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Perchè si è arrivati al neoliberismo?

di Pierluigi Fagan - 18/04/2024

Perchè si è arrivati al neoliberismo?

Fonte: Pierluigi Fagan

Nell’enorme letteratura critica sul neoliberismo, sembra mancare l’analisi causale più basica: quali ragioni hanno portato a costruire e poi affermare questo complesso teorico e pratico dalle tante sfumature e versioni? Se definiamo il neoliberismo come la forma più estrema, tendente totalitaria del liberalismo classico, come mai compare a partire da una composizione stratificata addirittura risalente agli anni ’30 del Novecento e perché ha un salto di impeto a partire dagli anni ’70? A leggere certe analisi pochi anni fa sembrava che i capitalisti fossero stati rapiti da una inusuale epidemia di voracità insaziabile. Infatti prima si accontentavano…

Ecco una fotografia di macroeconomia storica da cui partire:

Fonte: World Bank database, indici di crescita Pil annuo, Paesi OCSE-OECD

Si tratta dell’andamento tendenziale della crescita del Pil nei paesi OCSE-OECD tra 1960 e 2020. Si noterà che tende a scendere. La crescita, condizione sine qua non del sistema capitalistico, tende a decrescere in tendenza inequivoca negli ultimi settanta anni. Un bel problema.

Perché tende a decrescere? L’impressione è che il complesso teorico che armeggia introno questi argomenti, a volte tende a perdere il buonsenso materiale che fa da sottostante l’economia reale. Una ragione di questa tendenza allarmante, l’ha proposta uno economista storico americano, R. J. Gordon (Northwestern University), secondo il quale, le rivoluzioni tecniche e scientifiche di fine Ottocento e primi Novecento, non hanno avuto replica nella seconda metà del Novecento stesso ed ancora fino ad oggi.

Fa eccezione ovviamente la rivoluzione info-digitale a cui oggi si tenta di porre attorno quella bio-cogno-info-digitale (NBIC). Rilevante, importante, ma quando si vanno a mettere i numeri reali sotto, ben meno di quanto solitamente riteniamo. Ricca anche di contraddizioni interne poiché cresce anche per cannibalica incorporazione di attività che già contribuivano a Pil e crescita. Inoltre, distruggendo lavoro umano deprime potere d’acquisto stante che le cose che vendi qualcuno deve pur comprarle per chiudere il cerchio e far lievitare la torta.

Si tratterebbe di tornare alla storia della realtà in luogo dell’analisi economica astratta. Questa ha depositato la strana convinzione che il sistema capitalistico fosse una specie di sistema motore immobile, senza materia e senza storia, una metafisica. Invece è dipendente da materia ed energia ed è storico. Così, se tra fine Ottocento e primi Novecento tra termodinamica, elettricità, telecomunicazioni, chimica, meccanica quantistica, è stata festa grande, non era detto -ed infatti così è stato- che anche nei decenni successivi la festa di scoperte da convertire in cose da convertire in lavoro-ricchezza, fosse garantito. Semplicemente siamo a curva logistica con coda lunga di fenomeno storico che ha già dato il meglio di sé. Un brillante futuro alle spalle.

Senza crescita, il sistema deperisce, dà meno dividendi, mostra disordine riflesso nelle società ordinate dal paradigma economico produttivo-consumistico a base mercato, perde la sua stessa funzione ordinativa. Le nazioni che vi si riferivano con maggior convinzione perdono potenza relativa. Non è tanto che il capitalismo sta finendo il suo ciclo o meglio si avvia a questa fine, ma ha solo terminato il suo compito storico di sfruttamento ed accompagno uno sviluppo inusuale ed per quanto significativo, al momento irripetibile. E’ naturale finisca essendo forma storica dipendente dal mondo reale e concreto, finito e limitato anch’esso.

Si ricordi a libera memoria l’elenco di nuovi prodotti e servizi degli ultimi settanta anni sempre però avendo conoscenza almeno storica e documentale dei precedenti settanta. Le innovazioni sono davvero scarse in numero e qualità. Qualche corso di yoga e vari servii creativi, macchinette elettroniche per passatempo e poi Internet ovvero passatempo gigante, la televisione 3D, i monopattini elettrici, qualche razzo nello spazio vicino, uno o due robot che fanno le capriole, servizi-servizi-servizi spesso inutili e forzati. Rispetto a macchine, aerei, treni, navi, motori, energia fossile, agenti chimici, elettrificazione, acqua corrente, nuovi materiali, televisione, radio, giradischi, lavatrici, rivoluzioni medico-sanitarie etc etc. non c’è partita.

 

Dopo il simpatico professore della Northwestern Columbia, una specie di menagramo col quale hanno provato a fare i conti in molti senza trovare totali finali diversi, TED consiglia in vena di par conditio, di sentire l’altra campana ovvero l’entusiasta Erik Brynjolfsson (Stanford University. Stanford è il cuore accademico storico della rivoluzione A.I., a suo tempo finanziato da ARPA/Pentagono come SRI), convinto che la festa si può rilanciare con l’immateriale mentale info-digitale conditi da ottimismo. Ottimismo? Il professore forse non ha mai preso un bilancio d’azienda in mano, numeri, più-numeri meno=saldo, l’ottimismo non è in equazione. Si rimane basiti dalla leggerezza di questo speach, un misto di speranze con induzione al limite dell’impossibilità. Questi opinion leader hanno in genere partecipazioni azionarie ad imprese del loro campo, per questo diventano piazzisti e vanno in conflitto di interessi. Furono gli inglesi, gente poco incline alla metafisica e parecchio incline alla fisica, a porre ai primi del Seicento il problema di numerare-pesare-misurare i fenomeni prima di partire in quarta a chiacchierare. Il professore di Stanford l’ha fatto? Gli si è alzata la curva della crescita? Pare di no, ripeto, se andate a percentualizzare il contributo dell’immateriale al Pil americano vedrete che la massa critica dell’economia è ancora ben saldamente materiale. Tra l’intera dilatazione banco-finanza e la c.d. ICT siamo ad occhio siamo sotto meno il 20% del totale. In Francia, Germania ed UK molto meno. Sembra più speranza del tipo “religione del cargo” o convention motivazionale. I riferimenti ironici a Gordon poi sono molto più da polemica da bar sport che confronto accademico.

 

Nel frattempo, sono incappato in un libro che a proposito del ns Gordon, dice che ricerca per altro della stessa Stanford 2020 conferma che l’efficienza con cui i ricercatori americani generano innovazioni si dimezza ogni 13 anni! Poi c’è il lamento sul fatto che non è diventato sempre più raro inventare nuovi farmaci e molecole chimiche a vario uso (M. Ford, Il dominio dei robot, Il Saggiatore, Milano, 2022). Il riconoscimento facciale non dei WASP arranca, auto e camion a guida autonoma peggio, robot domestici tipo Jetson scordateveli. Meglio il militare, il sanitario, l’alimentare, la gestione magazzino Amazon&Co. È storia che la ricerca e sviluppo dell’A.I. dopo sbornie di eccitazione ottimista contagiata tra commerciali, finanziari startuppisti, e militari, arrivano regolari cicli di delusione conosciuti come “inverni A.I.”. Insomma, Brynjolfsson ha ottimismo ma non della ragione.

Gordon nella sua presentazione fa dell’ironia:

Poiché gli economisti, specie i tra i più astratti che abbondano, non hanno preparazione MIT-disciplinare (multi-inter-trans), se vi fate quattro passi nella scienza, cosa vedete? In fisica nulla della seconda metà del Novecento è paragonabile alla doppia rivoluzione quanto-relativistica. In chimica viviamo di rendita della tavola di Mendeleev. In biologia c’è stato effettivamente un boom da Watson-Crick ed il DNA in poi, ma a numeri, di nuovo, siamo a piani incomparabili. In piena infiorescenza invece le Scienze Cognitive, ma siamo agli esordi. Molti, troppi dati e poca teoria generale, nuovi paradigmi. Ti puoi attaccare strutturalmente al problema climatico (quello ambientale anche più urgente e necessario andrebbe in conflitto con le logiche del capitale) ed usarlo per farci qualche soldo, ma siamo a ben poca cosa se numerate-pesate-misurate il fenomeno.

Chi invece si trova davvero sulla rampa di lancio per brillanti futuri è la parte del mondo non OCSE-OECD, destinato a replicare lo sviluppo dei primi con ampie condizioni di possibilità davanti, tranne i limiti delle materie prime, le cautele eco-climatiche, i contraccolpi geopolitici. Ma questo sviluppo di una parte è anche contrazione dell’altra, la nostra, che come detto ha già i suoi problemi strutturali e di dinamica storica.

Ecco allora che la famiglia dei neoliberismi (tedesco e primo americano dai contenuti più pratici prima della Seconda guerra ed a seguito il collasso del ‘29, austriaco e di Chicago dai contenuti più ideologici dopo) sorge come raschiamento del barile, la messa in moto di tutti i fattori, lo stress totale del sistema, l’ultima raccolta, la mobilitazione integrale e sempre più intensiva dell’intero mondo umano che gli è sottoposto e sottoponibile. Controllando ora sempre più gli Stati, l’intera società, diventa un incubo neoliberale, un frantoio di spremitura di valore da tutti i pori degli individui, delle società, degli stati, degli individui. In effetti, era questa -in parte- la tesi anche di W. Streeck, Max Planck Institute di Colonia, nel suo “Tempo guadagnato” Feltrinelli, 2013.

La wave neoliberista venne premessa con la decisione di Nixon di passare al denaro metafisico nel 1971, ne è stata la precondizione poiché da lì in poi il valore diventava finanziario e non più produttivo. Tre anni ed il principe dei teorici politici, S. Huntington, presenta il nuovo concetto di “governance”, la nuova priorità con la quale la politica doveva triangolare con finanza ed economia neoliberale, questi oligarchici hanno la fissa dei triangoli e delle piramidi da Pitagora e Platone. La governance necessaria ed invocata a gran voce per far funzionare il sistema doveva prendere il posto della democrazia per quanto versione elementare post-bellica. A quel punto si poteva anche lasciare la produzione al resto del mondo (oddio non c’era alternativa nella logica del sistema) e specularci sopra come mostra l’elefante di Milanovic. Questa, in essenza, la globalizzazione: asiatici in crescita, occidentali in decrescita infelice, pochissimi occidentali con capitali che hanno scommesso sulla crescita del Resto del mondo, diventati una inarrivabile super-élite.

Così l’Occidente si trova ora con la società più diseguale degli ultimi secoli, vessata da una gabbia d’acciaio neoliberista che ne devasta il tessuto sociale e lo stesso equilibrio mentale individuale e l’impossibilità sia di pensare una alternativa, sia di pensare un futuro.

Per pensare al futuro che tanto ci sarà neoliberismo e capitalismo o meno, toccherebbe fare una capriola gestaltica ovvero rovesciare la forma mentale, poi quella sociale. Sono queste le fasi che chiamano le rivoluzioni di paradigma à la Khun. Tra le immaginabili, togliere la funzione ordinativa alle nostre società della funzione economica e darla a quella politica, democratica reale. Ma molti fanno fatica a concepire realtà e tempo, s’immaginano che il mondo vada ad interruttori, vorrebbero uscire dallo stato delle cose degli ultimi almeno due secoli come si cambia vestito, con un “oplà!”. Niente salto quantico, mi dispiace, quello che abbiamo davanti è titolabile: la Grande Transizione. Molti soffrono ora, vorrebbero soluzioni ora, c’è il rischio che quando capiranno che “nei tempi lunghi siamo tutti morti”, non sentiranno proprio alcun progetto di cambiamento profondo. Tuttavia, realismo vuole che sia così.

Abbiamo davanti almeno tre decenni almeno di attraversamento trasformativo con, da una parte il moto reale e concreto che subiremo e dall’altra la possibilità di sviluppare complessi di pensiero ed azione politica e sociale che potrebbero aiutarci a gestire il passaggio facendolo diventare una uscita felice da un collasso storico al motto di “Democrazia o barbarie!”.

A volte, capita che finisci col nascere ai tempi della Peste Nera, della Rivoluzione industriale, tra due guerre mondiali, che ci vuoi fare? A noi è toccata in sorte la Grande Transizione, subirla o farci il surf?