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Papà, che cosa successe a Falluja?

di Paola Gasparoli, Claudio Jampaglia, Mario Portanova - 11/11/2005

Fonte: diario.it

 

Questo servizio giornalistico è del 3 giugno 2005


Nella guerra irachena è stata finora la battaglia più imponente, sanguinosa e misteriosa: dieci giorni di assedio e distruzione di una città di 350.000 abitanti per «rompere la spina dorsale» del terrorismo. La prima inchiesta sulla prima battaglia di terra del secolo

AMMAN. Oggi, sei mesi dopo la fine della grande battaglia, a Falluja si combatte ancora. «Il 7 maggio 2005 i quartieri di Suhada e Jubail sono stati bombardati tra le 22 e le tre di notte», si legge in un rapporto interno dell’Unami, la missione dell’Onu in Iraq. «Non è possibile sapere se i responsabili fossero le Forze della coalizione o gli insorgenti». L’8 maggio altre bombe piovono sui due quartieri. Il 9, dice ancora il rapporto, «il quartiere di Nazzal è stato circondato completamente dalle Forze della coalizione dalle 4 alle 19. Si è svolta una ricerca casa per casa». Nella città devastata a novembre dalle truppe americane e irachene, la vita di tutti i giorni è lontanissima dalla normalità. Sono tornate 195 mila persone sulle 350 mila che ci abitavano prima dell’attacco. Per i cittadini, «le procedure di ingresso sono lente», continua il rapporto. «A volte i punti d’accesso vengono chiusi a lungo senza preavviso. Per esempio, il 10 maggio tutti gli ingressi sono stati bloccati dalle 10 alle 14». E ancora, «i movimenti all’interno della città sono limitati dall’improvviso blocco di strade e quartieri».

Il coprifuoco è in vigore dalle 21 alle 5. L’erogazione dell’acqua è precaria, sette quartieri sono completamente privi di elettricità». I cittadini lamentano «l’insicurezza del mercato durante il coprifuoco e accusano i soldati dell’esercito iracheno di furti in alcuni magazzini nel quartiere di al-Andalus»; denunciano «le continue perquisizioni in casa» e la «paura di essere arrestati in qualunque momento come sospetti fiancheggiatori della resistenza». Il rapporto cita il caso dei proprietari degli internet café – una novità nella tradizionale Falluja – appena aperti nel quartiere di al-Jumhuriya, «tutti arrestati dalle Forze della coalizione il 3 maggio, con l’accusa di diffondere informazioni pericolose. Il 9 maggio erano ancora detenuti».

Sono pericolose le informazioni che escono da Falluja. Sei mesi dopo l’operazione Al-Fajr («l’alba» in arabo), l’attacco sferrato l’8 novembre 2004, non esiste alcun dato ufficiale delle vittime civili. Non esiste alcuna stima sui feriti. L’esercito americano si è limitato a dichiarare 1.200-1.600 «combattenti» nemici morti. Nient’altro. «Posso onestamente dire che non sono a conoscenza di alcun civile ucciso», ha affermato il generale John Sattler, comandante del First Marine Expeditionary Force, in un briefing del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti il 18 novembre, quando annunciò la fine vittoriosa dell’operazione. Invece le vittime civili ci furono, almeno nell’ordine delle centinaia.

Diario ha incontrato ad Amman, in Giordania, alcuni medici, operatori umanitari e responsabili del Consiglio cittadino di Falluja. Uno di questi è Mohamad Tareq al-Deraji, 33 anni, biotecnologo e direttore del Centro studi per la democrazia e i diritti umani di Falluja, un’organizzazione di una sessantina di persone. Al-Deraji ci ha consegnato alcuni video e decine di foto scattate nei giorni successivi all’attacco. Mostrano intere famiglie morte nelle loro case, cadaveri carbonizzati, intere vie rase al suolo. «Dopo la battaglia abbiamo cercato di recuperare i corpi», spiega. «Finora ne abbiamo raccolti 7-800, quindi rispetto ai dati americani ne mancherebbero 400. Dove sono finiti?». Racconta che l’organizzazione Al Waqf al Sunni («le pie donazioni musulmane») ne ha sepolti 400 al cimitero di Sicher, un villaggio a un paio di chilometri dalla città. «Altri 70 corpi sono stati portati al cimitero di Saqlawiya, un altro villaggio vicino, intorno al 18 novembre». Sono quelli recuperati dalle squadre volontarie autorizzate dagli americani, che hanno indicato le zone e i cadaveri che potevano portare via. In realtà a Saqlawiya ci sono almeno 110 corpi, filmati mentre vengono scaricati da due camion dal medico Salam Ismael. La scena fa parte di in un documentario del regista inglese Michael Burke. «Lo stadio del quartiere di Suhada», continua al-Deraji, «è stato riservato ai morti durante gli attacchi americani dall’aprile 2004 in avanti. Oggi ci sono circa mille tombe».

«Ufficialmente ci sono 1.017 tombe nei cimiteri», spiega a Diario Abd el-Qader as-Saadi, giornalista iracheno di Al Arabiya presente a Falluja durante l’attacco. «Risalgono anche ai bombardamenti precedenti l’invasione e comprendono anche vecchi, donne e bambini. Altre persone sono state sepolte nelle case più vicine al luogo dove i cecchini gli avevano sparato. Moltissimi non erano riconoscibili. Il numero dei dispersi è molto alto». In un rapporto inviato il 14 gennaio 2005 al segretario generale dell’Onu Kofi Annan, il Centro studi per i diritti umani parla di 700 corpi recuperati il 25 e il 26 dicembre dalle squadre d’emergenza dell’ospedale di Falluja, soltanto in 6 dei 28 quartieri della città: «504 erano di donne e bambini». Il dato era stato anticipato il 4 gennaio dal dottor Rafa’ah al-Isawi, all’epoca direttore dell’ospedale, in un’intervista a Irin, l’agenzia di stampa dell’Onu. «In città si parla anche di molti dispersi», aggiunge al-Deraji, «ma raccogliere dati precisi è difficile, le famiglie hanno paura a denunciarli». Il 21 novembre il CentCom, il comando centrale delle Forze della coalizione, dichiara 1.450 prigionieri, di cui 400 rilasciati e 100 in procinto di tornare a casa. Secondo stime informali in ambiente Onu, oggi sono ancora detenute 750 persone, di cui gli americani non forniscono alcun dato, come è consuetudine per i sospettati di terrorismo in Iraq.

I dati sulla distruzione della città, invece, sono ufficiali. Le case colpite nell’operazione di novembre sono state 36.955: 2-3 mila distrutte completamente, 6-8 mila al 50 per cento o più, 12 mila almeno al 30 per cento. Sono i dati raccolti dal Comitato per le compensazioni di Falluja, a cui partecipano rappresentanti della città, del governo iracheno, degli americani, dell’Unami. Servono a calcolare le compensazioni ai proprietari delle abitazioni colpite: 493 milioni di dollari per i soli edifici privati.

Obiettivo fallito. Questi i costi dell’attacco a Falluja. E i «benefici»? Nelle intenzioni espresse dagli Usa, l’operazione avrebbe dovuto «spezzare la spina dorsale» del terrorismo iracheno. I numeri dell’Iraqi Index, curato dalla Brooking Institution di Washington (www.brookings.edu/iraqindex), dicono che non si è spezzato nulla. Gli attacchi contro le Forze della coalizione sono stati 2.400 a ottobre 2004 (prima dell’operazione), 3.000 a novembre (durante), 2.300 a dicembre (dopo), ancora 2.300 a gennaio 2005. Il numero di soldati americani uccisi ogni mese si è mantenuto tra i 70 e i 100 prima e dopo l’attacco. E i civili uccisi in attentati sono drammaticamente cresciuti nei mesi successivi (109 nell’ottobre del 2004, 226 a dicembre). Oggi va ancora peggio, con i 400 morti per attentati in una sola settimana di maggio. Dopo la sanguinosa battaglia di Falluja, dunque, la «spina dorsale» della guerriglia appare intatta. Lo ha confermato il 27 aprile il generale Richard Myers, capo di Stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti: «La capacità d’attacco dei ribelli è la stessa rispetto a un anno fa».

Allora, perché Falluja?

LA RIVOLTA DEI BINOCOLI.
Gli americani entrano a Falluja il 9 aprile del 2003, alla fine della loro rapida invasione che corre lungo le autostrade e tralascia le città, che peraltro non oppongono resistenza. Qui non vengono accolti come liberatori, ma nemmeno presi a fucilate. Non poco per la città più leale a Saddam Hussein, che proprio qui – e non a Tikrit – proclama la vittoria nella «madre di tutte le battaglie» alla fine della prima Guerra del Golfo. Falluja è il cuore del triangolo sunnita, l’area più ferocemente ostile all’occupazione americana. Si trova nella provincia di al-Anbar (grande un terzo dell’Iraq, con capitale Ramadi), sconvolta in queste settimane dagli scontri dell’operazione «Matador». Crocevia forzato tra Baghdad e la Giordania, Falluja conta 350 mila abitanti (oltre 600 mila con i sobborghi) ed «è la città delle moschee e della scienza», racconta a Diario Fedhil Badrani, corrispondente locale per la Bbc e la Reuters, «con una forte cultura tribale e tradizionale, diversa dal resto dell’Iraq. Quasi tutti i giovani vanno a scuola o all’università e gli impiegati della pubblica amministrazione sono in maggioranza donne. Per contro, c’è la maggiore concentrazione di moschee del Paese e internet non si è mai sviluppato».

All’arrivo degli americani, i leader locali (religiosi, capitribù e organizzazioni professionali) cominciano subito una trattativa con il comando, basata sempre sullo stesso punto: fuori i soldati dalla città, qualsiasi problema lo risolveremo noi. Ma il 23 aprile i militari Usa entrano in città occupando sette scuole e la sede del partito Baath. 150 paracadutisti dell’82esima divisione Airborne si installano nella scuola elementare Al Qaed, nel quartiere centrale di Nazzal. La gente non sa più dove far studiare i figli. Inoltre non vuole i soldati, è preoccupata della loro presenza, si sente violata nell’intimità, visto che giorno e notte i marines scrutano dai tetti con i loro binocoli fin dentro le case. Il 28 aprile scendono in strada alcune centinaia di abitanti del quartiere, si dirigono verso la scuola, urlano. I paracadutisti aprono il fuoco: 14 morti sul campo e 3 in ospedale, dopo due ore di attesa per l’autorizzazione al passaggio delle ambulanze. I feriti sono una settantina. Non ci sarà nessuna scusa ufficiale o indennizzo, il «prezzo del sangue» in questo caso non viene pagato. Due giorni dopo la scena si ripete, questa volta, secondo il capitano Michael Marti, gli americani sparano solo «colpi ben mirati»: tre morti e 16 feriti. I due episodi sono documentati a fondo dall’organizzazione Human Rights Watch nel bollettino del giugno 2003, che accusa i militari Usa quanto meno di «uso sproporzionato della forza».

La città scioccata. I marines, intanto, si stabiliscono nella vicina base di Camp Baharia. Chiedono il disarmo in città e cominciano a farsi più intraprendenti. Si registrano i primi attentati e un clima di ostilità diffusa. La spirale è iniziata. I marines di notte vanno in cerca di armi e baathisti. Irrompono nelle case al buio per mancanza di energia elettrica, entrano armati gridando in una lingua che nessuno capisce, violano l’intimità delle coppie, i maschi vengono picchiati, come raccontano tante denunce raccolte dalle organizzazioni internazionali. I bambini assistono alle scene di violenza e all’umiliazione dei loro genitori e fratelli, che spesso vengono interrogati con il mitra puntato. Le donne vengono costrette in strada senza velo, in camicia da notte. A volte arrestate come ostaggio nell’attesa che il ricercato si presenti alla base statunitense. Le case vengono messe a soqquadro e soldi, oro, fotografie, documenti personali portati via e mai ridati.

Per i fallujiani è uno shock. La città passa dalla diffidenza alla condanna. Si comincia a discutere e organizzarsi contro l’invasore. Se gli americani si fossero fermati un attimo sulla storia più recente di questa città, avrebbero letto di un poeta, Maarùf Abd-el-Ghàni ar-Resàfi, che nel 1941 scrisse un’ode a Falluja occupata dalle truppe britanniche: «Uomo inglese, noi non dimenticheremo / la tua crudeltà nelle case di Falluja/ sancita dal tuo esercito, che in ricerca di vendetta / ha versato sugli indifesi un bicchiere di sangue misto a tradimento. / È a questa civiltà e nobiltà d’animo che la tua gente aspira a elevarsi?». Qualche migliaio di fanti indiani e arabi inquadrati nell’esercito inglese riposa ancora a Falluja in un cimitero abbandonato.

Il 12 febbraio 2004 il generale John Abizaid, comandante delle truppe Usa nel Medio Oriente, viene salutato in città a colpi di granate. Ne esce illeso. Quando chiede spiegazioni a un ufficiale iracheno, riportano Fox News e Ap, si sente rispondere: «Questa è Fallujah, che cosa si aspettava?». I marines cercano i colpevoli in una moschea. Nella concitazione rimangono sul terreno due morti civili. Da questo momento gli americani entreranno sempre più spesso nei quartieri.
I mediatori locali, intanto, insistono nel garantire la sicurezza in città a patto che i soldati ne restino fuori. Ogni due giorni andranno alla base Usa, ogni due giorni discuteranno di incursioni e feriti da una parte e dall’altra. Fino al 31 marzo, quando quattro contractor della Blackwater, l’agenzia di sicurezza che protegge anche l’ambasciatore americano John Negroponte, vengono uccisi, martoriati, trascinati legati alle auto e impiccati a uno dei ponti d’accesso alla città. Nello stesso pomeriggio cinque soldati americani saltano su una bomba appena fuori Falluja. L’Iraq è alle prese con l’insurrezione sciita di Moqtada al-Sadr e l’intensificarsi della guerriglia sunnita ovunque. Da aprile 2004 gli attacchi alle truppe della coalizione si triplicheranno (una media di 60 al giorno).

LA PRIMA VOLTA.
L’ingegner Fawzi Mohammed Modhin è il direttore della fabbrica del cemento di Falluja. Ha 48 anni ed è molto rispettato in città. Come membro del consiglio cittadino ha partecipato a tutte le trattative con gli ufficiali americani di Camp Baharia. È consigliere del Comitato per la ricostruzione di Falluja. Lo incontriamo in un albergo ad Amman. Abbiamo pronte le nostre domande ma lui si siede sul divano e dice: «Vi devo raccontare tutta la storia».
È la storia che comincia il 9 aprile del 2003 con la sconfitta dell’esercito di Saddam Hussein. «Abbiamo formato subito una delegazione e incontrato gli americani», racconta Modhin, «chiedendogli di non entrare in città, avremmo pensato noi a tutto. Ci rispondono di rimuovere tutte le immagini di Saddam, e noi provvediamo». Conferma che la prima scintilla risale all’occupazione delle scuole: «Dai tetti scrutavano le case con i binocoli, anche di notte. Era un’offesa alle nostre donne e alla privacy». Così si arriva alle stragi delle manifestazioni di aprile. «Da questo momento è un’escalation e comincia la resistenza. Le pattuglie Usa cominciano ad andare in cerca di armi». Modhin spiega che a Falluja tenersi un fucile in macchina è «del tutto normale, per difendersi dai delinquenti». Cita diversi episodi che esasperano gli animi, come quello a cui ha assistito di persona: «Gli americani fermano un anziano che teneva un vecchio kalashnikov in macchina. Lo lasciano sdraiato a terra per un’ora e mezzo davanti al ristorante al-Abbasi, in modo che tutti vedano, tenendogli un piede sulla testa». Questo metodo, usato comunemente dagli americani per immobilizzare i fermati, viene vissuto dagli iracheni come una grave umiliazione, un oltraggio.

La prima battaglia. Alla fine del 2003, in città si forma il consiglio locale cittadino, che si assume il compito trattare con gli americani. «Ci siamo incontrati diverse volte con il colonnello Brian Drinkwine (un comandante dell’82esima Airborne, ndr) per denunciare i soprusi, ma senza grandi risultati», ricorda l’ingegner Modhin. Anzi, dopo il fallito attentato al generale Abizaid, «la presenza americana in città è ancora più forte». Il 31 marzo 2004 Falluja va in mondovisione per il massacro dei quattro contractor americani. «Sono stati ammazzati in macchina in centro, sulla strada principale, vicino al ristorante al-Albadiya», ricorda ancora l’ingegnere. «I killer sono scappati subito, ma lì vicino c’erano dei giovani che stavano scaricando un camion. Sono loro che cominciano ad accanirsi contro i cadaveri». Il consiglio prepara un documento di scuse, «non per l’uccisione, visto che secondo noi erano agenti della Cia, ma per lo scempio dei corpi». Lo firmano imam, leader tribali, organizzazioni professionali, la classe dirigente della città. «Lo abbiamo portato alla base, ma gli americani ci hanno offeso rifiutando le nostre scuse. Ci hanno detto di mandarle ad Al Jazeera o ad Al Arabiya. Ci siamo anche offerti di arrestare i responsabili dell’episodio».

La notte del 3 aprile 2004 gli americani cominciano a circondare la città. Le trattative sono di fatto ancora in corso e il presidente del consiglio locale, l’avvocato Saadallah al-Rawi, fa un tentativo estremo. Alle due di notte incontra il colonnello dei Marines John Tolan e gli spiega che se al momento solo il 3 per cento dei fallujani è impegnato nella resistenza, in caso d’attacco sarebbero diventati l’80 per cento. Il colonnello Tolan «rispose che la cosa dipendeva da ordini superiori».

Il giorno dopo comincia la prima battaglia di Falluja. I pesanti bombardamenti durano due settimane. Il sito Iraqi Body Count (www.iraqibodycount.net) conta che «tra 572 e 616 dei circa 800 morti erano civili, e oltre 300 di questi erano donne e bambini». Tra i soldati americani, le vittime di aprile a Falluja e dintorni sono 34. L’ingegner Modhin parla di «circa mille morti» e ne ricorda «150 in una sola notte di bombardamenti. Una casa con 25 persone era stata completamente rasa al suolo. Gli americani», conclude, «permisero l’evacuazione dei feriti più gravi verso Baghdad solo dieci giorni dopo l’attacco». Gli americani decidono però di non occupare una città ancora piena di civili. Una rinuncia di cui si tornerà a discutere: per i falchi del Pentagono, l’attacco di novembre sarà la conclusione di questo lavoro lasciato a metà.

L’attacco a Falluja genera un’estesa solidarietà. A Baghdad moschee sciite e sunnite organizzano convogli umanitari e accoglienza per le famiglie sfollate. Il Centro trasfusionale al Medical City Hospital è gremito di iracheni che vogliono donare il sangue. Mentre il ministro dei Diritti umani si dimette, quello della Sanità cerca di minimizzare e ostacolare gli aiuti. Le ong internazionali e locali denunciano l’assedio e si mobilitano per cercare di far arrivare aiuti alla città. Premono per l’apertura di un corridoio umanitario sempre negato dai responsabili militari americani. I primi aiuti, tra cui quelli portati dall’Ong italiana Un ponte per..., arrivano su macchine civili che riescono ad aggirare i check point passando per le piste del deserto. Un autobus con a bordo volontari e giornalisti indipendenti porterà fuori i primi feriti. La spedizione è organizzata da Ghareeb, il compagno del nostro Enzo Baldoni, ucciso durante il suo rapimento. Mentre i convogli umanitari ufficiali aspetteranno una settimana prima di poter entrare.

LA RESISTENZA DEL POTERE.
L’unica volta che gli americani entrano nella città è il 10 maggio 2004. Rana Mustafa, fixer di molti giornalisti e coordinatrice dell’ong Internationl Peace Angel, è lì. L’abbiamo incontrata ad Amman: «Ero riuscita a entrare a Falluja aggirando il check point principale dove c’era un incredibile schieramento di mezzi militari e mi avevano bloccata». Si sparge la voce che i Marines vogliono pattugliare la città e tutti temono che la tensione si alzi. «Vado subito al municipio, sulla strada principale», riprende Rana. «La scena era surreale. Il silenzio era rotto solo dal rumore dei carri armati, l’unità americana era completamente circondata e protetta dalla polizia e dalla guardia nazionale irachena. C’era molta tensione». Poco dopo arriva la conferma: gli americani pattuglieranno. «Il quel momento il plotone si schiera, le forze irachene lo circondano e cominciano a camminare verso il check point all’entrata della città, distanza un chilometro. Di fatto stanno uscendo dalla città. Questo sarà tutto quello che faranno. La Guardia nazionale e la polizia irachena ritornano verso il centro della città sventolando le bandiere irachene. Gli americani hanno lasciato la città, a Falluja iniziano i festeggiamenti. Dalla palazzina di fronte al municipio», ricorda ancora, «i combattenti che aspettavano l’evolversi della situazione cominciano a sparare in aria, a riversarsi per le strade e per la prima volta molti mostrano la loro identità togliendosi le kefiah. Canti, segni di vittoria, donne che piangono i mariti o i figli morti e offrono dolci ai combattenti. Camion pieni di fallujiani cominciano a girare per le strade. È festa: gli americani hanno lasciato la città, Falluja ha vinto, almeno oggi». Le truppe statunitensi non entreranno più fino all’attacco di novembre.

Il giorno dopo, una grande tenda davanti all’ospedale Rahma (in costruzione) ospita i notabili della città, personalità sciite e sunnite giunte da Baghdad, Ramadi, Najaf. Turbanti, kefiah, grisaglie di funzionari dell’ex regime riunite per festeggiare «la vittoria». Sui muri scritte inneggianti ai mujaheddin, manifesti e murales preparati dalla Islamic Media League. L’inviato di Asia Times, Nir Rosen, riporta il discorso d’onore del trentasettenne Dhafer al-Ubeidi, sceicco della vicina moschea di Hadhra, oppositore incarcerato più volte da Saddam, soprannominato «la lingua dei mujaheddin»: «Non c’è mai stata un’unità come questa nella storia dell’Iraq». La «liberazione» di Falluja è paragonata a quella di Gerusalemme nel 1187, a opera del «feroce» Saladino. Falluja è al suo apice, la resistenza pure.

In realtà, salafiti e wahabiti dentro le mura non sono affatto contenti degli accordi con il nemico. Gli americani cominciano a criticare il generale Jassim Muhamad Saleh, comandante del neonato «esercito di protezione di Falluja», rientrato in città con la divisa e le stellette dell’epoca di Saddam tra due ali di folla festanti. Secondo, James Conway, generale del primo corpo di spedizione, le brigate locali avrebbero dovuto continuare pattugliamenti e rastrellamenti «sotto il comando e il controllo operativo dei marines». Jassim, invece, collabora con i notabili locali. Verrà rimosso con l’accusa di aver guidato la repressione dopo la prima Guerra del Golfo e sostituito; le truppe gli rimarranno fedeli. Per il controllo delle strade e la sicurezza siamo punto e a capo. D’altronde, come racconta a Diario il giornalista Fedhil Badrani, in quel momento «il migliore affare della città sono le milizie e la polizia, e tra loro ci sono buone relazioni».

La questione al Zarkawi. Non tra tutti, però. L’8 giugno, 12 soldati delle brigate locali sono uccisi in un attacco di mortaio. Due giorni dopo un uomo d’affari libanese e due iracheni al seguito, rapiti all’entrata della città, vengono ritrovati sgozzati. Il portavoce della coalizione, Mark Kimmitt, annuncia un possibile rientro delle truppe a Falluja. Il 15 giugno sei camionisti sciiti che trasportavano rifornimenti per le brigate vengono rapiti, torturati e uccisi. I familiari accusano Abdallah al-Jànabi, «l’emiro di Falluja», capo del Consiglio dei mujaheddin, di essere il mandante. A Falluja, invece, molti pensano a una provocazione esterna. Il Consiglio, detto anche della shura, era formato dai principali gruppi della resistenza, da religiosi e leader tribali. Al-Jànabi nega e sottolinea comunque «l’empietà» degli sciiti che aiutavano gli americani e gli vendevano alcol.

Il 19 giugno, gli americani inaugurano la campagna di ricerca di Abu Musab al-Zarkawi a Falluja. Ogni due o tre giorni ci sono bombardamenti mirati. Il venerdì seguente, dopo la preghiera, una manifestazione di qualche migliaio di persone contro gli americani nega la presenza del terrorista giordano in città e denuncia l’uccisione dei camionisti sciiti. Al-Jànabi incita i sunniti all’unità contro coloro che vogliono la «fitna», la guerra intestina, il peggio per la comunità. «Quella su al-Zarkawi è stata una campagna mediatica orchestrata per dipingere la nostra città come la culla di tutti i mali dell’Iraq», commenta Modhin. «Ad aprile tutti gli iracheni ci sostenevano, da questo momento in poi le cose sono cambiate e a novembre ci siamo ritrovati soli. La campagna ha funzionato bene».

Alla fine di luglio viene annunciata l’espulsione dalla città di 25 mujaheddin stranieri (giordani, siriani e sauditi). Contemporaneamente alcuni gruppi della resistenza (Esercito di Maometto, Squadrone vittorioso di Allah, Rabbia islamica) espongono in tutte le moschee una dichiarazione comune che chiede il sangue di al-Zarkawi, nemico dell’Iraq e dell’islam, invitando la popolazione all’unità con gli «amici» sciiti. Pochi giorni dopo, l’aviazione americana bombarda una casa e uccide 14 persone. Obiettivo dell’operazione: al-Zarkawi.

18 gruppi contro gli Usa. Fedhil Badrani descrive a Diario la composizione della resistenza a Falluja: «C’erano 18 gruppi di insorgenti, appartenenti ciascuno a una fazione a carattere religioso o nazionalistico. Non esisteva un coordinamento, ognuno aveva la sua strategia, quello che li accomunava era la volontà di difendere la città. Molti erano ufficiali del regime di Saddam. C’era però una guida religiosa che gli americani avevano individuato, al-Jànabi». In un’intervista a Newsweek del 9 agosto, lo sceicco nega la presenza di combattenti stranieri e l’esistenza stessa di al-Zarkawi. Condanna le decapitazioni e coloro che rubano e rapiscono nel nome dei mujaheddin: «La vera resistenza colpisce l’occupazione americana e britannica». Al-Jànabi è però definito un «criminale islamico» dall’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq, che il 25 ottobre denuncia un crescendo di violenze e intimidazioni nei confronti delle donne di Falluja: «Siamo strette tra l’occupazione e la jihad islamista che vuole stabilire un califfato nel nostro Paese». La solidarietà attorno alla città «vittoriosa» scema. Troppi conflitti, voci, attentati.

A settembre si intensificano i bombardamenti sulla città, con almeno 50 morti, oltre ai «100 insorgenti uccisi», secondo un portavoce americano, l’8 settembre a Suhada e Nazzal. Da ottobre gli attacchi diventano quotidiani, i quartieri più colpiti sono Jolan, Suhada, Jubail, Al Askari, i principali teatri del successivo attacco. Ci sono scontri a fuoco nella aree sud ed est. Nella notte del 14 ottobre i carri armati Usa distruggono 50 case e circondano la città. Il primo giorno di Ramadan (18 ottobre), Badrani racconta alla Bbc di una città in clima di assedio dove non c’è nulla da festeggiare e mangiare. Le azioni militari coinvolgono tutte le zone calde del triangolo sunnita. Samarra viene attaccata a ottobre: 120 terroristi morti, secondo fonti militari. Ramadi è praticamente assediata. Le punizioni collettive sono diffuse. Adamiah, quartiere sunnita di Baghdad, rimane per giorni isolato, chiuso dai check point americani, con la corrente tagliata, linee telefoniche in tilt, arresti indiscriminati.

Alla fine del mese lo studio statistico della rivista Lancet stima 100 mila vittime civili in tutto l’Iraq dall’inizio della guerra. I ricercatori escludono Falluja dai loro calcoli perché il numero dei morti nell’area è talmente alto da far «impazzire» il dato nazionale. «Nella provincia di Al Anbar abbiamo rilevato un tasso di mortalità dopo l’invasione americana del 18 per cento, elevatissimo», spiega a Diario Les Roberts, il responsabile della ricerca. «Le 29 famiglie della provincia che abbiamo intervistato nel nostro campione contavano 24 bambini, 25 ragazzi e uomini, tre anziani morti in modo violento». Fanno due morti a famiglia.

LA TRATTATIVA TRADITA
L’attacco di novembre si poteva evitare? La battaglia di Falluja sarà addirittura controproducente rispetto alla futura pacificazione del Paese? Non lo pensano solo i pacifisti. Il generale Fabio Mini è stato comandante della forza Nato (Kfor) in Kosovo. Sul Corriere della sera del 22 settembre scrive un commento sulla «strategia perdente» americana in Iraq, in vista della battaglia di Falluja. «Quelli che sei mesi fa erano indicati come “qualche migliaio” di terroristi, estremisti e ribelli, sono diventati oltre 20 mila prima della battaglia di Falluja (di aprile, ndr) e ora, secondo fonti del Pentagono, sono oltre centomila» tra «Falluja, Baquba, Samarra, Ramadi, Mahmudya, Iskandariya, Al Latifiya, e la parte di Baghdad conosciuta come Sadr City, con i suoi due milioni di abitanti... Quello che vorrebbe la politica», continua il generale, «non è ottenibile con i tempi e i metodi della guerra tradizionale», basta leggere «le dichiarazioni del generale dei marines James Conway, che salutando i suoi ha detto che nella battaglia di Falluja prima ha ricevuto un ordine e poi altri sempre diversi: “Quando si dà un incarico bisogna conoscerne le conseguenze e poi si deve consentire di portarlo a termine”».

Siamo in piena campagna elettorale americana e John Kerry ha appena rotto gli indugi attaccando frontalmente Bush sull’Iraq: «Il presidente ha compiuto una serie di decisioni catastrofiche dall’inizio e a ogni bivio ci ha condotto nella direzione sbagliata». Kerry non avrebbe votato a favore dell’intervento se avesse saputo la verità sulle armi di distruzione di massa, così non vota il rifinanziamento alla missione; non vuole il rientro delle truppe, ma una strategia migliore, concordata con gli alleati e meno dispendiosa. La soglia psicologica dei mille morti americani in Iraq è stata appena superata (oggi sono più di 1.600). I repubblicani rispondono con una campagna in grande stile: pubblicità in cui Kerry cambia posizione ogni trenta secondi come una pallina da flipper, accuse di opportunismo e di aver fatto carriera sulla pelle dei veterani del Vietnam. Vincerà Bush e la guerra continuerà sui binari segnati. Ma in Iraq, scrive ancora Mini, «non è possibile alcuna distinzione fra combattenti e non combattenti. La distruzione infrastrutturale significherebbe radere al suolo quanto superi l’altezza di una torretta di un tank Abrams... La battaglia sarebbe una mattanza che alienerebbe ancora di più i rapporti con la popolazione e che non darebbe alcuna assicurazione di stabilità futura».

Per evitare questa «mattanza», le trattative sono intense. In estate i fallujani formano una delegazione di 20 membri (religiosi, medici, avvocati, ex militari del regime di Saddam) guidata da Sheikh Khalid Hamud al-Jumaili, imam della moschea di Al Furkan. Dall’altra parte del tavolo ci sono diversi rappresentati del governo iracheno ad interim, guidato da Iyad Allawi. L’Unami ufficialmente non partecipa, ma dietro le quinte cerca di facilitare una soluzione pacifica. «Fin dall’estate abbiamo proposto che l’esercito iracheno prendesse possesso della fascia intorno alla città per controllare il territorio e gestire i check point», spiega Mohamad Tareq al-Deraji. «La sicurezza interna sarebbe stata affidata agli ex militari che vivevano a Falluja. In questo modo gli americani non avrebbero avuto alcuna necessità di entrare». La trattativa prosegue e, secondo al-Deraji, ai primi di ottobre l’accordo sembra fatto: «Il ministro della Difesa, lo sciita Hazem al-Sha’alan, disse che al governo occorrevano tre giorni per stendere l’accordo finale e firmarlo». Ma il 13 ottobre Allawi appare in televisione e dà un ultimatum a sorpresa: «Se i fallujani non ci consegnano al-Zarkawi e il suo gruppo, faremo un’azione militare contro la città». Al- Zarkawi non era mai stato nominato durante gli incontri. Una doccia fredda. È la fine della trattative. Diverse fonti Onu a Baghdad confermano a Diario che è proprio la richiesta di consegnare il terrorista giordano a chiudere definitivamente la strada verso una soluzione pacifica. «Al-Zarkawi era un pretesto», commenta un alto funzionario dell’Unami. «So che Allawi ha confidato a Qazi (Ashraf Jehangir Qazi, inviato speciale di Kofi Annan per l’Iraq, ndr) di non avere alternative all’azione militare. Gli americani volevano eliminare Falluja», conclude il funzionario, «e ci sono riusciti. Anche se oggi il 90 per cento della popolazione è rientrato, la città non è più una vera entità sociale dell’Iraq».

Al-Zarkawi non c’è più. I fatti successivi gli danno ragione. Al briefing del Dipartimento della Difesa del 9 novembre, appena un giorno dopo l’attacco, il generale Thomas Metz, responsabile delle operazioni militari americane in Iraq, liquida serenamente la questione al- Zarkawi: «Credo che sia… è giusto ritenere che sia scappato». Il giorno prima il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld aveva risposto così: «Non ho idea di dove sia». «Non potevamo consegnare al-Zarkawi perché non l’abbiamo mai visto né abbiamo mai saputo che fosse a Falluja», commenta al-Deraji. Peraltro molti iracheni (e non solo) sono convinti che il giordano sia uno spauracchio inventato, o almeno «pompato», dagli americani per giustificare la loro permanenza nel Paese.

Il 15 ottobre l’imam al Jumaili, il capodelegazione dei fallujani, e il capo della polizia vengono arrestati dagli americani a Baghdad e detenuti per tre giorni. I notabili della città tentano l’ultima carta, quella di un diretto coinvolgimento dell’Onu. Inviano una lettera ufficiale a Kofi Annan, firmata da tutte le principali organizzazioni: «La città era tranquilla e in pace quando era governata dalla sua gente», scrivono. «La nostra unica colpa è non aver dato il benvenuto alle forze d’occupazione. È nostro diritto secondo la Carta dell’Onu… Chiediamo che l’Onu sia coinvolta in qualsiasi situazione riguardi la città di Falluja per evitare un nuovo massacro». Combinano un incontro con Qazi, che si svolge al Palazzo dei congressi della Zona verde di Baghdad. «Abbiamo offerto la nostra diponibilità a partecipare alle elezioni di gennaio», ricorda al-Deraji, una scelta difficile che divide le fazioni della città. «Qazi informò Annan proponendosi come mediatore tra noi e gli americani».

La lettera di Annan. Annan decide quindi di mandare una lettera riservata ad Allawi, al premier britannico Tony Blair e al presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Il suo contenuto, però finisce sui giornali. È il 4 novembre, Falluja è sotto un pesante bombardamento che prelude all’attacco. Il segretario generale dell’Onu chiede di evitare l’uso della forza e di impegnarsi a rilanciare un processo di riconciliazione nazionale in vista delle elezioni. I destinatari rispondono pubblicamente e senza diplomazia. Secondo Allawi, l’intervento di Annan è «confuso», per il governo Blair «completamente in torto», «inopportuno» e «sgradito» per l’amministrazione Bush, che sottolinea il vantaggio che l’Onu offrirebbe così ai terroristi. A questo punto, ogni speranza di risolvere la crisi senza le armi è perduta. Gli Usa chiederanno all’Unami di inviare nei dintorni della città attrezzature da campo per gli sfollati, confida ancora a Diario l’alto funzionario. «Ci siamo rifiutati, non volevamo dare la nostra copertura a un’azione del genere».

Ad Amman abbiamo incontrato John Pace, il capo dell’Ufficio diritti umani della missione Onu in Iraq, che ci ha confermato la totale contrarietà all’attacco: «Il nostro approccio è che l’uso della violenza non aiuta a eliminare la violenza», dichiara Pace. «Non fa diminuire gli attentati e coinvolge la popolazione civile, destabilizzando ancora di più l’Iraq. La strada è quella della mediazione, con il coinvolgimento della comunità internazionale».

LA FURIA FANTASMA.
Gli americani battezzano l’attacco a Falluja «operazione Phantom Fury», furia fantasma. Poi, pare per intervento del governo iracheno, l’operazione diventa una più mite «Al-Fajr» , l’alba. Ai primi di novembre, intorno alla città sono schierati circa 12 mila soldati: quattro battaglioni dei Marines e due dell’esercito (compreso il Settimo cavalleria), più 2 mila uomini di quattro battaglioni dell’Esercito e delle forze di sicurezza irachene (che in parte non si presentano), comandate dal generale Abdul Qader Mohammed Jassim Mohan. Fra loro c’è il 36esimo Battalion Commando, composto in gran parte da ex miliziani curdi peshmerga e sciiti del Badr. È il braccio armato dello Sciri, il Supremo consiglio per la rivoluzione islamica in Iraq (uno dei partiti vincitori delle elezioni del 30 gennaio), che durante la guerra Iran-Iraq combatterono con Tehran. Il 36esimo è noto per l’estrema durezza verso la popolazione sunnita. Infine, il Black Watch Battalion britannico è incaricato di sorvegliare la riva occidentale del fiume Eufrate, unica possibile via di fuga dalla città assediata. Sul fronte nemico, gli americani stimano 3-6 mila combattenti a Falluja, in mezzo a una popolazione ormai ridotta a 50-60 mila persone. Gli obiettivi annunciati sono la cattura o l’uccisione di al-Zarkawi e la conquista del «porto sicuro» della resistenza, come viene definita Falluja.
Per il via libera si attende la fine della campagna elettorale americana, che Bush non vuole affrontare con una sanguinosa battaglia in corso. Il 2 novembre il presidente viene rieletto. Tra il 5 e il 6 la città viene pesantemente bombardata nelle zone est e nord. Domenica 7 il premier Allawi, che dà formalmente l’ordine di attacco, dichiara lo stato di emergenza in tutto l’Iraq (esclusa la zona curda) per 60 giorni. In serata le forze della coalizione sigillano ogni via d’accesso. Nessuno può più entrare o uscire. Acqua ed elettricità sono tagliate. L’autostrada da Baghdad è bloccata ad Abu Ghraib, a più di 50 chilometri da Falluja. Alle 19 scatta il D-Day, l’inizio dell’operazione Al-Fajr.

La pulizia. Nella prima mattina dell’8, i soldati occupano il General Hospital, l’unico completamente attrezzato di tutta la città. Si trova fuori dal centro abitato, al di là del ponte sull’Eufrate, che viene preso dai Marines insieme a quello più a sud. A questo punto ha inizio l’attacco vero e proprio. Le «truppe della coalizione» (in realtà solo americani e iracheni) penetrano da nord, nordest e nordovest. I primi combattimenti pesanti sono nella zona ovest, dove i ribelli rispondono con armi pesanti, razzi Rpg, mortai, mitragliatrici. Nei giorni successivi, le truppe americane e irachene avenzano da nord a sud mentre continuano i bombardamenti. Cinquanta missioni aeree e 15-20 attacchi di artiglieria al giorno, spiegherà il generale Sattler il 18 novembre.

Il combattimento è casa per casa. «Il 90 per cento delle volte facevamo saltare tutto perché eravamo sotto il fuoco nemico», racconta a Marine Corps News il 24 novembre il caporale Michael R. Emans, geniere dell’Ottavo Marines. Il suo compito è far esplodere le porte degli edifici che i soldati devono «ripulire». «La distruzione è molto gratificante», commenta il ventiduenne caporale. La tecnica di ingresso è descritta in un rapporto non ufficiale compilato da tre membri del Terzo battaglione-Quinto reggimento dei Marines, For the records: Infantry Squad Tactics in Falluja, pubblicato dal sito pro-guerra Soldiers for The Truth (www.sftt.org). «Dopo aver aperto la breccia, il gruppo d’attacco entra e ripulisce (cioè spara, ndr) i primi due locali simultaneamente o ripulisce il soffitto. Gli elementi di supporto assistono gli incursori ripulendo tutte le stanze e sfondando ogni porta». Il rapporto indica alcuni degli esplosivi utilizzati, tra cui il «Molotov cocktail, una parte di detersivo per lavatrice e due di gas... da usare quando il contatto si verifica in una casa e il nemico deve essere fuso». Gli americani segnano con una X rossa le case già ispezionate, con una X cerchiata quelle da distruggere.

I ribelli combattono a gruppi di 3-6 persone. All’inizio l’avanzata è rapida. Il 10 novembre il maggiore dei Marines Francis Piccoli annuncia il controllo del 70 per cento della città. Sono morti 11 soldati americani, due iracheni e «circa 70 ribelli». Da giovedì 11 i dati forniti dagli americani descrivono una battaglia più dura, con la guerriglia asserragliata nella zona sud della città. Le perdite si impennano, da una parte e (soprattutto) dall’altra. Secondo Radio Free Europe, i ribelli uccisi sono «circa 600», a fronte di 18 morti americani (con 178 feriti) e 5 dell’esercito iracheno. Per tre giorni gli americani non riescono ad avanzare. Il 13 lanciano bombe «bunker busting» da 2 mila libbre (oltre 9 quintali) su «un complesso di tunnel usato dalla resistenza, in un’area di 400 metri per 300», comunica Voice of America. La mattina di domenica 14 il generale Sattler annuncia che Falluja «è stata liberata», anche se continuano le operazioni di «pulizia» casa per casa. Le agenzie militari Usa celebrano la riapertura del ponte di Falluja, quello dove erano stati esposti i resti dei quattro contractors massacrati.

Feriti, morti, fantasmi. Sattler detta all’agenzia di stampa militare Afis la stima americana delle vittime in città: «1.000-1.200 nemici combattenti uccisi». Definisce la stima «conservative», prudente. Non dà (e nessuno darà mai) alcuna stima dei nemici feriti. In teoria dovrebbero essere molte migliaia, secondo il normale rapporto morti/feriti di qualunque battaglia. Che fine abbiano fatto resta uno dei più grandi misteri di Falluja. Il numero totale di prigionieri è 1.052, annuncia il 15 novembre il colonnello dei Marines Michael Regner. Troppo pochi per contemplare anche i nemici feriti raccolti sul campo di battaglia. Questo alimenta il sospetto che fossero uccisi sul posto, come documentato almeno in un caso dall’operatore della Nbc Kevin Sites, che ha filmato l’uccisione a freddo di un ferito in una moschea. Gli americani non daranno mai alcuna stima sulle vittime civili. Interrogato in proposito dalla giornalista Pam Hess dell’Upi nella stessa conferenza stampa del 15 novembre, Regner evita semplicemente di rispondere.

Falluja è «liberata», ma i combattimenti proseguono intensi, soprattutto a sud. Il 18, il generale Sattler annuncia la «fine dell’attacco» e comunica il bilancio finale dell’operazione Al-Fajr: 51 soldati americani morti e 425 feriti; 8 morti tra le forze irachene, con 43 feriti. «Non mi risulta che alcun civile sia stato ucciso», afferma, «so solo di 25-30 feriti che abbiamo curato. Posso onestamente dire che non so di alcun civile ucciso». Il giorno dopo il generale Lance Smith, vicecomandante del CentCom, aggiorna il dato sui combattenti uccisi: «Tra i 1.200 e i 1.600», secondo una stima di nuovo «conservative» dei Marines, «quindi i feriti sono molti di più, ma probabilmente anche i morti». Sui feriti, ancora una volta, nessuna delucidazione in più. Il 21 novembre la Mnfi (Multinational Force in Iraq) fornisce l’ultimo dato sui prigionieri: 1.450, di cui 400 già rilasciati e 100 in procinto di tornare a casa. Il 3 dicembre il generale David Rodriguez, dello Stato maggiore Usa, illustra al Dipartimento della Difesa i risultati finali: «L’operazione Al -Fajr è stata un serio colpo all’insorgenza a Falluja» e la città «non è più una centrale del terrorismo». Spiega che sono stati trovati 350 depositi di armi, otto prigioni di ostaggi, e che «diversi ospedali, cimiteri e circa 25 moschee sono stati usati come postazioni di combattimento» dai ribelli.

Gli «arabi» scomparsi. Ma che fine hanno fatto i combattenti «arabi», gli stranieri arruolati dal terrorismo internazionale? Il 15 novembre il colonnello Regner dice che sui 1.052 prigionieri «1.030-1.040 sono iracheni». Un rapporto dei Marines del 20 novembre (intitolato Telling the Falluja Story to the World) racconta con dovizia di particolari i depositi di armi trovati, ma al capitolo «Coinvolgimento di combattenti stranieri» elenca appena due prove rinvenute: l’agenda del «gruppo di Abu Hamza» con 12 nomi stranieri (prevalentemente sauditi e siriani) e un ricevitore satellitare gps con connessione siriana. La resistenza stroncata dall’operazione Al-Fajr era irachena, e per lo più genuinamente fallujana. Intanto attacchi e attentati infiammano altre città del Paese, in particolare Ramadi e Mosul, dove molti combattenti sono riusciti a rifugiarsi.

I CIVILI CHE C'ERANO
Quando comincia la battaglia un fallujano su sette se ne è andato. Molte fonti locali raccontano però che tutti i maschi in età militare che lasciano la città prima del 7 novembre vengono arrestati e interrogati. «Le forze americane hanno sigillato tutte le strade e hanno usato altoparlanti e volantini per annunciare ai residenti che avrebbero arrestato tutti gli uomini sotto i 45 anni che cercassero di uscire dalla città o di entrarci», afferma un servizio di Al Jazeera del 5 novembre. Oltre ai veri resistenti, in città restano quelli che non hanno un posto dove andare. Qualcuno sta di guardia in casa per evitare saccheggi. I civili ci sono. Ecco la loro verità su Al-Fajr, l’«alba» di Falluja.

Mustafa al-Jumaili (l’unico dei fallujani incontrati ad Amman che ha chiesto di essere citato con uno pseudonimo) è un chirurgo maxillo-facciale. Negli attacchi di aprile e novembre si è dato da fare per curare i feriti in cliniche di fortuna. Ci mostra il suo nuovo documento d’identità: una piccola tessera plastificata rilasciata dalla «First Marine Division». Al-Jumaili ha raccolto la testimonianza di un collega, il dottor Salih al-Isawi, in quel momento direttore del Falluja General Hospital occupato il 7 novembre. «Nell’ospedale entrarono i marines e un’unità della Guardia nazionale irachena che la popolazione chiama la “cattiva compagnia”». È il famoso 36esimo Battalion Commando, come conferma l’agenzia di stampa militare americana Afis l’8 novembre. «Il direttore stava preparando la sala operatoria per accogliere i primi feriti», riprende al-Jumaili. «Andò incontro ai soldati per qualificarsi e un marine lo colpì alla spalla con il calcio del fucile». I soldati fanno sdraiare tutti a terra, un medico sciita non trova posto e lo metttono giù a calci insultandolo: «Motherfucker, fallujano, terrorista, wahabita...!». Vengono tutti legati con le fascette di plastica, e quelli che si lamentano ricevono un’ulteriore stretta. Uomini dell’intelligence irachena cominciano a interrogare tutti, in cerca di «terroristi». Intanto i militari iracheni «cominciano a saccheggiare l’ospedale, portando via coperte, medicinali, qualunque cosa fosse vendibile, e sfasciando le attrezzature». L’ospedale si trova fuori città, oltre il ponte, e ci lavorano tutti i chirurghi di Falluja. Non potranno più rientrare per tutta la durata della battaglia. Il 9 novembre Allawi dirà ad Al Arabiya che al Falluja General Hospital «quattro terroristi stranieri si sono arresi e altre 21 persone sono state trovate nascoste nei sotterranei». Un comunicato dell’Mnfi aggiunge che l’ospedale è stato occupato per «renderlo disponibile alla popolazione». Resterà irraggiungibile per i successivi dieci giorni. Buhran Fas’a, operatore della tv libanese Lbc, entra a Falluja l’8 e vede «cecchini sul tetto del General Hospital, che sparavano a qualunque cosa si muovesse».

La guerra degli ospedali. Nella notte tra il 5 e il 6 viene colpito il Nazzal Emergency Hospital, costruito nell’aprile 2004 da alcune associazioni umanitarie saudite. «Sono morti almeno tre membri del personale medico», racconta a Diario Fedhil Badrani, il giornalista della Bbc. La mattina del 9 novembre, sempre a Nazzal, viene rasa al suolo la clinica del quartiere. Al Jazeera ne dà notizia e il CentCom smentisce immediatamente, poi il giorno dopo afferma che è stato distrutto «un edificio» con una bomba guidata al laser. Di un terzo caso è testimone il dottor Al-Jumaili: «La mattina dell’8 a Nazzal è stata distrutta la Clinica medica centrale, una struttura privata della cooperazione internazionale. Speravo di utilizzarla per l’emergenza ma non c’era più». Soltanto l’ospedale giordano, vicino alla base statunitense, non verrà attaccato e saccheggiato. Ma rimarrà isolato e irraggiungibile.

Il dottore fa quello che può nel piccolo ambulatorio privato al-Hadhra, vicino all’omonima moschea. «Il giorno dell’attacco la città era piena di cecchini e carri armati, hanno sparato due volte anche a me mentre andavo all’ambulatorio. Tra i primi feriti c’erano molte e donne e bambini, noi avevamo scelto di non curare combattenti per non finire in mezzo alla battaglia. I bombardamenti erano pesanti», continua, «i display dei cellulari andavano in tilt e mostravano numeri a caso. Tutte le apparecchiature elettroniche funzionavano male. Ho visto gente colpita e uccisa mentre ci portava i feriti. Ho visto un uomo arrivare con la faccia devastata da schegge di cluster bomb. Ci raccontavano delle loro case bombardate. Noi non avevamo ambulanze, potevamo dar loro solo un po’ di speranza. Il nostro staff era composto da me, da un farmacista, un ortopedico, un pediatra... A volte curavo la gente per telefono e consigliavo di trovare una farmacia ed entrarci a forza». Il dottore mostra il braccio ferito di striscio da un cecchino mentre andava dal vicino di casa a chiedere acqua, visto che «quasi tutte le cisterne erano state colpite». Il giorno prima era stato mancato di poco mentre andava in bagno nel giardino di casa sua.

«Tra l’11 e il 12 novembre ho contattato un medico che avevo conosciuto alla base, il dottor William, perché volevo evacuare i feriti e i civili», racconta ancora al-Jumaili. «Sono stato arrestato dall’esercito iracheno, poi sono riuscito a parlare con un ufficiale americano. Lui non credeva che ci fossero ancora civili a Falluja ma alla fine mi ha concesso di uscire con la bandiera bianca per raccogliere le persone nella moschea di al-Hadhra. In un’ora ho raccolto una decina di famiglie. Presi con me quattro uomini, li portai alla moschea a prendere acqua e cibo, ma uno di loro fu ucciso mentre tornava a casa. Due giorni dopo nella moschea c’erano 200 persone». Ma invece di evacuare le persone come promesso, spiega il dottore, «gli americani trattennero e controllarono tutti, li marchiarono con un numero e fecero il test per vedere se avessero sparato. In pratica, mi avevano utilizzato per arrestare le persone che avevano avuto fiducia in me, facendomi fare la figura della spia». Lo stesso giorno il generale Mohan conferma che sono in corso verifiche su «300 persone circondate in una moschea».

e vittime mai contate. Fedhil Badrani è rimasto in città per tutta la durata dell’attacco ed è stato testimone oculare dell’incursione americana in una casa dove si era rifugiato durante i bombardamenti del 14 novembre: «Mi trovavo in un’abitazione nel quartiere di al-Jumhuriya, vicino al mercato al-Hodar, in centro. Ero in compagnia di tre persone, tra cui un disabile e un anziano. Intorno alle due del pomeriggio gli americani hanno bussato alla porta, hanno gettato una granata e sono entrati. Due degli abitanti sono stati feriti gravemente, uno in modo lieve, ma era pieno di sangue. Io mi sono nascosto. Il ferito lieve ha fatto finta di essere morto. Gli altri due che rantolavano sono stati finiti a colpi di pistola alla tempia. Quando sono usciti, i soldati hanno detto “Bye” con un sorriso beffardo».

Badrani spiega che il conto delle vittime civili è difficile perché in quei giorni era impossibile muoversi attraverso la città, ma «una stima effettuata tra gli ospedali, gli imam e i cittadini parla di oltre tremila». Molti cadaveri sono stati sepolti «nei giardini delle case o sono rimasti sotto le macerie». Racconta anche che all’inizio dell’attacco «donne, vecchi e bambini fuggivano verso le moschee o l’esterno della città, diventando un bersaglio facile. La maggior parte di quelli che scappavano dalle case è stata uccisa». I combattimenti più violenti si sono svolti nei quartieri di Jubail e Suhada. Ora Jubail sembra un immenso campo da calcio, le case sono cumuli di macerie», conclude il giornalista.

Tiro a segno sull’Eufrate. Sono tante le testimonianze sul fatto che gli americani non distinguessero tra civili e combattenti. Ecco che cosa è successo a Bilal Hussein, fotografo dell’Associated Press, nel racconto della stessa agenzia il 14 novembre. Il 9, dopo essersi mosso casa per casa sotto il fuoco continuo, Hussein raggiunge l’Eufrate. Pensa di attravversarlo a nuoto per lasciare Falluja: «Ma ho cambiato idea quando ho visto gli elicotteri americani sparare e ammazzare la gente che cercava di attraversare il fiume». Vede massacrare «una famiglia di cinque persone», poi aiuta a seppellire un uomo sulla riva, «scavando con le mani». Vede i cecchini Usa appostati lungo il fiume, così è costretto a rimanere in città per altri cinque giorni, durante i quali l’Ap non avrà più sue notizie. Curiosamente proprio il giorno dopo quel lancio d’agenzia, il colonnello Regner sente il bisogno di ricordare che «quando gli americani hanno preso il controllo dei due ponti a ovest di Falluja (l’8 novembre, ndr), molti nemici si buttavano nell’Eufrate». Sull’episodio c’è un’altra testimonianza diretta: «Ho visto civili che tentavano di attraversare l’Eufrate e i cecchini sparare contro di loro», racconta Buran Fa’sa a Dahr Jamail, il giornalista americano di origine libanese che realizza uno dei siti più seguiti sulla guerra in Iraq (http://dahrjamailiraq.com/). Fa’sa è testimone di molti altri episodi: «Ho visto civili colpiti per strada, feriti abbandonati, morti seppelliti nei giardini, non c’erano medicine né soccorso. I militari Usa intimavano con altoparlanti di arrendersi e uscire dalle case, ma pochi lo facevano. Poi entravano e davano ordini in inglese che nessuno capiva, moltissimi sono morti per questo». Infine, «il 16 novembre mi trovavo nel quartiere Jumariyah, sulla strada che chiamano Clinic Street. C’erano stati pesanti combattimenti per strada, a terra c’erano una ventina di corpi di combattenti e alcuni civili feriti. Ero alla clinica alle 11 del mattino e ho visto davanti a me i carri schiacciare i feriti».

L’ordine: «Uccidete a vista». Lo stile dell’attacco a Falluja ha scandalizzato anche molti militari americani. Uno di loro, che si firma «hEkLe»*, ha pubblicato un lungo resoconto nella newsletter GI Special (curata da Thomas F. Barton, diffonde testimonianze di soldati americani al fronte) e partecipa al blog www.ftssoldier.blogspot.com. Diario lo ha contattato e gli ha rivolto alcune domande. «I nostri superiori ci dicevano: “Qualunque iracheno non appartenga alle forze della coalizione è un insorgente. Uccidetelo a vista”. Questo è l’ordine esatto, testuale, che molti dei nostri soldati hanno ricevuto». Il soldato Hekle racconta di aver «assistito al massacro di Falluja» da un Humvee del Tactical Assault Commando. «Ci hanno indotto a credere che tutti i civili avessero abbandonato la città e che quindi ogni vittima fosse un ribelle. Così finivamo per sparare a chiunque sembrasse anche solo vagamente iracheno. Alla fine persino ai poliziotti, per sbaglio naturalmente». A proposito del mistero dei feriti, Hekle afferma che il volume di fuoco dispiegato dagli americani «era tale che dubito ci fossero molti sopravvissuti nelle aree colpite. Dai racconti dei miei commilitoni so che i pochi combattenti e civili feriti sono stati curati adeguatamente. Personalmente, non ho visto nessun iracheno ancora vivo. Le strade erano piene di cadaveri, molti erano sicuramente combattenti perché Falluja era davvero una roccaforte dei ribelli. So invece che i nostri elicotteri sparavano su tutti quelli che cercavano di attraversare l’Eufrate per fuggire».

Il soldato conferma che i maschi in età militare che cercavano di lasciare Falluja «venivano arrestati e caricati sui camion. Due o tre giorni prima dell’inizio dell’operazione, invece, venivano rimandati indietro». Hekle precisa che ormai, per il comando americano, l’«età militare» va dai 12 ai 50 anni. «La cosa ha un qualche fondamento perché ho personalmente partecipato a un’operazione in cui c’era un bambino di dieci anni incaricato di portare i caricatori degli AK 47 ai combattenti durante gli scontri».

Hekle testimonia di un largo uso di bombe al fosforo a Falluja. «Noi soldati le chiamiamo Willy Pete. Sono altamente incendiarie e uccidono indiscriminatamente. Bruciano tutto l’ossigeno e se colpiscono un essere umano in genere lo consumano fino all’osso. Dopo l’esplosione lasciano un fumo tossico che può provocare gravi ustioni interne. Le bombe al fosforo sono state studiate per le battaglie in campo aperto, non certo in una città abitata». Infine, il soldato americano conferma a Diario il durissimo comportamento delle truppe irachene contro la popolazione: «Gli americani spesso le usano per incursioni in case sospette. Ricordo un caso in cui c’era un iracheno sotto interrogatorio, negava tutte le accuse e all’improvviso un membro delle Forze speciali irachene gli ha spaccato la testa con il calcio della pistola. In situazioni di emergenza cominciano a sparare a caso in mezzo alla folla. Gli americani li usano come una sorta di Gestapo per tenersi le mani pulite, per esempio rispetto alle Convenzioni di Ginevra. Solo che ormai sembrano del tutto fuori controllo e creano grandi grattacapi ai nostri vertici».

Il lavoro sporco. Ecco che cosa si legge nel rapporto del Centro studi sui diritti umani di Falluja del 14 gennaio: «Testimoni oculari hanno confermato che la cosiddetta Guardia nazionale irachena ha rapinato case e magazzini usando le proprie vetture ufficiali, e ha venduto la refurtiva a Baghdad, con l’approvazione delle forze americane e delle autorità irachene, come se fosse una ricompensa o un dono di guerra». Nel verbale della riunione del 24 febbbraio 2005 della Fallujah Relief and Reconstruction Task Force del ministero dell’Industria, si legge che «il rappresentante del ministero dell’Emigrazione afferma di avere foto della Guardia nazionale che spara ai suoi funzionari, impedendo la distribuzione di coperte, cibo in scatola e stufe». Rana Mustafa entra a Falluja il 21 novembre. Racconta la durezza dei check point gestiti dalle forze irachene, dove veniva insultata e offesa per il solo fatto di portare medicine e cibo ai civili: «Non dimenticherò mai l’allegra musica gipsy che mettevano a volume altissimo ai posti di blocco dove i fallujani cercavano di entrare per vedere le loro case, per cercare parenti e amici. Uno sfregio alle loro sofferenze. Hanno bruciato case e laboratori, hanno ucciso, hanno scritto frasi religiose sciite e ingiurie sui muri di Falluja. Sono riuscita a entrare solo grazie all’intervento di un capitano dei marines che mi ha scritto una lettera da presentare a ogni posto di blocco».

Il giornalista Fedhil Badrani conferma a Diario che oggi la città è controllata dalla Guardia nazionale «che i fallujani chiamano Guardia degli atei. Sono dappertutto e i cittadini non amano il loro comportamento. Appartengono per la maggior parte a Farìq Fager («squadra dell’alba», o «dell’esplosione», ndr), sciiti addestrati in Iran. Ci sono anche membri di Gaysh Marja, di Jalàl al-Talabàni (il leader curdo attuale presidente iracheno, ndr), che sembrano essere stati messi lì proprio per distruggere gli arabi, odiati per motivi religiosi». La prima cosa che Mohamad Tareq al-Deraji ci ha raccontato ad Amman, appena arrivato da Falluja, è il recente arresto di 70 persone da parte della Guardia nazionale: «Le hanno rilasciate dietro il pagamento di mille dollari a testa, e molte di loro avevano bruciature di sigarette sul corpo». Il comandante delle forze irachene a Falluja «è il generale Mehdi, uno sciita della milizia Badr». La preoccupazione per il comportamento dei soldati locali tocca anche il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che nel briefing dell’8 novembre (appena dopo la presa del Falluja General Hospital), interrogato sui rischi per i civili risponde: «I militari americani – posso parlare per loro e non per quelli iracheni – sono ben disciplinati e addestrati». Più volte, nei briefing successivi, gli alti ufficiali Usa precisano che certi «lavori» sono stati assegnati ai militari iracheni per non suscitare risentimenti. Come le incursioni nelle moschee.

La battaglia delle moschee. La «notte di Qadr» cade il 10 novembre. È la notte della rivelazione del Corano e della remissione dei peccati: «È pace fino al levarsi dell’alba» (Corano, Sura 97). Gli angeli e lo Spirito dovrebbero scendere sulla terra portando a ogni cosa il suo destino. Quello di molte moschee è segnato lo stesso giorno. Al-Hadra al-Muhammadia, nel centro esatto della città, viene conquistata in una delle più dure battaglie di tutto l’attacco. È la moschea dell’imam moderato Duferi al-Ubeidi, dalle sue stanze quotidianamente passano il capo della polizia, notabili e politici (anche di governo). Sui suoi muri vengono affissi i bollettini dei gruppi della resistenza e gli inviti alla popolazione a diffidare dei «falsi mujaheddin» che chiedono il pizzo ai commercianti. All’interno una scuola, una biblioteca e un ambulatorio medico gratuito. Lo stesso giorno un’altra importante moschea, al-Tawfiq, viene occupata e Khulafa al-Rashiden viene colpita da due raid aerei che distruggono il minareto e parte della struttura. Il 15 novembre il colonnello Regner descriverà ai giornalisti l’attacco chirurgico: «C’è un’immagine che ho mostrato al premier Allawi, con un minareto con tre o quattro cecchini. Il minareto è stato colpito con eccellenza ingegneristica e non un solo mattone è caduto sulla moschea a 20 piedi di distanza».

Il comando Usa aveva chiarito subito che tutti i luoghi di culto usati dai ribelli armati avrebbero perso lo status protetto. Nel corso della battaglia, il CentCom lamenta più volte che combattenti «stranieri» usano moschee, scuole, ospedali per attaccare e immagazzinare armi. Donald Rumsfeld, la settimana dopo, parlerà di 66 moschee usate come depositi di armi, mentre all’inizio di dicembre il generale David Rodriguez, vicecapo delle operazioni regionali, riferisce di 25 moschee da cui sparavano i ribelli. Alla fine dell’attacco il Comitato per la ricompensazione conta 65 moschee rase al suolo o distrutte.

«A Falluja stanno tutti bene». Durante tutta l’operazione Al-Fajr, le autorità americane e irachene insistono nell’affermare che a Falluja «non c’è alcuna crisi umanitaria». «L’esercito Usa è in grado di fornire qualsiasi supporto alla popolazione e non abbiamo visto civili in difficoltà», afferma il colonnello John Ballard, responsabile per gli aiuti umanitari dei Marines, il 16 novembre. Croce e Mezzaluna rossa chiedono ogni giorno il lasciapassare, ma nessun aiuto, ambulanza o staff medico entrerà in città per 15 giorni (in alcuni quartieri per più di un mese). Il comando militare oppone ragioni di sicurezza. I convogli d