, nella
misura in cui sono state superate, non per uno spontaneo processo endogeno, ma in primo
luogo sull’onda della sfida rappresentata dalle gigantesche lotte e di emancipazione e per il
riconoscimento sviluppate dagli esclusi.
Se si assume il termine «liberalismo» nel senso (ideologico) caro a Constant e a Berlin, quale
affermazione per tutti di una sfera inviolabile di libertà «moderna» o «negativa» per tutti, è
chiaro che non si possono definire liberali gli Stati Uniti e l’Inghilterra del Sette e Ottocento:
dalla libertà «moderna» o «negativa» erano chiaramente esclusi i pellerossa condannati
all’espropriazione e alla deportazione, gli schiavi, i neri in teoria liberi (ancora in pieno
Novecento sottoposti ad una violenza terroristica), i servi bianchi rinchiusi arbitrariamente
nelle case di lavoro ecc.; subiva pesanti limitazioni la stessa libertà «moderna» e «negativa»
dei proprietari di schiavi o della classe dominante in genere, che ancora a metà del Novecento
era tenuta a rispettare il divieto di miscegenation, il divieto di rapporti sessuali e matrimoniali
interrazziali. Se invece per liberalismo di intende l’autocelebrazione e l’auto-affermazione della
comunità dei liberi, con tutti i costi politici e sociali che ciò comporta, è chiaro che gli Stati
Uniti e l’Inghilterra del Sette e Ottocento erano società liberali a tutti gli effetti.
3) Se il cristianesimo non fosse la religione del Dio incarnato non sarebbe cristianesimo, ma
altro. Viceversa, si può ritenere che le persecuzioni facciano parte dal monoteismo o il
contrario; ma questo non intacca la realtà del monoteismo. Ma se il sedicente monoteismo è
invece nella realtà politeismo, le cose cambiano. Il liberalismo prevede le libertà individuali, la
libertà di stampa, di parola, ecc.,. Se non è tutto questo o se è tutto questo solo per una parte
di individui e non per tutti gli altri, allora che cosa effettivamente riveliamo, se non che il
liberalismo ha la colpa di non essere liberale? Se il liberalismo storicamente determinato

intende la libertà come un bene solo per un ristretto gruppo di persone, come lei argomenta
nel libro, torna sempre fuori il problema di partenza: non critichiamo questa esclusione dalla
libertà sulla base del liberalismo?
Del resto, lei in proposito afferma che il mutamento verso forme più giuste, ben lungi
dall’essere endogeno, è stato forzato dall’esterno. Due domande: 1) Non è stato endogeno e
non poteva esserlo? E 2) lei prende una posizione diversa per il liberalismo francese, perché?
Mi sembra inutile ribadire punti che credo di aver già chiarito. Aggiungo soltanto:
a) Al contrario di Marx e del marxismo, che si sono spesso abbandonati all'utopia astratta del
completo dileguare del potere e dei rapporti di potere in quanto tali, il liberalismo ha avuto il
merito teorico e storico di essersi concentrato sul problema della limitazione del potere, sia
pure con lo sguardo rivolto soltanto ad una ristretta comunità dei liberi.
b) I grandi proprietari che, scrollandosi di dosso i vincoli dell'Antico regime e del dispotismo
monarchico, assieme all'autogoverno e alla rule of law per la comunità dei liberi, hanno
conquistato il pieno controllo sui loro servi e sui loro schiavi. E cioè, la limitazione del potere
nell'ambito della comunità dei liberi risulta strettamente intrecciata con l'ulteriore dilatazione
del potere a danno in primo luogo degli schiavi (che ora subiscono una reificazione senza
precedenti) e delle popolazioni coloniali (ora più che mai condannate alla deportazione e
all'annientamento). Non a caso è in questo periodo che comincia ad emergere il razzismo
biologico.Parlare di endogenesi o di una possibile endogenesi della libertà e dell'emancipazione
è stravolgere la realtà.
c) Non è esatto che io mi esprima più favorevolmente sul liberalismo francese: basti pensare al
giudizio da me formulato su Tocqueville. Il mio libro distingue non già tra liberalismo angloamericano
e liberalismo francese, bensì tra liberalismo e radicalismo. Tocqueville parla
tranquillamente di «democrazia in America», nonostante che il paese da lui visitato abbia come
presidente Andrew Jackson, proprietario di schiavi e protagonista della deportazione
sistematica dei Cherokees (un quarto muore già nel corso del viaggio di trasferimento). In
quello stesso periodo di tempo a visitare la repubblica nord-americana è un'altra importante
personalità francese, Victor Schoelcher, che giunge ad una conclusione ben diversa e persino
contrapposta: bolla i dirigenti statunitensi quali «i padroni più feroci della terra», responsabili
di «uno degli spettacoli più sconvolgenti che il mondo abbia mai offerto» (p. 145). Anche
questa analisi è unilaterale, non tiene conto dei processi reali di democrazia che si sviluppano
all’interno della ristretta comunità dei liberi. Ecco perché nel mio libro ho preferito far leva sulla
categoria di Herrenvolk democracy, di «democrazia per il popolo dei signori», suggerita da
alcuni eminenti studiosi statunitensi: la limitazione del potere nell’ambito della comunità dei
liberi va di pari passo con l’imposizione di un potere assoluto a danno degli esclusi; il governo
della legge nell’ambito del popolo dei signori va di pari passo con la schiavizzazione dei neri e
l’annientamento dei pellerossa. Conviene comunque tener ferma una distinzione. Nel formulare
il suo giudizio sugli USA, Tocqueville fa astrazione dalla sorte riservata ai pellerossa e ai neri, si
concentra solo sulla comunità dei liberi, è un liberale. Non così Schoelcher, un radicale, che
non a caso con la rivoluzione del febbraio 1848 svolgerà un ruolo decisivo nell'abolizione della
schiavitù nelle colonie francesi. Tocqueville accenna solo con disprezzo alla grande rivoluzione
degli schiavi neri di Santo Domingo, guidata da Toussaint Louverture; Schoelcher ne parla
invece con ammirazione.E Santo Domingo-Haiti, il primo paese ad abolire la schiavitù sul
continente americano, diviene il bersaglio dell'odio implacabile degli USA e di Jefferson, il quale
enuncia esplicitamente il proposito di ridurre alla morte per inedia i neri di santo Domingo-
Haiti, colpevoli di essersi liberati e di scandalizzare, col loro esempio, gli schiavi che vivono
nella repubblica nord-americana.
d) Il radicalismo conosce una più ampia diffusione nella Francia che nella guerra dei sette Anni
subisce la perdita di buona parte del suo impero coloniale.Ma il radicalismo non è assente
neppure negli USA. Trova espressione negli abolizionisti cristiani, i quali bruciano in piazza la

Costituzione americana da essi bollata, a causa della consacrazione in essa contenuta
dell'istituto della schiavitù, quale patto con l'Inferno e con la Morte.
4) Allora bisogna entrare più nel merito teorico delle difficoltà del liberalismo. O, nel caso, nel
merito del suo metodo d’indagine: il “caso” qui è dato dalla possibilità che lei intenda la teoria
liberale come una specie di formulazione ideologica di un sostrato d’interessi ben differenti.
Insomma, la “attiva coscienza” che genera un¹ideologia autolegittimante.
La discrepanza tra il significato oggettivo di un movimento politico-sociale e la coscienza
soggettiva dei suoi protagonisti e attori è un fenomeno di carattere generale. Tale discrepanza
assume di volta in volta modalità e significati diversi, ma non può mai essere ignorata, che si
tratti di analizzare il liberalismo, il fascismo o il comunismo. Per quanto riguarda il liberalismo
si pensi a Tocqueville. Per un verso egli celebra l’America come il paese in cui vige la
democrazia, «viva, attiva trionfante» e in cui «ogni individuo gode di una indipendenza più
intera, di una libertà più grande che in alcun altro tempo o in alcuna altra contrada della
terra». Per un altro verso, descrive senza abbellimenti gli orrori della schiavitù e della violenza
razzista a danno dei neri e dei pellerossa. Epperò, la loro sorte non interviene in nulla a
modificare il giudizio politico, il giudizio espresso a partire dall’analisi della sfera politica
propriamente detta, dalla quale sembra debbano essere escluse le condizioni civili e politiche,
oltre che materiali, delle «razze» diverse da quella bianca. Inequivocabile risulta la
dichiarazione programmatica che il liberale francese fa ad apertura del capitolo dedicato al
problema delle «tre razze che abitano il territorio degli Stati Uniti»: «Il compito principale che
mi ero imposto è ora adempiuto; ho mostrato, almeno per quanto mi è stato possibile, quali
siano le leggi della democrazia americana, ho fatto conoscere quali siano i suoi costumi. Potrei
fermarmi qui». È solo per evitare una possibile delusione del lettore che egli parla dei rapporti
tra le tre «razze»: «Questi argomenti, che toccano il mio soggetto, non ne sono parte
integrante: si riferiscono all'America, non alla democrazia, e io ho voluto soprattutto fare il
ritratto della democrazia». La democrazia può essere definita e la libertà può essere celebrata
concentrando l’attenzione esclusivamente sulla comunità bianca, sulla comunità dei liberi
propriamente detta. E, tuttavia, non è difficile avvertire l’imbarazzo e il disagio. Storicamente,
il liberalismo ci mette in presenza di gruppi sociali ed etnici che si auto-rappresentano quale la
comunità dei liberi e che, proprio in virtù di questa orgogliosa autocoscienza, sotto la pressione
anche della lotta degli esclusi, finiscono con l’avvertire o col maturare un sentimento di disagio
più o meno accentuato nei confronti di istituti e rapporti politico-sociali in netta contraddizione
con la loro professione di fede nella libertà.
5) A questo punto passiamo alla vicenda più contemporanea del liberalismo...
Non c’è dubbio che le società liberali presentano oggi un volto ben diverso rispetto al passato.
Esse hanno saputo rispondere alle sfide di volta in volta lanciate dagli esclusi, i servi della
metropoli e gli schiavi o i semi-schiavi delle colonie o da esse provenienti. Assieme alla
teorizzazione della limitazione del potere, la duttilità costituisce l’altro grande merito storico del
liberalismo. Tutto ciò va riconosciuto senza riserve, ma senza abbandonarsi al luogo comune
oggi dominante, che favoleggia di un processo spontaneo di auto-correzione. Si pensi a come
sono state superate le tre grandi clausole di esclusione (censitaria, razziale e di genere), che a
lungo hanno caratterizzato la tradizione liberale. L'abolizione della schiavitù sull'onda della
guerra di Secessione è costata agli Stati Uniti più vittime che non i due conflitti mondiali messi
assieme. Per quanto riguarda il monopolio proprietario dei diritti politici, alla sua cancellazione
ha dato un contributo decisivo il ciclo rivoluzionario francese. Infine, in grandi paesi come la
Russia, la Germania, gli Stati Uniti l'accesso delle donne ai diritti politici ha alle spalle gli
sconvolgimenti bellici e rivoluzionari degli inizi del Novecento. Il processo di emancipazione ha
molto spesso avuto una spinta del tutto esterna al mondo liberale. Non si può comprendere
l'abolizione della schiavitù nelle colonie inglesi senza la rivoluzione nera di S. Domingo,
guardata con orrore, e spesso combattuta, dal mondo liberale nel suo complesso. Circa
trent'anni dopo l'istituto della schiavitù è cancellato anche negli Stati Uniti; ma sappiamo che
dai loro avversari gli abolizionisti più ferventi sono accusati di essere influenzati o contagiati da
idee francesi e giacobine. Alla breve esperienza di democrazia multirazziale fa seguito una
lunga fase di de-emancipazione all'insegna di una terroristica supremazia bianca. Quando

interviene il momento di svolta? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia invia
alla Corte Suprema, impegnata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole
pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda
comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla
fede democratica». Washington – osserva lo storico americano che ricostruisce tale vicenda –
correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel
cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole
successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in
loro la «fede nelle istituzioni americane». A ben guardare, a mettere in crisi prima la schiavitù
e poi il regime terroristico di supremazia bianca sono rispettivamente la rivolta di S. Domingo e
la rivoluzione di ottobre. L'affermazione di un essenziale principio, se non del liberalismo,
comunque della democrazia liberale (nel senso odierno del termine), non può essere pensata
senza il contributo decisivo dei due capitoli di storia maggiormente odiati dalla cultura liberale
del tempo. Infine, bisogna riconoscere che ancora ai giorni nostri la logica che sottende la
«democrazia per il popolo dei signori» è ben lungi dall’essere dileguata. Per fare solo un
esempio: possiamo ben ammirare le garanzie giuridiche e il governo della legge negli Stati
Uniti, ma che ne è di tutto ciò per i detenuti di Guantanamo e di Abu Ghraib? E il principio della
limitazione del potere, che è merito della tradizione liberale di aver affermato, svolge un ruolo
reale nel rapporto che l’Occidente e gli Stati Uniti istituiscono col resto del mondo?
6) I diversi recensori le hanno rivolto delle critiche specifiche, lei che cosa risponde?
Le reazioni polemiche alla mia «Controstoria del liberalismo» non hanno mai messo in
discussione l’accuratezza della ricostruzione storica. Le critiche sono tutte di carattere teorico.
La prima fa appello allo «storicismo»: se anche ha ereditato vecchi vizi, il liberalismo li avrebbe
poi spontaneamente superati. In realtà, è proprio con la modernità liberale che il processo di
de-umanizzazione dello schiavo raggiunge il suo apice: la schiavitù ancillare cede il posto alla
schiavitù-merce su base razziale, e questa trova la sua consacrazione nella Costituzione
americana; emerge il primo Stato razziale, che continua a sussistere anche dopo l’abolizione
formale della schiavitù. Tra fine dell’Ottocento e primi decenni del Novecento infuria negli Stati
Uniti un regime di white supremacy (segregazione ad ogni livello, divieto di rapporti sessuali e
matrimoniali interrazziali, linciaggi contro i neri che diventano spettacoli di massa ecc.), che
non trova paralleli nei paesi dell¹America Latina. In base alla seconda critica, i «crimini del
liberalismo applicato» (E. Ferrero su «La Stampa» del 13 gennaio) non intaccarebbero la
nobiltà della teoria. E¹ una strategia argomentativa che non ha alcuna credibilità: come
abbiamo visto, le clausole d¹esclusione sono esplicitamente teorizzate in testi classici di autori
di primissimo piano della tradizione liberale. Tale strategia potrebbe essere fatta valere anche
per la storia del «socialismo reale», ma in questo caso i miei critici preferiscono, con scarsa
coerenza, procedere in modo del tutto diverso. Infine la terza critica (Nadia Urbinati su Reset):
sulle orme di Marx e dal suo pathos egualitario, il sottoscritto avrebbe dimenticato che al
centro del liberalismo è la difesa della libertà dell’individuo. In realtà, prendendo
esplicitamente le distanze da Marx e tanto più dal «marxismo» volgare, il mio libro si misura
col liberalismo a partire per l’appunto dal tema della libertà dell’individuo. Non erano
«individui» gli indiani da Washington assimilati a «bestie selvagge della foresta», né lo erano i
neri, destinati ad essere schiavi e ad essere scambiati come merci. Non erano «individui»
neppure i lavoratori salariati della metropoli, considerati e trattati alla stregua di «strumenti
vocali» (Burke) o di «macchine bipedi» (Sieyès). E questi non-individui erano esclusi dal
godimento non solo dei diritti politici ma anche di quelli civili. Immediatamente evidente per i
pellerossa e i neri, ciò vale anche per i servi della metropoli, rinchiusi in quanto «vagabondi» in
questa sorta di campo di concentramento che sono le «case di lavoro», e a centinaia o migliaia
«quotidianamente impiccati per delle inezie», secondo l’osservazione di Mandeville, il quale
però, in nome della salvezza della «nazione», esige la condanna a morte anche dei sospetti. Il
liberalismo è così poco sinonimo di difesa della libertà dell’individuo che questa finisce con
l’essere pesantemente limitata persino per i membri della classe dominante: ancora a metà del
Novecento, una trentina di Stati dell’Unione vietavano per legge i rapporti sessuali e
matrimoniali interrazziali; il potere politico interveniva anche nella camera da letto! D’altro
canto, alla fine dell’Ottocento, due autori tra loro così diversi quali Nietzsche e Oscar Wilde,
con giudizio di valore negativo o positivo, considerano il socialismo come un movimento

«individualista», in quanto impegnato nella lotta per il riconoscimento della dignità di
«individuo» anche ai cosiddetti strumenti di lavoro, esclusi dalla teoria e dalla pratica liberale.
Bisognerà attendere ancora qualche decennio (e cioè Lenin e la rivoluzione d’Ottobre) perché
tale dignità sia riconosciuta anche ai popoli coloniali. Naturalmente, è più facile attenersi al
manicheismo oggi imperante. Il risultato è però sotto gli occhi di tutti: il liberalismo smarrisce
il suo elemento di grandezza (l’affermazione, sia pur contraddittoria, della necessità della
limitazione del potere) per divenire un’ideologia della guerra e del dominio planetario.