Lettera aperta ai docenti della scuola italiana
di Marino Badiale* - 15/11/2006
I. Un suicidio di massa.
Nei libri sugli animali che leggevamo da ragazzi si raccontava la triste storia dei lemming. Questi piccoli roditori delle tundre nordiche, simili a criceti, a intervalli di tre o quattro anni, spinti dalla scarsità di cibo, iniziano a migrare, e queste migrazioni si concludono in modo drammatico con i poveri lemming che si gettano in mare dalle scogliere, realizzando un autentico suicido di massa.
Diventati adulti, abbiamo scoperto che questa storia, così impressionante e capace di colpire l’immaginazione di un ragazzo, è una leggenda, diffusa nel mondo, pare, da un documentario della Disney.
Pur sapendola falsa, vogliamo però usare questa immagine del suicidio di massa dei lemming per iniziare a parlare della situazione dei docenti della scuola italiana. Enunciamo subito la nostra tesi fondamentale: la realtà della scuola italiana è caratterizzata da un suicidio di massa degli insegnanti. L’immagine dei professori-lemming descrive bene, a nostro avviso, alcuni aspetti decisivi delle vicende della scuola in questi ultimi anni. Le caratteristiche di tale suicidio di massa possono essere riassunte nei tre punti seguenti:
- Si è avuta negli ultimi anni una serie di interventi legislativi e amministrativi sulla scuola che hanno alterato in profondità i caratteri essenziali della scuola stessa. Questi interventi possono essere riassunti nella formula “riforma Berlinguer-Moratti”.
- Questa riforma ha come conseguenza la dequalificazione del lavoro del docente e la degradazione culturale e sociale (con conseguente impossibilità di miglioramento economico) dell’intera categoria dei docenti della scuola italiana.
- I docenti hanno nella sostanza accettato tutto questo, spesso collaborando alla propria degradazione, più spesso lamentandosi, ma senza mai ribellarsi seriamente.
Perché la riforma Berlinguer-Moratti ha come conseguenza il degrado culturale e sociale dei docenti? Perché uno dei suoi contenuti fondamentali è la svalutazione dell’insegnamento dei contenuti disciplinari, di quelle cioè che nel linguaggio comune sono le “materie” tradizionalmente insegnate a scuola. Questo fatto non è di immediata percezione, in primo luogo perché non viene enunciato esplicitamente nei testi legislativi e amministrativi che hanno articolato la riforma Berlinguer-Moratti, in secondo luogo perché si tratta di una tendenza di fondo che non è ancora arrivata alla sua compiuta realizzazione. La svalutazione dell’insegnamento delle “materie” nella scuola italiana contemporanea rappresenta però la ratio implicita di una serie di misure che possono essere comprese solo alla luce di tale scelta di fondo. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ne facciamo solo alcuni per mantenere la lunghezza di questa lettera entro limiti ragionevoli. Un primo aspetto è l’incentivazione di una miriade di attività parallele all’insegnamento disciplinare (fra cui i cosiddeti “progetti”, ma non si tratta solo di questi), attività che implicano la continua interruzione dell’orario curriculare, cioè dell’orario dedicato all’insegnamento disciplinare stesso. Un altro aspetto è l’introduzione di materie nuove che si aggiungono alle materie tradizionali implicando una diminuzione dell’orario per tutte le materie. A ciò si possono aggiungere gli spostamenti di docenti dall’insegnamento di materie per cui hanno una preparazione specifica all’insegnamento di altre materie, cosiddette “affini”, spostamenti motivati esclusivamente da esigenze di organizzazione scolastica. Analogo a questo fenomeno è quello delle abilitazioni con concorsi speciali che prescindono parzialmente o totalmente dalla preparazione specifica. Già da questi semplici esempi si capisce come la ratio che li unifica e li rende comprensibili sia quella della svalutazione dell’insegnamento delle “materie” tradizionali: un insegnamento a cui viene dedicato sempre meno tempo e rispetto quale non si ritiene importante che venga svolto da docenti preparati.
Poniamoci adesso il problema di capire cosa significhi tutto questo rispetto alla scuola e rispetto alla vita di chi nella scuola ci lavora. Significa, in sostanza, che la scuola di Berlinguer-Moratti non è più, a parte alcune sue zone residuali, una scuola. E’ diventata un’istituzione completamente diversa, che della scuola conserva, con limitate eccezioni, solo l’immagine esteriore. A questa nostra affermazione qualcuno potrebbe obiettare che la scuola non ha solo la funzione di “insegnare delle materie”, ma ha altre funzioni, anche più importanti, di tipo socio-educativo: come per esempio far crescere la capacità relazionale dei giovani, aiutare il loro inserimento nella società, sviluppare in essi il rispetto per le culture e i popoli del mondo, e la lista potrebbe ovviamente continuare. Se questo è vero, il permanere di tali funzioni e scopi socio-educativi conserva un significato e un ruolo profondo alla scuola, anche se diminuisce l’attenzione alle tradizionali “materie”.
Questa obiezione, in apparenza ragionevole, è in realtà un vuoto sofisma, che denota una profonda incomprensione di cosa sia la scuola. Per capire quanto affermiamo, basta riflettere sull’esempio seguente. Tutti siamo d’accordo sull’importanza dell’attività sportiva per i giovani. Una giusta dose di attività sportiva è necessaria allo sviluppo equilibrato del corpo, ed ha anche importanti aspetti educativi: abitua alla corretta elaborazione di emozioni come l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del gioco e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni nel caso degli sport di squadra. E’ per tutti questi motivi che molti genitori fanno fare ai propri figli le più diverse attività sportive. Immaginiamo però che quando portiamo nostro figlio nella tal palestra per iscriverlo ad una qualche attività sportiva ci venga fatto dai responsabili il seguente discorso: poiché lo sport ha importanti funzioni nello sviluppo fisico ed emotivo dei giovani, ma d’altra parte fare sport è faticoso, abbiamo pensato di perseguire le importanti funzioni educative dello sport tenendo i ragazzi fermi e seduti. Cosa penseremmo di una simile proposta? Penseremmo che chi ragiona in questo modo o sta scherzando, o è un pazzo, o non sa di cosa sta parlando. E sicuramente porteremmo nostro figlio in un’altra palestra. Ma sostenere che le finalità socio-educative della scuola possono essere perseguite trascurando l’insegnamento disciplinare è un’assurdità dello stesso tipo. Infatti l’essenza della scuola, così come si è formata nella nostra storia, sta in questo: la scuola è quella particolare “agenzia educativa” nella quale le finalità educative sono perseguite attraverso l’insegnamento di contenuti disciplinari. Ovvero, la scuola esiste perché (e finché) si ritiene che alcune particolari “materie” abbiano una pregnanza culturale e umana tale che, attraverso il loro insegnamento, sia possibile perseguire quei fini sociali ed educativi di cui si diceva sopra.
La scuola esiste perché si ritiene, o si è ritenuto fino a tempi recenti, che insegnare letteratura, matematica, filosofia, fisica eccetera rappresenti un modo, il modo specifico appunto della scuola, di educare i giovani.
E’ questo lo specifico della scuola. E’ questo che distingue la scuola da altre “agenzie educative” come la famiglia, il gruppo di amici, i boy scouts o quant’altro.
Ma se tutto questo è vero, cosa resta della scuola, una volta che essa sia privata del suo elemento specifico e caratterizzante, cioè l’educazione dei giovani attraverso l’insegnamento di specifiche materie? La risposta è ovvia: non resta nulla. La scuola viene di fatto abolita, e il tempo della scuola diventa un enorme tempo vuoto che bisogna riempire con le più diverse e strane attività. E cosa diventano i docenti, dentro a questa scuola che non è più una scuola? Qual è il loro ruolo, una volta abolito di fatto il loro ruolo specifico dell’insegnamento delle “materie”? Nella squola di Berlinguer-Moratti i docenti sono ridotti ad essere dei badanti o dei baby-sitter. La lenta cacciata dei docenti dal ceto medio alle zone più basse della stratificazione sociale è una conseguenza ovvia di questa loro dequalificazione professionale.
Si potrebbe obiettare che la professionalità dei docenti (e quindi il loro livello sociale ed economico) viene salvata insistendo sulle loro competenze pedagogico-didattiche, invece che su quelle disciplinari. I docenti cioè sarebbero quelle persone che sanno come si insegna, e tali persone sarebbero importanti anche in una scuola nella quale si dà meno importanza a cosa si insegni. Questa obiezione è analoga a quella che abbiamo poco fa confutato. In sostanza, dire che non ha importanza cosa si insegna perché l’importante è che venga insegnato bene, equivale a dire che i contenuti dell’insegnamento non hanno più nessuna importanza. Ma questo ha come conseguenza la scelta dei contenuti più facili e meno impegnativi possibili: se tutto è uguale a tutto, perché docenti e studenti devono sobbarcarsi la fatica di leggere Manzoni, quando è tanto più gradevole leggersi Camilleri? Il punto è che, una volta impostate le cose in questo modo, si è su un piano inclinato nel quale non ci si può fermare. Perché leggere Camilleri a scuola quando ascoltare le canzoni di De André è ancora più gradevole e più facile? Si vede facilmente che, lungo questo piano inclinato, si torna alla degradazione professionale dei docenti. Infatti, di quale mai competenza pedagogica c’è bisogno per tenere i ragazzi in classe a fare cose piacevoli e divertenti come ascoltare canzoni[1]? E’ chiaro che, in questo contesto, la figura del docente si riduce, come già abbiamo detto, a quella di una badante o di una baby-sitter.
Possiamo allora concludere che nella riforma Berlinguer-Moratti è implicita una sostanziale degradazione della figura del docente. Tale degradazione determina il degrado economico e sociale dell’intero ceto dei docenti, il loro ridursi a poveracci degni solo, a seconda delle inclinazioni, di compassione o disprezzo.
Tale degradazione ha, come ulteriore conseguenza, l’abbassamento del livello culturale e della maturità intellettuale dei giovani che escono dalla scuola italiana. E’ un fenomeno che chi insegna all’Università ha ben chiaro, e che genera un forte pessimismo sul futuro del paese.
Aggiungiamo infine che, a nostro avviso, il degrado della scuola arriverà presto a mettere in pericolo la stessa sicurezza fisica dei docenti: è chiaro infatti che una scuola intesa come grande parcheggio per ragazzi non ha più alcuna barriera che la protegga dalla degradazione del sociale. Gli episodi di violenza nelle scuole, di cui leggiamo sui giornali, sono anch’essi collegati a quella negazione del ruolo specifico della scuola, che è l’anima della riforma Berlinguer-Moratti, e sono destinati ad aumentare di numero e di gravità.
II. Combattere il degrado.
E’ possibile arrestare questo degrado? E’ nostra convinzione che sia possibile, ma estremamente difficile. Occorre infatti rendersi conto che un fenomeno di tale rilevanza storica come l’annientamento della scuola italiana non può essere l’effetto di una causa risibile come la miseria intellettuale e politica di personaggi del calibro di Luigi Berlinguer o della signora Moratti. Questi personaggi, assieme al resto del miserabile ceto politico e giornalistico di cui essi sono perfetti rappresentanti, possono agire indisturbati solo perché, evidentemente, ciò che fanno esprime alcune tendenze profonde del nostro tempo. Occorre cioè rendersi conto che la negazione del ruolo del pensiero e della cultura è oggi una tendenza spontanea e fortissima, e che lottare per difendere la scuola come luogo in cui si educano i giovani attraverso la loro introduzione nel mondo del pensiero e della cultura, significa lottare contro aspetti strutturali di questa fase storica. Significa cioè mettersi volontariamente e lucidamente in una posizione “conservatrice” e “anacronistica”. E’ questa lucidità che sembra mancare all’insieme dei docenti italiani, ed è questa mancanza di lucidità a rendere particolarmente difficile la lotta contro il degrado.
Per combattere contro l’annientamento della scuola italiana, che si traduce nel degrado della figura del docente, occorre naturalmente combattere l’aspetto centrale di tale annientamento, aspetto che abbiamo individuato nella prima parte. La negazione della scuola è conseguenza logica della negazione della centralità delle tradizionali “materie di insegnamento”: l’italiano, la matematica, la filosofia, la fisica, la storia, la geografia e poche altre. Per combattere il degrado occorre allora rimettere al centro proprio le tradizionali “materie”: occorre avere come punto fermo e inderogabile l’assioma che la scuola è, essenzialmente, il luogo dove si insegnano italiano, matematica, filosofia, fisica, storia, geografia e poche altre materie fondamentali. Con questo intendiamo dire l’insegnamento delle materie tradizionali deve costituire l’asse culturale di riferimento della scuola italiana. Questo ovviamente non esclude che nelle varie scuole si insegnino altre cose, a seconda del tipo di istituto. Ma deve essere chiaro che esiste un fondamento culturale omogeneo per tutta la scuola italiana, e che esso è rappresentato da poche materie fondamentali. Ogni discorso sulla scuola deve partire da qui. Da qui si può cominciare a parlare delle finalità socio-educative della scuola. E per dire qualcosa anche su questo tema, cominciamo subito a dedurre, dalla centralità dell’insegnamento delle “materie”, due fondamentali valori educativi della scuola. La scuola, grazie all’insegnamento delle “materie”, fornisce i filtri culturali per dipanare l’immensa massa di “informazioni” alle quali i giovani, come tutti, sono esposti. Inoltre insegna il valore del duro lavoro dello studio. Per quanto riguarda il primo punto, è evidente che oggi non si tratta di offrire ai giovani stimoli e informazioni: il nostro mondo è un mondo di persone iperstimolate sul piano mediatico e spettacolare e rimpinzate di informazioni. Un mondo di esposizione continua alla televisione, a cui si aggiunge lo spazio immenso di internet. In questa situazione il punto cruciale, ciò che distingue gli individui attivi dai recettori passivi e manipolati, è la capacità di filtrare le informazioni, di selezionare, di rifiutarsi alla bulimia informativa e di scegliere le informazioni importanti e significative. Ma è appunto la lezione di organizzazione concettuale fornita da uno studio serio e approfondito di materie come la lingua italiana, la storia, una disciplina scientifica, a fornire questa capacità di selezione critica delle informazioni. Allo stesso modo, il fatto di capire che solo attraverso un duro e serio lavoro di studio si può arrivare a risultati di questo tipo, o a qualsiasi tipo di risultato, è un altro fondamentale valore educativo dell’insegnamento disciplinare.
Queste osservazioni rappresentano però solo il punto di partenza. Il passaggio successivo è la riacquisizione da parte dei docenti dell’autorevolezza perduta. Il docente deve tornare ad essere una figura che ha autorità e stima sociale, e ce l’ha appunto in quanto è colui o colei che insegna quelle particolari materie. Questo è naturalmente il passaggio più difficile. Come dicevamo sopra, l’annientamento della scuola italiana è un fatto storico di vasta portata, possibile solo grazie al fatto che la negazione della cultura e del pensiero sono diventati senso comune. E’ dunque difficile riacquistare stima sociale in una società che nega stima proprio alla cultura e al pensiero, e quindi alla scuola e a chi ci lavora. Ma questa difficoltà, già grave di per sé, diventa insormontabile se i docenti introiettano la mancanza di stima che sentono nell’intero ambiente sociale. Vale a dire che il primo passo i docenti devono farlo su di sé. Il primo passo per combattere il degrado della scuola e dei docenti è la riconquista dell’autostima da parte dei docenti stessi. E poiché il docente, come s’è detto, è colui o colei che insegna quelle ”materie”, occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti della centralità e dell’importanza di quello che fanno, vale a dire di quello che insegnano. Occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti che insegnare Dante e Galileo, Platone e Manzoni, Newton e Petrarca sia un compito fondamentale e centrale; che un mondo in cui la gente impara a scuola la tradizione culturale cui quei nomi, e gli altri simili, fanno riferimento, è un mondo migliore di quello in cui questo non succede. Che insegnare Leopardi e Shakespeare significa offrire ai ragazzi una opportunità inestimabile: l’opportunità di costruirsi un’identità personale un po’ più sensata, un po’ più umana di quella che avrebbero senza Leopardi o Shakespeare. Ma non basta che i docenti credano questo. Devono saperlo. E sapere è più di credere. Il docente sa che quanto abbiamo appena detto è vero solo se ne ha provato su se stesso la verità. Vale a dire, solo se ha nel proprio vissuto la gioia, l’emozione, la soddisfazione profonda di capire un teorema o una poesia, di comprendere realmente una dinamica storica o una cultura diversa dalla propria. In definitiva, i docenti possono recuperare stima e autorevolezza solo se tornano ad essere intellettuali veri, che credono nel valore della cultura che trasmettono perché quel valore lo conoscono per esperienza personale e pratica quotidiana. E’ chiaro che su questo punto ci deve essere una profonda autocritica dei docenti italiani. Essi per troppi anni hanno accettato un patto scellerato che consisteva nello scambio fra bassi salari e scarso impegno personale, anche sul piano culturale. Questo deve finire. Non che si possa pretendere dall’oggi al domani un radicale cambiamento delle persone. Ma si può e si deve pretendere un radicale cambiamento dei valori. Deve essere chiaro che la scuola italiana può essere ricostruita dalla macerie, e il degrado dei docenti può essere arrestato, solo se si assume come norma di cosa sia un docente il modello che abbiamo descritto. Solo con questa radicale assunzione di responsabilità, con questa severa autocritica e con questa scelta di un modello normativo di rigore culturale, i docenti italiani potranno finamente risollevare la testa.
III. Su la testa!
A partire da quanto fin qui detto si può provare a rispondere a molte affermazioni superficiali e scorrette sulla scuola, da tempo depositate nel senso comune.
Dice il senso comune: la scuola trasmette contenuti vecchi, il mondo è cambiato, occorre praticare attività nuove, come computer, multimedialità, viaggi di istruzione.
No. Tutte queste cose fanno parte della realtà nella quale i ragazzi sono immersi indipendentemente dalla scuola. Sono cose che essi fanno in ogni caso. A spippolare sul computer imparano comunque, in un modo o nell’altro, i viaggi li fanno con i loro genitori o con gli amici, in internet ci vanno comunque.
Il compito della scuola non è far fare queste cose, ma fornire gli strumenti concettuali con i quali capire quello che si fa e quello che succede nel mondo. La comprensione delle dinamiche storiche e culturali con le quali si è arrivati ai fatti di cui parlano i telegiornali è cosa che può dare solo la scuola, e senza la quale è inutile seguire i telegiornali. Leggere Tucidide e Machiavelli, studiare la storia della rivoluzione industriale o del Medio Oriente aiuta a capire la realtà contemporanea più di ore passate in internet.
Allo stesso modo, le classiche “gite scolastiche” sono ormai diventate una pura perdita di tempo e vanno abolite appena possibile.
Dice il senso comune: la scuola deve preparare al mercato del lavoro; data la difficoltà odierna del mercato del lavoro, è questo uno dei suoi compiti principali.
No. Quello della disoccupazione giovanile (e non solo) è un problema drammatico. Appunto per questo deve essere affrontato da chi ha gli strumenti per affrontarlo, cioè il mondo della politica, e sul piano che gli è proprio, cioè quello dell’organizzazione sociale dell’economia. Scaricare tale problema sulla scuola rappresenta una truffa. La scuola non ha la possibilità di risolvere il problema della disoccupazione giovanile. Se si porta un giovane da un medico perché è ammalato e il medico lo restituisce sano, il medico ha svolto il suo compito, non gli si chiede anche di trovare un posto di lavoro al giovane. La scuola, se funziona, fornisce alla società giovani educati al pensiero, alla cultura, al ragionamento. E’ questo il suo contributo al progresso civile.
Dice il senso comune: i ragazzi vanno stimolati, per esempio portandoli a mostre e dibattiti, fiere del libro e festival della scienza, invitando persone esterne alla scuola a fare conferenze.
No. Come dicevamo sopra, oggi la condizione normale delle persone è quella di una iperstimolazione mediatica, continua e incessante. La scuola non deve contribuire a questa bulimia, ma deve fornire filtri culturali. Inoltre, occorre rendersi conto che la cultura delle fiere del libro, dei festival della scienza e delle pagine culturali dei giornali, è una cultura della chiacchiera pretenziosa, della superficialità, della moda cultural-spettacolare priva di spessore. E’ una cultura diametralmente opposta alla cultura dello studio e del pensiero che la scuola deve trasmettere. La scuola, lungi dal portare gli studenti a queste iniziative, deve insegnare loro a non andarci, o ad andarci il meno possibile. Deve far loro capire che leggere un buon libro è sempre la cosa migliore da fare, se si tiene alla cultura.
Quanto agli esperti invitati a tenere conferenze nella scuola, se sono persone serie e non chiacchieroni alla moda possono essere utili. Ma queste iniziative, se svolte nell’orario curriculare, rappresentano in ogni caso una perdita di tempo prezioso, rispetto al compito principale della scuola, che è di stare in classe a insegnare e imparare, e vanno quindi ridotte al minimo.
Dice il senso comune: in un mondo multietnico la scuola deve aprirsi alle altre culture e diventare una scuola multiculturale.
No. Quello del rapporto con altre culture e dell’integrazione sociale, economica e culturale delle varie etnie presenti nel nostro paese rappresenta un problema serio e importante, che viene impropriamente e truffaldinamente accollato alla scuola. Chiunque sappia cosa vuol dire educare un giovane a comprendere i valori profondi della nostra tradizione culturale sa che si tratta di un’impresa che richiede tempo, impegno, serietà. Non c’è spazio, nel tempo della scuola, per fare un lavoro di altrettanto impegno nei confronti di un’altra cultura. E quale poi? Dato che nel nostro paese convivono le più diverse etnie, quali altre culture dovrebbero entrare nella scuola italiana? La tradizione culturale araba, quella cinese, quella del cristianesimo ortodosso, quella iberica e latino-americana, le varie culture africane? Chiunque abbia un’idea minimamente seria di cosa significhino queste tradizioni, sa che è assurdo pensare ad una scuola nella quale si parla un pochino di Cina e un pochino di Maometto, un pochino di Africa e un pochino di Tolstoi. Niente potrebbe essere fatto con serietà, con profondità, in una simile scuola. Ma chi fa simili proposte non ha la minima idea di cosa siano serietà e profondità, di cosa siano cultura e pensiero, e immagina la scuola come un supermarket con gli appositi scaffali per le spezie esotiche. Del resto, basta pensare nei termini della vita quotidiana per capire l’assurdità di queste proposte. Se viene ospite a casa tua un amico cinese, gli prepari forse una cena di cucina cinese? Ovviamente no, gli prepari una cena di cucina italiana cercando di tirare fuori il meglio che sei capace di fare. Rifiutando l’idea della scuola multiculturale, che è la scuola non delle molte culture ma della negazione di ogni idea di cultura, noi ci regoliamo secondo le leggi universali dell’ospitalità, offrendo in dono a coloro che sono arrivati da lontano ciò che di più bello abbiamo, ciò che ci è più caro: Dante e Leopardi, Platone e Galileo, e così via. Ed è questo l’unico modo in cui la scuola può lavorare per la pacifica convivenza fra le culture. Sforzandosi di far vivere agli studenti una esperienza culturale seria e vera, quella dell’incontro con la nostra tradizione, insegnamo contemporaneamente il rispetto per la cultura universale. Solo chi ha vissuto l’emozione di un incontro culturale profondo e autentico, sia esso con Euclide o con Ariosto, con Pascal o con Maxwell, è in grado di intuire lo spessore umano di un’altra tradizione culturale, e quindi di rispettare realmente Confucio e Maometto. Chi riduce la cultura a chiacchiericcio generico su tutto e tutti, non rispetta in realtà nessuna tradizione culturale.
Dice il senso comune: la scuola deve cambiare perché ci sono molti cattivi professori che allontanano gli studenti dalle loro materie. Ci sono tanti casi di persone che hanno avuto un cattivo docente di matematica (filosofia letteratura italiana ecc) e quindi sono sempre rimaste lontane dalla matematica (dalla filosofia dalla letteratura italiana ecc).
No. E’ ovvio che cattivi docenti ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno. Così come ci sono sempre stati e sempre ci saranno cattivi medici, cattivi avvocati, cattivi cuochi. Ma non per questo la scuola deve cambiare la sua natura profonda, che è quella, ripetiamolo un’altra volta, di educare attraverso l’insegnamento disciplinare. Il problema dei cattivi insegnanti va affrontato rendendo razionale, come non è da tempo, il sistema del reclutamento. Altrimenti lo stesso ragionamento porterebbe a dire che, poiché negli ospedali italiani ci sono anche cattivi medici, allora gli ospedali non devono più preoccuparsi di curare i malati. Oppure a dire che, poiché nei tribunali italiani ci sono anche cattivi magistrati, allora la magistratura non deve più preoccuparsi di applicare le leggi.
IV Lotta dura.
Ma la ripresa di prestigio e autorevolezza del corpo docente deve passare attraverso un deciso aumento degli stipendi. Non è possibile svolgere seriamente un lavoro intellettuale se si è costantemente con l’acqua alla gola sul piano della vita materiale. Ed è esattamente quello che succede con le attuali retribuzioni. La richiesta minimale deve essere quella di raddoppiare gli stipendi dell’intero corpo docente. Questo deciso innalzamento del livello economico deve essere sganciato da ogni considerazione di produttività o di competitività, categorie che non hanno nulla a che fare col lavoro intellettuale ed educativo della scuola. Il lavoro del docente non può essere misurato in termini quantitativi, e la nozione di produttività non può essere ad esso applicata. Quanto alla competitività, il docente non deve competere con nessuno, anzi, deve mettere il più possibile in comune con i colleghi il proprio sapere.
Ma dove trovare le risorse per questi aumenti? Occorre, evidentemente, rinunciare ad altre cose. In una situazione di debolezza economica come quella italiana, occorre capire che ci sono lussi che non ci possiamo più permettere. La scuola non è un lusso. Ma la stragrande maggioranza delle iniziative di “spettacolo culturale” le cui pubblicità ci bombardano sono lussi: festival e mostre, happenings e dibattiti. E non si tratta solo del fatto che costano. Se riflettiamo sul fatto che oggi appare dominante questa cultura ridotta a spettacolo, a chiacchiera superficiale, a “star system” culturale, e su come tale cultura-spettacolo si opponga diametralmente alla cultura del libro, della riflessione e del pensiero, di cui è depositaria la scuola, arriviamo ad una conclusione necessaria: i docenti hanno tutto l’interesse a chiedere l’abolizione di mostre e spettacoli, fiere del libro e festival della scienza. Per formulare una proposta concreta, i docenti dovrebbero chiedere la soppressione degli assessorati alla cultura di comuni, province e regioni, la fine di ogni contributo finanziario pubblico alla cultura-spettacolo, e il versamento dei soldi così risparmiati sui loro stipendi. Meno chiacchiere futili, meno spettacolo, più serietà, più stipendi per gli insegnanti. Tutti vantaggi, nessuno svantaggio, costo zero per lo Stato.
Infine, i docenti delle scuole dovrebbero lottare duramente per chiedere l’abolizione di pedagogia e didattica dalle università italiane. Pedagogisti e didatti sono i principali ispiratori della riforma Berlinguer-Moratti. Si tratta di signori che, pagati il doppio o il triplo di un docente di scuola, invece di starsene nel loro cantuccio a raccontarsi le loro sciocchezzuole, hanno pensato bene di invadere la scuola italiana e la vita di chi ci lavora. L’esito di questa invasione è talmente devastante da imporre una reazione radicale. Siamo però così convinti del grande valore di civiltà del “posto fisso” che non chiediamo il licenziamento neppure di pedagogisti e didatti. Per abolire pedagogia e didattica basta semplicemente che ad ogni pensionamento di un professore o ricercatore universitari di una di queste materie, il suo stipendio venga riassorbito dall’Università e destinato ad altre discipline.
La lotta contro il degrado della scuola non sarà facile. E’ solo avendo le idee chiare sulla situazione attuale e sulle sue cause che tale lotta potrà iniziare. La nostra speranza è che questo intervento possa almeno contribuire a fare chiarezza.
Marino Badiale
Docente di Analisi Matematica
*Università di Torino.
Di prossima pubblicazione sulla rivista “Eretica”.
[1] Stiamo parlando, sia chiaro, di tendenze insite nella logica delle cose, non necessariamente realizzate in questo momento. Secondo notizie riportate dalla stampa tempo fa, alcune scuole hanno già cominiciato a sostituire Manzoni o Verga con Camilleri. Non siamo ancora arrivati a sostituire Petrarca con De Andrè, ma pensiamo ci manchi poco.