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Pericle, Tucidide e l'ignoranza dei suprematisti democratici

di Alessandro Sergio - 17/03/2025

Pericle, Tucidide e l'ignoranza dei suprematisti democratici

Fonte: Alessandro Sergio

Dal funereo palco del 15 marzo a Roma in Piazza del Popolo in cui si sono esibiti alcuni volti noti del panorama zombi italiano per appoggiare, sostanzialmente, il riarmo europeo affinché le giovani generazioni possano farsi massacrare in una guerra suicida contro la Federazione Russa, spicca per ignoranza storica e bassezza morale l’apparizione dell’attore Fabrizio Bentivoglio che rilegge il celebre discorso di Pericle agli ateniesi. Discorso come al solito travisato nella sua sostanza, per dare a credere alla massa udente che lo stratega ateniese, con la sua orazione, avesse intenzione di comporre l’elogio della democrazia e rimarcare così la superiorità ontologica del sistema democratico rispetto a tutti gli altri sistemi (cioè quello spartano, tendenzialmente oligarchico). È proprio l’esatto contrario, e per comprenderlo va anzitutto inquadrato il contesto storico e politico in cui questo discorso si tenne, pronunciato non senza intenti di manipolazione da parte di Pericle ai danni della massa popolare.
Il discorso è invero un epitaffio, ovvero una commemorazione funebre per i caduti in guerra nel corso dell’anno. Questi discorsi si tenevano ogni inverno, durante la sospensione delle ostilità a causa delle avversità meteorologiche. In genere era un cittadino illustre a pronunciare l’orazione che si svolgeva nei pressi del demo del Ceramico, dove era situata la necropoli pubblica. Dopo la commemorazione e la processione, infatti, si procedeva alla cremazione in loco delle spoglie dei defunti periti in guerra. Il tutto avveniva a spese dello Stato. Assistevano pubblicamente tutti i cittadini, ovvero i soli maschi: i figli, i padri, i fratelli che avevano perduto il proprio caro; le donne, madri, mogli e sorelle situate da un’altra parte, procedevano alle lamentazioni funebri. Perciò si trattava tutt’altro che di un’occasione lieta in cui celebrare i fasti della democrazia in un’atmosfera irenica di festività. Ma questo Bentivoglio non lo premette, altrimenti il suo discorso, spacciato per elogio della democrazia, si rivelerebbe per ciò che è: una volontà ferma di proseguire la guerra al nemico, costi quel che costi, anche a prezzo di fiumi di sangue.
Il discorso di Pericle ci proviene dal libro II (35-46) de La Guerra del Peloponneso, a opera dell’ateniese Tucidide. A quel tempo Atene è in guerra con Sparta da un anno. Il noto discorso funebre riguarda dunque i caduti in guerra del primo anno. È il 431/430 a.C. e Tucidide ricompone, con qualche correzione ma lasciando inalterato lo stile pericleo, il discorso che proprio Pericle ha pronunciato dinanzi ai cittadini.
Il giornalista che ha riportato la notizia servendosi di una data errata (461 a.C.) è perciò l’ennesimo campione di gretta ignoranza. A quel tempo Pericle, probabilmente, non era neanche mai stato eletto alla carica di stratego prima d’ora. E comunque i fatti narrati da Tucidide si tengono almeno un trentennio dopo. Da dove ha cavato tale data, 461 a.C., il “giornalista”? Facendo qualche ricerca, ho constatato che la data erronea campeggia da anni su molti siti. Il giornalista ovviamente, ignorando totalmente l’opera tucididea e il suo contesto storico, politico e sociale, non s’è dato pena di controllare la veridicità della datazione: ha semplicemente fatto una ricerca e la prima data che ha intercettato ha ritenuto fosse corretta. Così funziona l’informazione. È così che lavora la maggior parte dei giornalisti. Pensate se a causa di questi ignoranti e in malafede – stipendiati per scrivere senza nemmeno avere idea di ciò che fanno, mentre inneggiano al riarmo e alla guerra – un domani i vostri figli venissero mandati al fronte a farsi massacrare.
Torniamo al discorso di Pericle. Spetta infatti proprio a lui in persona, stratega assieme ad altri nove colleghi (la strategia è la massima carica ateniese, sia militare che politica) prendere parola. L’anno in corso è stato alquanto difficile per lo stratega. Pericle, in carica da decenni, rischia di vedere la sua stella tramontare. La guerra contro la coalizione spartana, che egli tanto ha voluto, sta arrecando sofferenze, lutti e privazioni agli ateniesi: l’esercito nemico ha devastato i dintorni dell’Attica e tutti i cittadini che prima risiedevano all’esterno sono ora costretti a rifugiarsi nel perimetro delle mura della città. Di lì a poco una misteriosa malattia (forse una febbre tifoidea) falcidia la popolazione a causa delle scarse condizioni igieniche dovute all’ammassamento di migliaia di persone accorse per sfuggire alle razzie spartane. Pericle medesimo perirà l’anno successivo per il contagio. Ma anche questo l’intrepido intellettuale da salotto per la guerra (in cui a morire saranno i figli degli altri) non lo premette: ne occulta il contesto di morte, l’atmosfera di strazio, dolore, lutto e privazione. Bentivoglio vuole il riarmo, ma ben si guarda dal riportare gli effetti diretti della guerra, analiticamente descritti da Tucidide, per parlarci invece di una favola mai esistita.
Cosa ci dice Tucidide in merito al discorso di Pericle che Bentivoglio utilizza come “prova” della superiorità ontologica della democrazia? Dopo il discorso di Pericle, Tucidide ci lascia alcune preziose informazioni che rivelano gli intenti che agitano il generale. Tucidide ci porta con mano ai motivi reali di quel discorso. Sempre nel libro II (65), scrive infatti che Pericle «con questo discorso tentava di far sfumare l’avversione che gli Ateniesi avevano concepito per la sua persona e, in più, di distrarre il loro spirito dalle presenti e via via più grevi difficoltà». Nondimeno, Pericle riusciva sempre a cavarsela e infatti «dominava senza lasciarsi dominare». È chiaro quindi che Pericle necessita di tenere quel discorso in cui si elogia l’ordine politico ateniese in quel momento così travagliato per garantirsi il proprio salvacondotto politico. E più avanti, annota ancora Tucidide: «Nominalmente, vigeva la democrazia: ma nella realtà della pratica politica, il governo era saldo nel pugno del primo cittadino». Qui perciò l’autore ci dice a chiare lettere, per tutti i Bentivoglio, che la democrazia c’era solo a parole: nei fatti vigeva il comando di una sola persona: Pericle.
Va ricordato che, a differenza del bellicista Bentivoglio, Tucidide si intendeva di guerra, politica, diplomazia, storia ed economia, essendo stato egli stesso coinvolto in prima persona in quel conflitto in qualità di stratego (quindi come collega e collaboratore di Pericle), quale protagonista e testimone di molti eventi di primo piano narrati da lui stesso. Dunque, Tucidide non si limita solamente al sentito dire, o a raccogliere informazioni e compulsare fonti di prima mano (un lavoro già immane per l’epoca sua) ma vive egli stesso gli eventi che narra: è inserito nello stesso milieu pericleo; è ai vertici, per alcuni anni, della politica di potenza dell’impero ateniese. Amministra inoltre, per conto di Atene, una miniera in cui lavorano e trovano la morte migliaia di schiavi per arricchire le casse dell’impero e sostenere la prosecuzione della guerra. Conosce bene, come un fine psicologo sociale ante litteram, gli umori popolari, ne studia continuamente le emozioni e le atmosfere. Per cui sa bene che ciò che Pericle dà in pasto alla massa è solo un discorso che serve alla prosecuzione di una guerra contro il nemico “geopolitico”: Sparta e la sua coalizione. La democrazia, o «il nome che gli conviene» (II, 37), non c’entra nulla, assolutamente nulla. Pericle, e tutto il mileu oligarchico in carica, prima e dopo di lui, scende da sempre a patti, per garantirsi la sopravvivenza politica, con quella parte popolare alquanto consistente che è il demo, per l’appunto. Pericle si gioca il tutto per tutto e tenta di ricomporre, abilmente, il conflitto latente che agita (e agiterà) Atene per gli anni a venire. Tucidide ovviamente elogia Pericle perché entrambi fanno parte dello stesso entourage. Bentivoglio elogia l’Europa per il riarmo perché, evidentemente, è anch’egli è in contiguità con quell’entourage che preme per la mobilitazione dei popoli in senso bellico, per la sottrazione dei fondi che altrimenti sarebbero destinati a coprire le esigenze sanitarie, di istruzione, energetiche, ecc. di milioni di persone.
Insomma, prima ci viene detto dai loro scranni che bisogna studiare; che bisogna informarsi; che il popolo è ignorante e per questo vota i candidati sbagliati; e che è per questo che c’è la crisi, eccetera. Poi però questa massa gelatinosa di esseri è libera di ruttare ai microfoni da palchi blindati ciarlando della qualunque, con crassa ignoranza e quella spocchia tipica degli intellettuali chic da salottino tappezzato di fuffa e null’altro, che non hanno nemmeno la minima idea di quanto costi un litro di olio d’oliva o a quanto sia schizzato il prezzo dell’energia. Ma sono certi, anzi sicurissimi, che la via del riarmo sia cosa buona e giusta; e addirittura vorrebbero mandare i figli (degli altri, beninteso) a suicidarsi contro la Russia, o contro qualche altro popolo che (sempre essi, ci assicurano) non sa cosa sia la democrazia, mentre da noi invece è esercizio che pratichiamo ininterrottamente, tutti i giorni, dai tempi di Pericle.
Piccola chicca per il tronfio Bentivoglio, il campione della “democrazia”: dopo quasi trenta anni, al prezzo di migliaia di morti (un numero altissimo per l’epoca), la completa distruzione delle sue mura (che avevano garantito la tenuta di quel sistema), della sua flotta (che garantiva la sua proiezione di potenza sul mare Egeo) e della sua economia, Atene quella guerra la perse. Fu così che si compì il suo suicidio geopolitico, da cui non ebbe mai più a risollevarsi.